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Storia dell’Utopia. Un percorso didattico (1982/83)

Come ricordavo in un precedente post

“la scuola difficilmente riesce a mantenere memoria delle sue attività e percorsi didattici, cui si aggiunge la scarsa cura dei suoi archivi. … In solaio ho un certo numero di questi materiali realizzati nelle classi dell’Indirizzo Scienze Umane e Sociali dell’Istituto Cobianchi nelle quali ho insegnato, per cui non penso sia inutile digitalizzare e postare alcuni di quelli che mi sembrano più significativi. Con l’avvertenza che vanno letti collocandoli non solo nel contesto didattico di quei corsi sperimentali ma anche in quello culturale e delle conoscenze dell’epoca.

Il materiale che riporto è stato realizzato nella classe 5^ di Scienze Umane e Sociali (1982/83)[1] e, per quel che mi riguarda, ha rappresentato la prima esperienza di un approfondimento monografico articolato in un percorso introduttivo dell’insegnante, in successivi lavori di gruppo e in approfondimenti individuali[2]. Materialmente il lavoro presentato all’esame era composto di tre fascicoli: il primo (Note critiche) contenente le lezioni dell’insegnante e le relazioni dei lavori di gruppo, gli altri due (Schede analitiche) contenenti 58 schede di lettura realizzate individualmente dagli allievi sulla base di una griglia predisposta.

Storia dell’Utopia. Note critiche

INDICE

I – L’UTOPIA COME GENERE E COME METODO

1» Nascita e significati del termine                              pag.               1

  • Il genere letterario                                                 ”                   2
  • Tipologia                                                               ”                    3
  • Utopia mitica                                                       ”                   3
  • Utopia mistico-profetica o escatologica                ”                   4
  • Utopia assoluta                                                      ”                    5
  • Utopia classica                                                       ”                     7
  • Utopia etnografica e naturalistica                          “                    9
  • Utopia libertina                                                      ”                    10
  • Utopia spaziale                                                       ”                   11
  • Utopia metafisica                                                   ”                   11
  • Fanta-utopia o utopia temporale                           ”                   12
  • Programma utopico                                               ”                   14
  • Ucronia                                                                    ”                   15
  • Utopia negativa                                                       ”                   16

4. La mentalità utopica                                                                     18

5. Utopico e utopistico                                                 ”                  19

6. Lo Spirito dell’utopia                                                 ”                  20

BIBLIOGRAFIA                                                              ”                   22

II – LE ARTICOLAZIONI TEMATICHE

1 Generi letterari e utopia                                         ”                   24

  1. Generi letterari                                                   ”                  24
  2. Fantasy                                                                     ”                   25
  3. Fantascienza                                                          ”                   27

BIBLIOGRAFIA                                                                ”                   29

2. Utopia e psicanalisi                                                  ”                     30

  1. Il simbolismo dell’utopia                                      ”                     30
  2. Eros e utopia in Marcuse                                    ”                       33

BIBLIOGRAFIA                                                              ”                      36

  3. Prigioniera in utopia                                       ”                      37

  1. Donne e utopia                                                   ”                    37
  2. Mentalità utopica all’interno del femminismo    ”                  41

BIBLIOGRAFIA                                                             ”                      42

4. Educazione ed utopia                               ”       43

a)    Il pensiero utopistico                              ”       43

b) Utopia e pedagogia: caratteri generali e sviluppo storico      44

c) La pedagogia “collettivistica” di Makarenco      ”      48

BIBLIOGRAFIA                                                         ”      52

  • Utopia, violenza e totalitarismo                     ”       53
  • La posizione di Popper                                  ”       53
  • La posizione di Baczko                                        ”       54
  • Il totalitarismo sovietico    nell’analisi di Baczko  ”            58

BIBLIOGPAFIA                                              ”            58

L’UTOPIA COME GENERE e COME METODO

Aspetti generali

(Note introduttive dell’insegnante)

  1. Nascita e significato del termine

“Libretto veramente aureo e non meno utile che piacevole sullot­tima forma di Stato e sulla nuova isola di Utopia composto da Tho­mas More, personaggio insigne per fama e sapere, cittadino e sce­riffo della nobile città di Londra”.

È con questa opera, editata Lovanio nel 1516, che compare per la prima volta il termine UTOPIA. La parola deriva dal greco “0U TOPOS” e significa, letteralmente, “non-luogo”, nessun luogo, cioè luogo inesistente ed immaginario. Ma, già negli anni immediatamente successivi, si sviluppò una con­tesa di tipo filologico; infatti alcuni umanisti, vicini al More, ritennero che l“U” iniziale non fosse la contrazione della nega­zione “0U” che solitamente si premette alle forme verbali e non ai sostantivi (la forma corretta sarebbe “A-TOPIA”), ma la contra­zione di “EU” (felice): perciò utopia come “luogo felice”. Nell’edizione di Basilea del 1518 questa duplicità di significato è sottolineata con l’aggiunta ai materiali introduttivi, probabil­mente per opera di Pietro Gilles, di:

Sei versi sull’isola di Utopia
Del Poeta Laureato Anemolio,
Nipote di Itlodeo per parte di sorella

Utopia di Thomas More. ed 1518

“Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento; adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola lo attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di essere chiamata EUTOPIA”.

Al di là della disputa etimologica, che comunque ci fa intravede­re due campi semantici possibili (e probabilmente complementari), il procedimento dell’Utopia consiste nel rappresentare (in genere con ampia e “realistica” ricchezza di particolari) uno stato di co­se fittizio (in genere un’unità socio-politica.: Stato, Città, ecc.) come realizzato in modo concreto:

  1. come strumento di analisi critica nei confronti della realtà sociale e politica esistente;
  2. per prospettare un ordinamento socio-politico giusto e ra­zionale.

Talora questo ordinamento descritto viene interpretato come progetto astratto di difficile o impossibile realizzazione: il “nessun luogo” appunto inteso come rappresentazione puramente fanta­stica. II termine utopia e l’aggettivo utopistico assumono così, particolarmente nel linguaggio comune, una connotazione prevalen­temente negativa.

Ad esempio un certo Sir Thomas Smith, nel 1625, definiva in questo modo l’Utopia: “vana immaginazione, fantasia di filosofi per occupare il loro tempo ed esercitare il loro ingegno“. È proprio la violenza ricorrente di questi attacchi all’utopia (testimoni fra l’altro del suo continuo riemergere in forme nuove), che ci spinge sulla strada della ricerca, dell’analisi e dell’interpretazione delle caratteristiche di una forma di pensiero che non costituisce solo un genere letterario o politico-filosofico, ma una delle forme di rappresentazione intellettiva presente so­prattutto laddove si esprime una volontà di critica e di trasfor­mazione.

2. Il genere letterario

Thomas More, non solo ha coniato il termine, ma ha precisato (anche se non fondato) i caratteri del genere letterario.

Non è solo la finzione del luogo a caratterizzare il modello del­l’utopia; il NOVUNQUE, il “nessun luogo” è infatti categoria comu­ne a tutta la letteratura che, per la sua natura necessariamente metaforica, allegorica, deve procedere a manipolazioni della realtà anche quando la tematica è di tipo realistico.

Il genere letterario utopistico si basa su uno schema ricorrente abbastanza preciso che possiamo così riassumere:

Il NARRATORE è un viaggiatore (in UTOPIA si arriva soltanto con un viaggio più o meno lungo, più o meno inframmezzato da difficoltà, tempeste, ecc.) oppure un naufrago; non è pertanto un eroe attivo, ma uno che “si ritrova” in una situazione su cui non può eserci­tare alcun potere. Non è quindi un personaggio nel senso classico della narrativa, cioè un elemento trainante (o ostacolante) di un processo di trasformazione. Egli arriva in Utopia con una precisa connotazione culturale che è incongrua, che si contrappone alla realtà del luogo; è insomma il rappresentante dell’altro mondo (il qui ed ora del lettore) e su questa base e con questa ottica descri­ve in modo accurato, con un alto grado di specificazione, il nuo­vo mondo di Utopia. La narrazione pertanto è priva di avvenimenti (processo di trasformazione in una o più sequenze), ma si giocai tutta sulla sfasatura fra i due luoghi cioè sulla irriducibile differenza fra il qui del lettore e il là del non luogo. Il qui del lettore spesso non è neppure enunciato, talora appena accennato, ma è comunque costantemente presente come sottinteso critico delia narrazione. II “non-luogo” permette cioè di vedere con occhi di­versi il mondo quotidiano in cui si è immersi.

In alcuni casi può entrare in gioco anche la variabile tempo (pas­sato mitico o futuro più o meno prossimo) ed allora si rende evi­dente il rapporto di progenitura dell’utopia con la fantascienza.

3. Tipologia

All’interno del genere possiamo individuare molteplici varianti. Non si tratta solo della naturale variazione di un genere lette­rario (e, perciò, di una tradizione letteraria) dovuta alle diverse individualità creative degli autori; si tratta molto spesso anche di una trasformazione e una caratterizzazione che, in epoche storiche diverse e di fronte a realtà modificate, il pensiero utopistico ha subito e che si riflette sul genere letterario corri­spondente. L’emergere e il prevalere di una determinante tipologia (per esempio l’utopia negativa in questo secolo) va cioè per lo più collegata ad un ambito storico-culturale preciso.

Nell’analizzare sinteticamente le diverse tipologie, sia per mo­tivi di chiarezza, che per fornire un agile strumento di lettura delle opere utopistiche, ci soffermeremo comunque in modo prevalente sugli aspetti formali e tematici.

Una indagine storico-culturale (per esempio l’utopia nell’età illuministica) può eventualmente avvenire successivamente alla lettura e all’analisi di un certo numero di testi dell’epoca (o del­le epoche) che si desidera prendere in considerazione. (…)

Il fascicolo completo è visionabile > qui <

Storia dell’Utopia. Schede analitiche

Sono state selezionate e reperite cinquantotto opere utopistiche e sulla base della griglia fornita dall’insegnante gli studenti individualmente hanno analizzato i testi ed elaborato le relative schede. 

Una selezione di dodici schede[3] è visionabile > qui <.



[1] La stessa classe che aveva partecipato alla Ricerca sulla popolazione anziana di Verbania.

[2] In questo caso il lavoro è stato realizzato all’interno del Corso di Filosofia, successivamente per questo tipo di attività presentate all’Esame di Stato, è prevalso l’approccio pluridisciplinare, con un progetto realizzato da più insegnanti: cfr. > qui <.

[3] Non era pensabile scansionare e riprodurre i due interi fascicolo (272 pagine complessive; 144 e 128). La selezione (sei dal primo e sei dal secondo fascicolo) ha optato per una scheda per allievo. Inoltre, a parte il doveroso richiamo di Thomas More, in linea di massima ho preferito richiamare autori e/o opere non particolarmente note.

La strage del Lago Maggiore. Una lenta emersione

In occasione dell’80mo dell’eccidio degli ebrei sul Lago Maggiore, all’interno di una molteplicità di iniziative coordinate dall’ANPI di Novara e che hanno coinvolto vari enti e tutti i comuni coinvolti negli eccidi del settembre-ottobre 1943 (Zakhor–Ricorda), alla Casa della Resistenza si è tenuto il Convegno internazionale Storie memorie oblio (13-14 ottobre 2023).

Quale documentazione abbiamo preparato per i partecipanti una bibliografia cronologica che poi ho presentato e commentato nel mio intervento (La strage del Lago Maggiore. Una lenta emersione fra giornalismo, storia locale e familiare) utilizzando delle slide di presentazione. Quella che segue è una ricostruzione del mio intervento cui seguono i due link che permettono di visualizzare sia la Bibliografia cronologica (oltre 200 titoli) che la Presentazione (36 slide)[1].

L’annuncio alla radio, la sera dell’8 settembre ‘43 dell’Armistizio di Cassabile firmato cinque giorni prima, provoca (come in tutta Italia) tra i residenti e i numerosi sfollati presenti nell’area dei tre laghi Maggiore, Mergozzo ed Orta (area settentrionale dell’allora Provincia di Novara) una iniziale euforia incoraggiata il giorno successivo del titolo cubitale “LA GUERRA è FINITA” sul quotidiano La Stampa. Il tragico equivoco viene rapidamente smentito nei giorni successivi con l’arrivo e l’occupazione del territorio da parte della Panzer-Grenadier Division Waffen-SS “Leibstandarte Adolf Hitler”.

Cosa ha comportato quella occupazione tedesca oggi è sufficientemente noto: la ricerca e uccisione degli ebrei presenti con almeno 58 vittime in nove località (Baveno, Arona, Meina, Orta, Mergozzo, Stresa, Pian Nava, Novara, Intra). Una strage che si voleva tener nascosta e che è emersa lentamente con periodi veri e propri di oblio e il riemergere dell’attenzione in periodi particolari come i processi di Torino e Osnabrück che hanno coinvolto alcuni dei responsabili, e dal cinquantenario dell’eccidio nelle ricorrenze decennali.

Quello che oggi soprattutto sconcerta è che di questa strage si sono occupati soprattutto i giornalisti e, sui singoli episodi, storici locali e testimonianze di sopravvissuti e familiari delle vittime. Quello che manca è una ricerca storica complessiva da parte di storici professionisti tanto che anche nei manuali e nelle sintesi storiche del periodo o non se ne parla o vi si accenna con poche righe.

1943 – 1946. “Scomparsi nel nulla” ma non nel silenzio!

È l’Avanti! edizione clandestina piemontese del 30 settembre a dare per prima notizie sugli eccidi all’interno di «una triste cronaca» della occupazione tedesca dopo l’8 settembre. Sia pur con imprecisioni, frutto evidentemente di passaparola, vengono citate le stragi di Mergozzo, Arona e Stresa:

Nella provincia di Novara i nazisti hanno dato la caccia agli ebrei, uomini donne e bambini, con accanimento e ferocia. Due ne hanno ucciso a pugnalate presso il lago di Mergozzo, uno lo hanno arso vivo dopo averlo cosparso di benzina nei pressi di Arona, altri hanno rinchiuso nei locali delle scuole di Stresa e poi, fatti salire in barca di notte, hanno massacrato e gettato nel lago.

Piccoli innocenti restituiti cadaveri dalle acque del Lago Maggiore, uomini e donne per ogni dove in Italia trucidati dalla barbarie nazista.

Altre informazioni vengono riportate il 4 e 18 ottobre nell’edizione milanese della stessa testata con riferimento a Baveno e Stresa.

Il 30 ottobre: l’organo clandestino del Partito d’Azione, «L’Italia Libera», nella edizione romana riporta questa breve cronaca:

Cronache italiane, Eccidio di ebrei sul Lago Maggiore:

«A Meina (Lago Maggiore) la soldataglia tedesca fece irruzione, nella notte dal 3 al 4 ottobre, in un albergo dove alloggiavano 14 italiani ebrei, nella maggior parte donne e bambini. Dodici di essi furono portati in riva al lago e lì sgozzati e buttati in acqua. Gli altri due che erano riusciti a scappare furono inseguiti, raggiunti ed arsi vivi con un lanciafiamme».

L’organo clandestino della Federazione milanese del PCI, «La Fabbrica» del successivo 25 novembre, in una pagina, titolata «Rendere la vita impossibile all’invasore» riporta una diffida nei confronti di Pietro Columella, Podestà di Baveno, accusato di aver consegnato ai tedeschi “le liste degli ebrei”.

Queste della stampa clandestina sono notizie frammentarie, incomplete e imprecise, a diffusione di necessità limitata, che comunque testimoniano che non tutto è passato sotto silenzio. Tanto che la notizia degli eccidi viene ripresa oltre confine.

Il 23 Ottobre 1943 la testata «Libera Stampa» di Lugano, giornale del Partito Socialista elvetico, all’interno di una corrispondenza da Chiasso si sofferma, anche qui con qualche imprecisione, sugli eccidi del Lago Maggiore:

Particolarmente nefandi sono stati gli eccidi della zona piemontese del Lago Maggiore: ad Arona, Meina, Stresa, Suna, Pallanza, tutte le famiglie di ebrei sono state arrestate, e non se ne sono potute avere più notizie; molti sono stati barbaramente trucidati, numerosi cadaveri seviziati sono stati trovati nelle campagne e nel lago; tra questi le famiglie di alcuni noti professionisti e di un dirigente della Pirelli di Milano.”

È nell’immediato dopoguerra che compaiono dettagliati reportage sull’insieme degli eccidi: il 1° luglio del ’45 su L’Opinione di Torino e dal 9 dicembre dello stesso anno tre documentati articoli di Nino Gazzale su La Gazzetta d’Italia (alias Gazzetta del Popolo) dove, tra l’altro, si parla per la prima volta anche dell’eccidio a Intra della famiglia Ovazza. Dal 28 dicembre successivo gli stessi articoli, suddivisi qui in cinque puntate, vengono ripubblicati sul giornale romano Il Momento. Giornale del popolo permettendo una conoscenza ampia degli eccidi al di là dell’ambito piemontese e lombardo. Gazzale non riporta le sue fonti a parte quella, citata in due passaggi, del giornalista e scrittore Sabatino Lopez[2].

Vengono anche pubblicati due testi che affrontano parzialmente quanto avvenuto pochi anni prima:

Nel 1945 esce “Un popolo piange. La tragedia degli ebrei italiani” di Giancarlo Ottani. Basato su testimonianze di ebrei italiani deportati o vittime della persecuzione razziale, dedica un breve capitolo all’eccidio di Meina.

Nel 1946 Antonio Bolzani pubblica “Oltre la rete”. Militare svizzero addetto al controllo delle frontiere riporta con precisione e partecipazione memorie personali e resoconti ufficiali dell’afflusso di civili e militari in Canton Ticino. Secondo i dati riportati dei 12.028 civili entrati in Svizzera ben 4.296 erano ebrei. Nel suo commento anticipa il dibattito sulla cosiddetta “terra d’asilo”.

«La fiumana del settembre 1943 è stata improvvisa, impetuosa e sconvolse ogni nostra migliore volontà. Il ‘rigagnolo’ che è succeduto alla fiumana fu a poco a poco contenuto, secondato e i fuggiaschi vennero accolti come si conveniva.»

Poi per quasi un decennio su quanto avvenuto calerà l’oblio.

Il contributo dei giornalisti (1954 – 1979)

1954-1955. Dell’assoluzione in Austria di Gottfried Meier, comandante del reparto SS di stanza a Intra, responsabile dell’eccidio della famiglia Ovazza, emessa dalla Corte di assise di Klangenfurt, sulla stampa italiana il 4 novembre 1954 compaiono solo piccoli trafiletti.

Il processo di Torino del giugno dell’anno successivo sarà invece seguito con molta più attenzione, in particolare su La Stampa dal giornalista Giuseppe Faraci che sottolinea le truci modalità dell’eccidio dell’intera famiglia.

Bisognerà aspettare quasi un altro decennio perché degli eccidi sul Lago Maggiore si torni poi nuovamente a parlare.

1963-1968. In occasione delle indagini che poi confluiranno nel processo di Osnabrück e durante tutte le udienze l’attenzione dei giornali italiani, specialmente quelli milanesi e torinesi, sarà del tutto significativa.

Per la Stampa di Torino, dopo un articolo di Gianpaolo Pansa, seguiranno il processo con alterne corrispondenze Giorgio Martinat e Tito Sansa.

Molti degli articoli e reportage di quelle udienze costituiranno la base per gli studi successivi.

Anche Giorgio Bocca nella sua Storia dell’Italia partigiana del 1966 dedica due paragrafi alla strage di Meina ove, tra l’altro, commenta:

La strage degli ebrei sul Lago Maggiore dà agli italiani del settembre la lezione agghiacciante del genocidio. Lezione diretta, inequivocabile, che dovrebbe mettere fine alle mormorazioni, ai dubbi. Ma l’incredulità è tenace …

1976-1986. Dopo il processo di Osnabrück l’attenzione giornalistica sulla stampa quotidiana si concentra principalmente negli anniversari decennali. Sono sempre i giornalisti, come già Bocca, a pubblicare alcuni volumi con sezioni o capitoli dedicati alle stragi sul lago.

I due giornalisti di Epoca Piero Fortuna e Raffaello Uboldi, in una loro storia cronachistica sulla vita quotidiana degli italiani dall’8 settembre al 25 aprile (Sbrindellato, scalzo in groppa a un ciuco, ma col casco d’Africa ancora in capo) del 1976, dedicano cinque pagine all’eccidio di Meina con qualche cenno agli altri episodi; in bibliografia per questo capitolo citano il CDEC.

A livello di approfondimento sono da segnalare soprattutto i lavori del giornalista-scrittore Giuseppe Mayda nel volume «Ebrei sotto Salò» (1978) che dedica un capitolo alla «Strage sul Lago», capitolo ripreso da Enrico Massara in Antologia dell’antifascismo e della Resistenza nel Novarese del 1984, e nel dossier «La strage sul Lago» dello stesso Mayda, pubblicato su “Stampa Sera” (1986).

Anche la RAI, dopo aver trasmesso lo sceneggiato americano Holocaust ne realizza uno analogo, con la regia di Vito Minore, sull’Olocausto italiano che inizia proprio con la Strage sul Lago. Il filmato è andato in onda su RAI 1 all’interno della rubrica Antenna in tre puntate a partire dal 5 giugno 1979.

Gli studi del Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC)

Il CDEC rappresenta il centro di documentazione e ricerca fondamentale per qualsiasi studio su ebraismo e Shoah in Italia. Di seguito ricordo alcune opere importanti per la nostra tematica.

Nel 1974 esce «Ebrei, fascismo, sionismo» di Guido Valabrega, e l’anno successivo la documentazione curata da Giuliana Donati (Ebrei in Italia: Deportazione, Resistenza).

Nel 1991-1992 escono i due fondamentali testi di Liliana Picciotto sulla deportazione in Italia: il monumentale «Libro della memoria» e lo studio sulla persecuzione e deportazione nel milanese dove si parla anche della strage sul lago (Gli ebrei in Provincia di Milano 1943/1945).

Numerosi i contributi di Michele Sarfatti in particolare su fascismo e leggi razziali; di grande interesse «Gli ebrei nell’Italia fascista» (2000) che ripercorre l’impatto delle leggi del 1938 e il passaggio dalla «persecuzione dei diritti» alla «persecuzione delle vite».

«La maggioranza degli ebrei esitò a rendersi conto della tragica prospettiva che si era improvvisamente delineata l’8 settembre …».

Un verbo, quel “esitare” che non indica solo un ritardo nel capire a fondo, ma una sorta di impedimento psicologico, una difficoltà ad affrontare con consapevolezza ciò che la nuova drammatica situazione avrebbe comportato.

1993: nel cinquantenario le due opere di Nozza e Toscano

È nel cinquantesimo anniversario dell’eccidio che compaiono le due opere a tutt’oggi più significative, complete e articolate.

«Hotel Meina» di Marco Nozza; giornalista milanese, noto per le sue inchieste scomode, ha seguito il processo di Osnabrück ed era in contatto con Eloisa Ravenna, direttrice del CDEC che, in qualità di teste-perito, aveva contribuito alle indagini. Oltre a rendicontare lo svolgimento del processo, e pertanto con attenzione alle stragi di Baveno, Arona, Meina e Stresa (con un accenno anche a Mergozzo), il libro ricostruisce il contesto e la presenza delle SS sul Lago, mentre in appendice riporta varia documentazione quali il diario di Becky Behar e scritti relativi al salvataggio degli ebrei italiani di Salonicco tra cui parti del diario di Lucillo Merci. Nella sua ricostruzione non fa propria la sentenza finale di Osnabrück sulla responsabilità delimitata ai comandanti ed ufficiali presenti sul Lago sostanzialmente per “motivi di rapina”, ma sottolinea come più volte nel dibattimento vi siano testimonianze di “ordini superiori”.

“Il generale di brigata Theo Wish, il colonnello Hugo Kraas e il maggiore Rudolf Lehmann, futuro storico della divisione, erano giunti a Osnabrück molto preoccupati.

La loro preoccupazione era quella di smentire, nel modo più asso­luto, che nel settembre del ’43 fosse stata messa in opera, per la pri­ma volta in Italia, la «soluzione finale», ossia quella politica di ster­minio degli ebrei che aveva avuto una vera e propria consacrazione durante la conferenza del 20 gennaio 1942 tenuta a Grosser Wannsee, presso Berlino.

La «soluzione finale» doveva essere considerata «Geheime Reichssache», segreto di Stato. Tenuti a questo segreto, primi fra tutti, gli ap­partenenti alle SS. Primissimi, quelli della Leibstandarte.”[3]

«L’olocausto del Lago Maggiore» di Aldo Toscano viene pubblicato sul Bollettino storico della Provincia di Novara e diffuso dall’editore Alberti in estratto e infine ripubblicato unitamente al diario dell’internamento in Svizzera (Io mi sono salvato) nel 2013. Toscano non era né storico né giornalista, ma ebreo novarese che, nel suo percorso di salvezza verso la Svizzera si trovava a Baveno proprio nei giorni dell’arrivo delle SS. Della strage sul Lago ha saputo solo dopo la fine della guerra ed ha poi dedicato molto del suo tempo libero di impiegato di banca a redigere un saggio basato soprattutto sulle cronache da Osnabrück dei quotidiani piemontesi. La scelta del titolo, non più centrato su Meina, ma sul Lago Maggiore ha contribuito ad allargare la visuale a tutti gli eccidi avvenuti nel settembre-ottobre del ’43; tra l’altro il saggio di Toscano è servito quale canovaccio originario su cui poi è stata costruita la sceneggiatura del documentario Even 1943.

I contributi delle scuole: ricordare attraverso la ricerca storica

Alcune ricerche realizzate da scuole secondarie superiori non sono significative solo sul piano didattico, ma anche per la pubblicazione di documenti inediti e interviste di importanti testimoni.

1992: ITIS Cobianchi di Verbania: L’Antisemitismo in Germania e in Italia, classe 5^B Biologico-Sanitario (a cura del prof. Tiziano Maragno) con approfondimento sulla Strage del Lago Maggiore, documenti e interviste a testimoni.

1995: Licei scientifici “Allende” e “Cremona” di Milano: La persecuzione antiebraica in Italia dal 1938 al 1945 nelle testimonianze raccolte da un gruppo di studenti e insegnanti edito da Anabasi. Di particolare rilievo la pubblicazione dell’inedito diario della moglie di Mario Covo.

2003: Liceo Cavalieri di Verbania: Strage sul Lago Maggiore, saggio elaborato per un concorso regionale (insegnante Silvia Magistrini), inedito.

2009: Il Lago, la guerra, gli ebrei. 1939-1945, a cura del. Comune di Domaso e dei Comuni di Lugano, Meina e Riva del Garda; con allegati «elaborati delle scuole» tra cui il Liceo scientifico di Arona (Prof.ssa Laura Pezzi).

2014: Liceo Parini di Milano: Il dolore di avervi dovuto lasciare. Docenti e studenti ebrei del Liceo “Parini” dalle leggi razziali alla Shoah (1938-1945), pp. 137.

In questo caso direi che siamo all’eccellenza: lavoro di rilevante ricchezza documentale sulle espulsioni di allievi e docenti in seguito alle leggi razziali e sulla sorte di allievi ed ex allievi ebrei. Una parte cospicua è dedicata agli eccidi di Baveno e Arona.

Testimonianze e storie familiari di lutto e di salvezza

La famiglia Ovazza da Gressoney a Intra

Alexander Stille, giornalista statunitense, di origini ebraico-russe, pubblica nel 1991 «Uno su mille. Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo». Vissuto in Italia negli anni ‘80 e ‘90 approfondisce il rapporto complesso fra ebraismo e fascismo.

«Ciò che distingueva la storia degli ebrei italiani da quella del resto d’Europa era la lunga coesistenza tra ebrei e fascisti nell’Italia mussoliniana. Il fascismo era rimasto al potere in Italia per sedici anni prima di dichiararsi antisemita nel 1938. Fino ad allora gli ebrei potevano iscriversi al Partito fascista al pari degli altri italiani».[4]

Tra le famiglie di cui Stille ricostruisce le vicende, quella di Ettore Ovazza, rappresentante della borghesia ebraica torinese e proprietario coi fratelli della banca Vitta Ovazza, con la tragica sorte sua e della sua famiglia, diventa esemplare. Fascista-nazionalista convinto[5] (Non mi toccheranno mai, ho fatto troppo per il fascismo) finirà con moglie e figli la sua esistenza passando, primi in Italia, per il camino di una scuola di Intra.

La storia della famiglia allargata (i fratelli di Ettore, consapevoli del pericolo decisero invece di emigrare) è stata raccolta da Paola Lazzarotto e Fiorenza Presbitero (Sembra facile chiamarsi Ovazza, 2009). La prefazione è di Vittorio Segre che nel 1985 aveva pubblicato «Storia di un ebreo fortunato»; emigrato sedicenne in Palestina per sfuggire alle persecuzioni razziali, oltre al racconto della sua vita Segre riporta lo scontro tra «l’italiano-ebreo» Ovazza e gli «ebrei italiani» e sionisti che a Firenze pubblicano Israel.

Mi preme sottolineare come l’eccidio degli Ovazza assuma (non parrebbe possibile) una tragicità ulteriore rispetto all’insieme delle stragi sul Lago; non solo per le modalità dell’uccisione e della eliminazione dei cadaveri (fatti a pezzi e bruciati nella caldaia), ma anche il fatto che non si trovavano nell’area del Lago Maggiore e che il comandante SS di Intra ha appositamente inviato i suoi sottoposti a prelevarli a Gressoney dopo aver estorto con la forza l’informazione al giovane Riccardo arrestato a Domodossola. E il tutto ha avuto origine dal respingimento del giovane da parte delle autorità elvetiche del Vallese.

I Levi – Bachi a Orta

Simonetta Bachi, nipote di Elena, la moglie di Roberto Levi, ha raccolto il diario e la testimonianza diretta della zia in «Vengo domani, zia» (2001): l’arresto del marito e del suocero Mario Levi[6], la loro inutile ricerca e la sua messa in salvo grazie al Podestà Gabriele Galli e al viceparroco di Omegna don Giuseppe Annichini.

«Il podestà di Orta era l’avvocato Galli, che ci avrebbe gen­tilmente accompagnati ad Omegna, da dove avremmo potuto tentare di espatriare in Svizzera. Ma la partenza fu rinviata giorno seguente, poiché in quella cittadina ci sarebbe stato mercato locale e quindi la possibilità per lui d’incontrare clienti senza dare troppo nell’occhio in nostra compagnia.

Quello che avvenne dopo ci capitò come un fulmine a ciel sereno». (p. 192)

I Covo-Steiner e Arditi a Mergozzo

Luisa Steiner e Mauro Begozzi hanno curato «Un libro per Lica. Lica Covo Steiner 1914-2008» (2011) che tra l’altro contiene il testo e il filmato di una lunga intervista a Lica.[7]

«In casa, c’erano allora anche alcuni ospiti: due nipoti di mio padre, cioè la figlia di una sua sorella e il marito. Si chiamavano Matilde e Alberto Arditi, miei cugini. Hanno portato via anche loro, assieme a mio padre [Mario Abramo Covo] e come sapete, non si è più saputo niente, non si sono mai trovati i corpi. … mi sono precipitata a Milano e sono andata dal console spagnolo. Mio padre aveva ancora la nazionalità spagnola e aveva messo sulla casa di Mergozzo una bella targa con scritto ‘’Proprietà spagnola’’, sperando servisse qualcosa. Invece non è servito a niente. Sono andata sino a Roma, all’Ambasciata; non c’era quasi più nessuno e mi son sentita dire. ‘’Ah no, coi tedeschi non si può trattare. Arrangiatevi, noi non possiamo fare niente, Assolutamente.

 E così è stato! Nessuno ha fatto niente, nessuno ha potuto fare niente. Spariti nel nulla». (p. 38)

Salvatore Segre da Stresa a Lugano

In «Tante voci, una storia. Italiani ebrei in Argentina 1938-1948» del 1998 è riportato il diario di Segre in cui racconta la sua travagliata fuga. Dalla sua villa di Stresa, avvisato si allontana la mattina del 16 settembre ‘43 pocoprima che arrivino le SS. Con problemi di salute e necessità di cure mediche si nasconde nei pressi di Biandrate, ospite di un amico per tre mesi, poi a Varese dove organizza il passaggio in Svizzera per il 10 dicembre. Verrà fermato dai militari elvetici e costretto a ripassare il confine e alloggerà in incognito in una pensione a Milano. Il secondo tentativo di espatrio sarà l’11 gennaio del ’44: partito da Bisuschio (Varese) raggiungerà Lugano dove potrà ricevere le cure ed esser formalmente accolto come cittadinolibero a partire dal 24 gennaio.

La Famiglia di Federico Jarach da Arona a Roma

La famiglia dell’industriale milanese Federico Jarach si salva grazie all’allerta dal medico Luca Canelli. Con l’aiuto del custode Luciano Visconti e della moglie, lasciano la villa in barca pochi minuti prima dell’arrivo delle SS. Dopo un periodo a Dumenza (VA) raggiungono Roma vivendo tra rischi e difficoltà e con falsa identità, sotto l’occupazione nazista, fino alla liberazione di Roma.

Sono undici le persone che scamparono alla morte; Lodovico Misrachi, non potendo seguire il resto della famiglia per motivi di salute, venne prelevato in auto dal dott. Canelli e con l’aiuto del dott. Rattazzi nascosto all’ospedale di Arona. (Cfr. «Il Comandante» di Ilaria Pavan, 2001.)

La famiglia Berger-Engel tra Vienna, Milano e Baveno

Fanny Jette Engel, moglie dell’imprenditore Ignazio Berger ucciso dai nazisti il giorno dell’Anschluss (12 marzo ‘38) resta dapprima a Vienna con la figlia Helene, fidando nella protezione del genero, poliziotto cristiano. I figli Robert e Albert erano a Milano per gestire la filiale italiana dell’impresa paterna. Sarà il figlio Robert, aiutato dal tenente Riccardo Crippa, a organizzare il suo trasferimento a Milano. Dopo i bombardamenti dell’agosto ‘43, Robert si trasferisce vicino a Lecco, mentre Fanny si rifugia a Baveno, presso l’Hotel Eden dove sarà arrestata nella notte del 14 settembre. L’intera vicenda è ricostruita dal nipote Tommy Berger nella prima parte di «Onora il padre» (2007).

La famiglia Lopez da Arona a Roveredo

Sabatino Lopez, commediografo e giornalista, la moglie Sisa Tabet e il figlio Guido nel ’43 sono sfollati ad Arona all‘Albergo Italia accolti da Gianfilippo Usellini, pittore antifascista. Il 15 settembre i due coniugi vengono avvisati da un ciclista che le SS stanno arrivando. Su suggerimento si siedono sulla panchina leggendo il giornale facendo finta di niente quando vedono arrivare la camionetta e le SS salire a cercarli. Il giorno dopo raggiungono Premeno dove si trova il figlio Guido e il 19 da Intra col traghetto tornano a Milano, nascosti dagli amici Pelizzola. In dicembre Usellini procura documenti falsi e organizza la fuga da Cannobio a Brissago.Trovano poi ospitalità al Ricovero di Roveredo Grigioni sino alla fine della guerra.

Diverso il percorso di Guido: dopo due tentativi falliti, il 1° ottobre viene accolto e internato nei campi di lavoro svizzeri. Si ricongiunge coi genitori a Roveredo alla fine della guerra.    (Cfr. Guido Lopez, Finché c’è carta e inchiostro c’è speranza, 2019).

L’espatrio di Umberto Terracini, ebreo e comunista.

Tra i salvati che hanno evitato la strage del ‘43 vi è Umberto Terracini che tra carcere e confino aveva già subito 19 anni di prigionia. Si trova in quei giorni a Orta e la cosa è nota al Podestà Gabriele Galli che lo protegge e più volte lo invita a casa sua e che, con probabilità, è tra gli organizzatori della sua fuga. Terracini, intervistato, così racconta:

“Mia nipote aveva una villetta sul lago d’Orta. Ci andammo. Ci svegliò in piena notte un fascista del luogo … Un letterato, un buon uomo. Ci avvertì che un plotone di tedeschi aveva iniziato a rastrellare il paese. Cercavano antifascisti ed ebrei. Presto sarebbero arrivati anche lì. Restammo incerti, non sapevamo come comportarci. Il segretario del Fascio ruppe ogni indugio: era venuto in barca … “Va bene” ci disse “scendete, montate sulla mia barca, venite per il momento a casa mia”. Così ci offrì un primo rifugio sicuro. Fece di più: organizzò dopo due giorni il nostro passaggio clandestino in Svizzera.”[8]

Secondo Cesare Bermani (in «Guerra e dopoguerra sul Lago d’Orta») Terracini è stato salvato dal poeta e critico cinematografico Augusto Mazzetti, «fascistis­simo ma evidentemente contrario alla persecuzione razziale

Dibattito e contributi storiografici complessivi

Tenendo conto che la Strage sul Lago fatica ad entrare nella storiografia ‘’titolata’’, provo ad indicare alcuni lavori che inquadrano il tema complessivo o ne approfondiscono singoli aspetti.

  • Del 2001 l’importante Convegno della Comunità di Sant’Egidio i cui atti furono poi pubblicati nel 2003 (La strage dimenticata): un bilancio degli studi sull’eccidio all’interno delle persecuzioni degli ebrei in Piemonte e l’inizio di un confronto fra interpretazioni diverse. Due i quesiti principali. Uno è esplicitato dal titolo: cosa ha fatto sì che «il primo eccidio di ebrei in Italia» sia stato a lungo dimenticato? L’altro riguarda l’accettazione o meno sul piano storico della conclusione del processo di Osnabrück: stragi compiute per iniziativa locale e con finalità di rapina. Non è invece frutto di volontà e ordini superiori all’interno di finalità politiche e militari connesse all’occupazione tedesca?
  •  Il volume già citato del Comune di Domaso (2009) contiene più saggi significativi, tra cui quello di Liliana Picciotto (Le stragi di ebrei in provincia di Novara): una sintesi rigorosa all’interno del quadro degli eccidi di ebrei durante l’occupazione tedesca. Mette almeno in parte in discussione la tesi della esclusiva iniziativa locale delle stragi. Riferisce che anche da parte partigiana nel 1944 fu avviata una inchiesta sugli eccidi del Lago Maggiore.
  • Tesi di Laurea di Mariella Terzoli, discussa alla Sapienza di Roma nel 2016: «Una storia dimenticata? Lago Maggiore, settembre-ottobre 1943». Un lavoro documentato di sintesi di quanto emerso negli studi più recenti con riferimenti anche sulla «Terra d’asilo» e sulla occupazione militare tedesca. Su alcuni episodi vi sono nuove informazioni rispetto agli studi precedenti. In particolare su quello di Pian Nava, di cui prima del documentario «Even 1943» poco nulla si sapeva. Tra l’altro viene accertata la responsabilità e attuazione italiana dell’arresto dei due coniugi originari di Salonicco.

Approfondimenti su specifiche tematiche

I processi

Per i procedimenti a carico di Gottfried Meir, responsabile dell’eccidio della famiglia Ovazza, il saggio di Eva Holpfer «L’azione penale contro i crimini in Austria. Il caso di Gottfried Meir, una SS austriaca in Italia», (“La Rassegna Mensile di Israel”, 2003) ricostruisce sia la sentenza di assoluzione del Tribunale austriaco di Klangenfurt (1954), che quella di condanna all’ergastolo del Tribunale militare di Torino (1955). Sentenza mai eseguita, come è noto, per la mancata estradizione da parte austriaca.

Sul processo di Osnabrück, in un primo momento ritenuto esser scaturito da una indagine sull’operato di Saevecke a Milano, oltre a quanto già riportato relativamente ai testi del 1993 di Nozza e Toscano ricordo quello di Luigi Borgomaneri «Hitler a Milano: crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo» (1997) che dedica un capitolo al possibile ruolo di Saevecke nell’eccidio del Lago Maggiore.

Un aspetto precedentemente ignorato è il ruolo del Comune di Baveno che ha collaborato attivamente all’istruttoria con una indagine locale e con il reperimento e l’invio di testimoni al processo; nel merito abbiamo pubblicato sul n. 1/2019 di «Nuova Resistenza Unita» l’articolo «L’istruttoria di Osnabrück e il contributo del Comune di Baveno»[9], una sintesi su quanto emerso in un fascicolo non ancora noto depositato presso l’archivio del Comune. L’articolo fa inoltre risalire al 1961 le indagini sull’operato delle SS sul Lago Maggiore avviate dall’Ufficio di Stoccarda sui crimini nazisti[10] e l’istruttoria demandata ad Osnabrück del cui distretto era originario il principale imputato, Friedrich Bremer, poi deceduto prima del dibattimento.

Occupazione militare tedesca e reparti coinvolti negli eccidi

Su questo tema abbiamo dapprima il testo di Lutz Klinkhammer «Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-1944)» del 1997 che in un capitolo (Eccidi programmati sul lago Maggiore) ricostruisce l’arrivo sul lago del reparto della LSSAH i cui compiti formalmente militari di presidio confini e disarmo dei reparti italiani si concretizzarono più in feste, festini, arresto e uccisioni degli ebrei e rapina dei loro beni. Parla anche delle indagini interne alla divisione Leibstandarte SS Adolf Hitler condotte da giudici militari che «finirono nel nulla, vale a dire che si interruppero in seguito a un ordine superiore».

La pubblicazione e analisi dei documenti relativi ai reparti LSSAH era stata curata nel 1995 da Carlo Gentile nella rivista dell’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo, ‘’Il presente e la storia’’: «Settembre 1943. Documenti sulla attività della divisione “Leibstandarte-SS-Adolf Hitler” in Piemonte».

Su Nuova Resistenza Unita n. 4/2018 lo storico elvetico Raphael Rues ripercorre sinteticamente la storia del primo battaglione della LSSAH.

Il tema è ripreso in modo approfondito da Raphael Rues insieme a Mariella Terzoli sulla rivista ‘’L’impegno’’ del dicembre 2022:

«La 1a Ss-Panzer Division “Leibstandarte SS Adolf Hitler” nella occupazione della provincia di Novara (autunno 1943)». Si sottolinea come la LSSAH sia «uno dei soggetti più noti e pubblicizzati del Terzo Reich, prossimo a una dimensione tanto mitologica e apocrifa quanto distante dalla realtà … offuscando la scia di sangue e i crimini di guerra che questa unità commise in tutta l’Europa contro ebrei, civili, prigionieri di guerra alleati e prigionieri sovietici».

Se ne ripercorre genesi e attività in Francia e Ucraina e naturalmente le sue «imprese» sul Lago Maggiore con dinamica di eccidi e rapine non solo verso ebrei. Dopo il soggiorno sul Lago il reparto fu inviato sul fronte orientale dove subì gravi perdite, poi nelle Fiandre e successivi spostamenti per contrastare l’avanzata sovietica. Si ripercorrono poi i processi di Klagenfurt, Torino e Osnabrück per poi contestare la visione di una occupazione tedesca ordinata e ben gestita mentre «la pianificazione, la struttura e le responsabilità dello Stato nazista rimasero poco chiare, caotiche e mal gestite».

Salonicco 1943: tra deportazione e salvezza

La storia della prosperosa comunità ebraica di Salonicco, della sua distruzione da parte dell’occupante nazista e del salvataggio degli ebrei italiani per iniziativa del Console Guelfo Zamboni e del suo collaboratore, il capitano Lucillo Merci, ha trovato risonanza grazie alle attività dell’Ambasciata di Atene e la pubblicazione nel 2006 di «Ebrei di Salonicco, 1943. I documenti dell’umanità italiana». Numerosi poi gli articoli sulla stampa tra i quali si possono ricordare quello di Sergio Luzzatto che parla di uno «Schindler italiano» e l’intervista rilasciata a ‘’L’Espresso’’ dalla figlia di Lucillo Merci, entrambi del 2007.

Per inquadrare le origini, storia e caratteristiche dell’insediamento ebraico a Salonicco un testo fondamentale è quello di Benbassa e Rodrigue, «Storia degli ebrei sefarditi. Da Toledo a Salonicco»(2004) che si sofferma anche sugli orientamenti politici all’interno della comunità con il confronto fra il più moderno ‘’Sionismo’’ e il ‘’Sefarditismo’’ più legato a tradizione e identità ebraica specifica.

Il salvataggio degli ebrei italiani di Salonicco e degli oltre 600 che ottennero il passaporto pur non avendo cittadinanza italiana è dettagliatamente ricostruito dal giornalista Nico Pirozzi in «Salonicco 1943» che utilizza in particolare il diario originale del Capitano Merci. Inquadra la vicenda all’interno della storia della comunità con le sue luci ed ombre, compresa la figura del rabbino collaborazionista Koretz, e naturalmente quella degli «italiani che non si voltarono dall’altra parte»

« … i loro nomi sono Guelfo Zamboni e Giuseppe Castruccio, i due Consoli. … Chiamati ad operare sul campo furono Riccardo Rosenberg, Vice Console e ufficiale del servizio informazioni (SIM), Lucillo Merci, capitano del Regio esercito delegato a tenere i contatti con il comando militare tedesco di Salonicco». (p. 10)

La terra elvetica tra espulsioni ed asilo

Numerosi gli studi sul passaggio di frontiera e l’alternanza fra accoglienza e respingimenti con un’evoluzione dai testi centrati sull’accoglienza a quelli che trattano anche i respingimenti in certe fasi e per certe categorie, gli ebrei in particolare. Il volume di Renata Broggini, «Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera» del 1993 già dal titolo è indicativo della visione positiva dell’asilo offerto. La stessa Broggini corregge il tiro nel 1998 in «La frontiera della speranza» ove parla del «capitolo oscuro» del respingimento di circa il 50% degli ebrei, riconsegnati a una sorte probabile di sterminio. Capitolo le cui responsabilità sono ancora da accertare.

In seguito a polemiche interne e accuse di associazioni ebraiche il governo elvetico ha costituito una Commissione Indipendente di Esperti con trenta storici, presieduta da Jean-François Bergier, che ha lavorato dal 1996 al 2002 presentando un voluminoso rapporto e sette studi allegati. Una sintesi si trova nel testo di Boschetti-Kreis «La Svizzera e la Seconda guerra mondiale nel Rapporto Bergier» (2016). Del 2008 il lavoro sull’area varesina di Francesco Scomazzon «Maledetti figli di Giuda vi prenderemo! La caccia nazifascista agli ebrei in una terra di confine, Varese 1943-1945».

Nel 2009 Christian Luchessa («La politica d’asilo della Svizzera dopo l’8 settembre 1943») sul tema afferma:

«Se alla maggioranza dei profughi politici si riservò una generosa ospitalità, diverso fu l’atteggiamento dimostrato nei riguardi dei fuggiaschi ebrei. Nei primissimi giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, le autorità federali adottarono nei loro confronti una politica piuttosto liberale. La situazione mutò però rapidamente; già il 21 settembre 1943, il capo della polizia federale dichiarò che l’ammissione di rifugiati ebrei, allorché si attuava lo sfratto su larga scala dei militari, poteva causare una reazione spiacevole nell’opinione pubblica. Il giorno seguente si decise di concedere l’asilo unicamente agli Ebrei che possedevano parenti in Svizzera. Nel pomeriggio, le decisioni si inasprirono ulteriormente: si ipotizzò di respingere indistintamente tutti i fuggiaschi israeliti, poiché non vi erano notizie di persecuzioni a loro danno. Applicata in un primo momento, questa misura non fu avallata dal Consiglio federale, che consigliava di attendere l’evoluzione delle condizioni al confine».

Una sintesi più recente nel testo di Scamazzon, La linea sottile. Il fascismo, la Svizzera e la frontiera (1925-1945) del 2022 che sottolinea l’oscillazione della Svizzera fra respingimenti, terra di transito e terra di asilo.

I giusti,

La tematica dei ‘giusti’ (e dei ‘salvati’) ha iniziato ad emergere dopo l’istituzione del Giorno della memoria e la pubblicazione dei «Giusti d’Italia» (2006) riconosciuti da Yad Vashem, con l’attività di Gariwo, la creazione dei «Giardini dei Giusti» e la celebrazione del 6 marzo come Giornata dei giusti (dal 2017).

Il saggio di Coduri e Parachini, Il Lago Maggiore e la Shoah. Salvati e salvatori a Verbania (2004) cita Elvezio Coduri e sua moglie Olive Cosgrove che nascosero a Suna due famiglie ebraiche; il Comandante dei Vigili Giovanni Galli e il Podestà Ernesto Pirola impedirono che i nomi degli ebrei presenti a Verbania giungessero al comandante Max Sterl della 1° Compagnia della Leibstandarte di stanza a Pallanza.

Ne «I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei, 1943-1945» (a cura di Liliana Picciotto), oltre ai coniugi Coduri si cita Luca Canelli di Arona per l’aiuto alla famiglia Jarach e il salvataggio di Lodovico Misrachi sottratto dall’irruzione nazista. La stessa Picciotto nel libro del Comune di Domaso ricorda i coniugi Luciano e Angela Visconti, custodi di Villa Jarach, la proprietaria dell’albergo Speranza di Stresa, Franca Negri, che avvisò gli ebrei alloggiati nel suo e negli altri alberghi dell’arrivo delle SS e la segretaria comunale di Meina, Gianna Calderara, che fece avvisare a tempo Gino Ottolenghi. Possiamo poi ricordare Gabriele Galli e don Giuseppe Annichini , il pittore Gianfilippo Usellini e altri ancora.

… e gli ingiusti?

 Se una minoranza, a differenza dei più, non si voltò dall’altra parte, ci fu anche chi consapevolmente collaborò e talora ne approfittò, per razzismo, per lucro, per sudditanza all’esercito occupante. Su queste figure si è diffuso un silenzio ai limiti dell’omertà e niente è stato scritto a parte il libro di Mimmo Franzinelli che in Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista (2001) riporta anche il caso dei passatori fedifraghi. Nomi noti nel nostro ambito sono quello del Podestà di Baveno Pietro Columella con la vicenda delle false lettere che evidenzia l’attiva collaborazione con le SS anche nel tentativo di far passare sotto silenzio gli eccidi, il Podestà Umberto Testa e il Segretario Comunale Giuseppe Turino di Stresa che fornirono lista e indirizzo degli ebrei residenti come accertabile da documento in archivio nonostante il loro diniego durante il processo di Osnabrück. Il comandante dei Carabinieri di Premeno Brig. Tomaso Pronzato (Pian Nava) come evidenziato da Mariella Terzoli nella sua tesi di laurea, sulla base della documentazione sui delatori custodita dal CDEC.

Vi è poi il ruolo di collaborazione degli interpreti che hanno accompagnato le SS sia nella richiesta dei nominativi che durante gli arresti e gli interrogatori delle vittime. Nozza nel sua libro ne cita alcuni: Clemente Perazzi, Alfredo Proni, Elisabeth Von Rauthenkran e Mario Campiglio.

Questo degli ingiusti è ancora un libro tutto da scrivere.  

Ulteriori approfondimenti su singoli eccidi

Baveno

In «Memorie ritrovate», testo sull’eccidio di partigiani del giugno 1944 a Baveno, Gianni Galli dedica una sezione alla strage degli ebrei e ai pochi resti ritrovati e deposti in una tomba con i nomi delle 14 vittime, collocata a lato del sacrario intestato ai diciassette partigiani fucilati lungolago.

Franco Giannantoni con «La ragazza dalla gonna scozzese», grazie all’aiuto dei nipoti della vittima e una attenta ricerca documentale, risolve il quesito sull’identità di Carla Caroglio, arrestata con la «accusa» di essere ebrea e uccisa dalle SS nonostante fosse ariana e cattolica. C’era stato un episodio in cui la ragazza non aveva mostrato particolare piacere nel vedere la bandiera nazista, ma il motivo principale sembra esser dovuto al suo rapporto sentimentale con un ebreo. Arrestata mentre era dal parrucchiere e brutalmente interrogata dal comandante Friedrick Hans Roehwer nella sede del comando, fu poi trasferita all’Hotel La Ripa e uccisa due giorni dopo. Del suo corpo non si è più trovata traccia.

Arona

Presentato in occasione delle commemorazione dell’80mo dell’eccidio, il lavoro del medico nonché giornalista e scrittore Claudio Pasciutti, «I giorni dell’eccidio. Arona 1943» (con introduzione di Chiara Fabrizi) ripercorre con una sorta di racconto-rievocazione quella che definisce «una strage silenziosa». Costruito narrativamente sotto forma di diario (9 settembre – 25 dicembre 1944) di una immaginaria amica coetanea di Eugenia Penco, figlia della vittima Margherita Coen, il testo ricostruisce le vicende e la personalità delle vittime. Particolarmente ricca, e in gran parte inedita, la documentazione fotografica.

Meina

L’ex sindaco di Meina, Maurizio Cotti Piccinelli, in «Meina, settembre 1943. Stragi, occultamenti e amnesie» (con postfazione del teologo Giannino Piana) ripercorre il periodo dell’estate e settembre 1943 passando in rassegna personaggi e luoghi della cittadina lacustre con riferimenti alla vicenda degli ebrei italiani originari di Salonicco e alla nascita e a episodi, anche controversi, della resistenza nel Vergante. Esplicito l’intento dell’autore di sollevare da ogni responsabilità gli abitanti di Meina da quanto avvenuto nell’omonimo Hotel: al proposito ricorda il salvataggio degli ebrei residenti avvisati e nascosti come quello raccontato dall’allora quindicenne Aldo Ottolenghi avvisato dall’impiegata comunale Gianna Calderara.

Orta

Elena Mastretta sul n. 21 de «I sentieri della Ricerca» (E più bella e gioiosa era Orta) ricostruisce l’eccidio di Orta basandosi sul testo di Simonetta Bachi (Vengo domani zia) confrontato con il capitolo che la scrittrice e biografa Carole Angier ha dedicato a Mario e Roberto Levi nella sua biografia di Primo Levi (Il doppio legame). L’intento è di uscire dalla cruda e numerica rappresentazione storica degli eccidi per «conoscere aspetti della vita di Elena e Roberto Levi che non sono del tutto estranei alla strage, anche se si collocano a margine di essa». Particolare attenzione è dedicata alla personalità della «ragazza» Elena che «dal 1939 tiene un diario dal quale ci arriva l’immagine di una femminilità fragile, poco consapevole delle vere dinamiche storiche che si stanno svolgendo accanto a lei», ma che «improvvisamente» nel momento della tragedia si trasforma in donna determinata a raggiungere la salvezza portandosi appresso la ferita di un marito scomparso nel nulla senza sapere quando è stato ucciso né un luogo su cui piangere. Il titolo è ripreso da una lettera del settembre 1941 inviata dall’innamorato Roberto a Elena.

Mergozzo

Un testo non recente che è doveroso ricordare è «Quando i picasass presero le armi. Mergozzo nella Resistenza 1943-45» (1997) curato da Paolo Bologna. La memoria storica del luogo, ancor oggi attiva, di Carlo Armanini ripercorre le vicende del paese affacciato sul lago durante la guerra, compreso «L’arresto dei signori Covo-Arditi». Spicca il ricordo (Mergozzo, 15 settembre 1943) dell’allora bambina di due anni Luisa Steiner, ricordo più di immagini e percezioni che di parole. Il caldo e il cielo limpido di quel giorno di settembre, il braccio alzato di chi ha accompagnato i tedeschi, i capelli improvvisamente sbiancati di «Mati», la mano di Roberto stretta sulla spalla de lei «per sostenerla e sostenersi», lo sguardo disperato e impotente del giovane militare tedesco. E poi il lungo «non sapere» della sorte dei cari.

Novara

L’eccidio degli ebrei di Novara ha avuto modalità differenti da quelle avvenute sui tre laghi e i singoli episodi sono emersi in tempi successivi, probabilmente vittime non uccise sul luogo ma avviate e inghiottite verso la deportazione. Approfondisce questa Shoah novarese la storica Anna Cardano con due saggi pubblicati su «L’impegno», Rivista di Storia contemporanea edita dall’Istituto per la Storia della Resistenza nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia: «I sommersi del 19 settembre 1943 a Novara» del dicembre 2020 e «Alcuni aspetti della Shoah a Novara. Fatti e memorie» del giugno 2023.

L’impegno continuativo di memoria e ricerca della Casa della Resistenza

La Casa della Resistenza di Fondotoce, sin dalla erezione del Muro dei caduti che riporta nel lato sud una lapide con le vittime ebree del 1943, con attività di ricerca e iniziative di memoria rivolte sia a scuole che a un pubblico adulto, si è assunta l’impegno di ricordare attivamente l’insieme di questi eccidi e il loro contesto.  In particolare, grazie alla spinta di Mauro Begozzi, impegnandosi a superare un ricordo frammentato dei singoli eccidi, o quale appendice a quello più noto di Meina, ma a considerarli in modo unitario: la prima strage di ebrei in Italia durante la II Guerra Mondiale, l’unica con vittime unicamente ebraiche e la seconda per entità dopo quella delle Fosse Ardeatine. L’insieme delle attività si è articolata in convegni sia in occasione del Giorno della Memoria che nelle ricorrenze del settembre ottobre degli eccidi; nel corso degli anni abbiamo ospitato come testimoni e interlocutori Becky Behar, Simonetta Bachi, Luisa Steiner, il Procuratore generale Marco De Paolis, nel 2018 la Senatrice Liliana Segre, lo storico elvetico Raphael Rues e molti altri.

In consonanza con le finalità della Associazione di unire ricerca storica e archiviazione della documentazione con la predisposizione di strumenti di conoscenza e divulgazione rivolti sia a ricercatori che a studenti di ogni fascia d’età, tra il 2007 e il 2010 siamo stati impegnati nella realizzazione del documentario Even 1943. Olocausto sul Lago Maggiore che oltre alla diffusione in DVD è stato presentato in numerose occasioni; nel 2012 se ne è concretizzata anche una versione con sottotitoli in inglese e dal 2023 è anche disponibile online.

Nello stesso periodo si è inaugurato (2009) il Monumento dell’artista Carla Bonecchi che ricorda l’eccidio, collocato di fianco all’ingresso della Casa.

Oltre alle numerose iniziative sul tema con le scuole e la proposta di specifici Pacchetti didattici frutto del lavoro di ricerca bibliografico e documentale (2014) si sono avviate, all’interno della Banca dati online del nostro Centro di Documentazione, prima la sezione su L’eccidio degli ebrei sul Lago Maggiore, frutto della ricerca di documentazione negli archivi e successivamente (2020) la sezione parallela dedicata alla Deportazione nel Novarese che prende in considerazione, oltre a quella razziale, le diverse tipologie (politica, militare e civile). Sezione quest’ultima curata da Gianni Galli.

Tra il 2016 e il 2019 abbiamo pubblicato sulla nostra rivista Nuova Resistenza Unita 12 inserti speciali (comprensivi di uno curato da Raphael Rues) dedicati alla presenza ebraica nel Novarese tra il 1938 e il 1945, alla loro persecuzione e ai processi del dopoguerra (scaricabili > qui <).

Nel 2018 si è Inaugurata la mostra «Eccidio degli ebrei sul Lago Maggiore. Settembre ottobre 1943» realizzata in 21 pannelli su tela, adatti alla esposizione in locali differenti. È idonea sia a momenti celebrativi aperti al pubblico adulto sia come strumento didattico rivolto alle scuole accompagnato da lezioni introduttive e alla preparazione di giovani guide alla visita (peer education).

Alcune riflessioni. Non per concludere ma per rilanciare

Di fronte alla mole, ricca e al contempo frammentaria, di scritti e documentazione che, in modo non certo completo, ho passato in rassegna, mi sembra di poter affermare che sono maturi i tempi perché l’“Olocausto del Lago Maggiore” venga finalmente affrontato dagli storici di professione con un approccio unitario all’insieme della strage tematizzando criticamente sia le questioni controverse che le zone buie che tutt’ora permangono.

La questione centrale, già sottolineata, è relativa a quanto gli eccidi siano stati realizzati su iniziativa locale per finalità principalmente di rapina o se e quanto abbiano invece pesato indicazioni e ordini dall’alto dei comandi, della Divisione e non solo. L’eccidio del lago Maggiore rappresenta l’avvio della Shoah in Italia o un episodio laterale dovuto a deprecabile iniziativa di alcuni ufficiali e non alla prima applicazione della “soluzione finale” nel nostro Paese? L’accesso completo alle carte del processo di Osnabrück potrebbe chiarire la questione; in particolare per il ruolo dei comandi della divisione nel processo e in particolare del maggiore Rudolf Lehmann futuro storico della Leibstandarte che ha poi contribuito a quella che lo storico elvetico Raphael Rues ha definito “una dimensione tanto mitologica e apocrifa quanto distante dalla realtà” della LSSAH. Che finalità ha avuto l’indagine interna alla Leibstandarte è perché si è conclusa in un nulla di fatto, per poi essere invece “ripescata” quale giustificazione della Corte di Appello di Berlino per annullare la sentenza di primo grado? Ed entrando nel dettaglio come interpretare le differenze di comportamento fra i diversi reparti? In particolare quello di stanza a Pallanza, il cui comandante ha emanato una specifica direttiva ma non pare essersi attivato per la ricerca effettiva degli ebrei, pur presenti, in loco.

Le zone buie sono essenzialmente due: l’entità e la destinazione dei beni sottratti (abitazioni, conti bancari, valuta, gioielli ecc.) e soprattutto il ruolo italiano negli e durante gli eccidi. Non solo per quelli che ho chiamato gli “ingiusti” che hanno collaborato attivamente nel fornire elenchi e indirizzi, nel minimizzare e tranquillizzare, che hanno accompagnato le SS ai recapiti, fatto da interpreti, ubbidito ad un’autorità straniera occupante (non dimentichiamo che – salvo per l’eccidio di Intra – il Governo ufficiale è ancora quello di Badoglio) ecc., ma anche l’atteggiamento di almeno una parte consistente della popolazione che non solo “si è voltata dall’altra parte”, ma ha partecipato a feste e festini organizzati dalle SS, in più occasioni ha saccheggiato ulteriormente le abitazioni già depredate dai nazisti. Ed è proprio in questo quadro che il comportamento di “chi non si è voltato dall’altra parte” risalta come esemplare.

Vi è un punto di cui mi sono convinto e che contrasta non solo con l’opinione corrente ma anche di qualche serio ricercatore: viene quasi sempre affermato che gli ebrei erano presenti nell’Alto Novarese perché, in prossimità della Svizzera, si stavano preparando o comunque prevedevano il loro passaggio oltre confine. Sulla base delle interviste effettuate durante le riprese di Even 1943 e di quanto letto in documenti e memorie, penso al contrario che i più si ritenessero sicuri in loco. Questo è certo per chi già vi risiedeva come ad esempio i Luzzatto a Baveno, ma anche per altri come i Levi a Orta per i quali è esplicito il diario di Elena sulla contrarietà dei suoceri all’espatrio. E penso che questo valga per la maggioranza, sia per i provenienti dalla Grecia, sia da altre Località; questo essenzialmente per due motivi: il considerare la zona tranquilla a cui erano infatti confluiti numerosissimi sfollati dalle zone a rischio per i bombardamenti (e tra questi appunto un certo numero di ebrei) e soprattutto per quanto ha sottolineato Sarfatti nel suo volume sopra ricordato: la consapevolezza che dopo l’8 settembre si apriva, dopo la fase della “persecuzione dei diritti”, quella della “persecuzione delle vite” non è stata immediata ed ha “esitato” ad affermarsi e concretizzarsi. Per fare un esempio ricordo i due coniugi ultracinquantenni Humbert Scialom e Berthe Bensussan che dopo lungo peregrinare da Salonicco a Parigi per poi entrare in Italia dalla Liguria e installarsi con consistente bagaglio a Pian Nava, da cui han anche mandato cartoline a loro parenti in Olanda; se la loro intenzione fosse stata quella di raggiungere la Svizzera avrebbero di certo scelto altro percorso e altra località. Sono stati invece prelevati il 17 settembre da una squadra di fascisti[11] (o comunque di profittatori) “su segnalazione del comandante della stazione del Corpo dei Reali Carabinieri (R.R.C.C.) di Premeno.”. Consegnati ai tedeschi di stanza a Verbania il giorno successivo, di loro (e dei loro beni) non si è saputo più nulla. Nacht und Nebel, Notte e Nebbia, in tedesco ma anche in italiano.

Becky Behar. Foto di scena da Even 1943.

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Presentazione (36 slide). Scaricabile >qui<


Gli eccidi e le vittime (per località, date e gruppi familiari). Scaricabile >qui<


[1] Rispetto al Convegno sia la bibliografia allegata che le slide contengono alcune limitate ma significative integrazioni in particolare riferita al reperimento di alcuni brevi articoli coevi sulla stampa clandestina e a testi usciti più recentemente.

[2] Ebreo presente con la moglie ad Arona durante il rastrellamento; avvisati a tempo, riusciranno a salvarsi.

[3] Marco Nozza, Hotel Meina, Il Saggiatore – Net, Milano 2005, p. 229.

[4] Dall’edizione del 2011 (Garzanti, Milano), p. 8.

[5] Sulla attività editoriale di Ovazza fondatore della testata «La nostra bandiera», Vincenzo Pinto pubblica L’ebreo “fascistissimo”. Il fascismo ingenuo, estetico e sentimentale di Ettore Ovazza (2011), riportato poi nel testo «In nome della Patria» (2015). Sulla stessa tematica abbiamo il saggio del 2002 di Luca Ventura «Ebrei con il duce. “La nostra bandiera” (1934-1938)».

[6] Mario era lo zio e Roberto il cugino di Primo Levi.

[7] Sempre Luisa Steiner e Begozzi hanno curato «Lica Steiner» (2015) per la collana Novecentodonne. Per la storia familiare del marito di Lica, Albe Steiner, è utile la lettura di Marzio Zanantoni «Albe Steiner. Cambiare il libro per cambiare il mondo. Dalla Repubblica dell’Ossola alle Edizioni Feltrinelli» del 2013.

[8] Quando diventammo comunisti, Rizzoli, Milano 1981, p.133.

[9] Ripubblicato su questo blog: > qui <.

[10] Cfr. Gli ultimi cacciatori di nazisti” (dal giornale online il Post).

[11] Non certo dalla “Brigare Nere”, come afferma il documento rilasciato dal sindaco del luogo nel 1946, visto che il 17 settembre siamo ancora “sotto Badoglio” e le Brigate nere si costituiranno ben dieci mesi dopo, nel luglio ’44. La documentazione è riportata nella Tesi di Mariella Terzoli (cfr. sopra).

Femminicidio. Undici anni dopo cosa è cambiato?

La crudeltà, che secondo Nietzsche è «la risorsa dell’orgoglio ferito», scorre in canali diversi da quelli del lavoro e della conoscenza, in cui un’educazione razionale la potrebbe certamente orientare. (Max Horkheimer)[1]

Fractaliaspei – Frammenti similari di speranza nasce undici anni fa, per l’esattezza il 4 febbraio 2013 con il primo editoriale sul tema della speranza. Due giorni dopo con l’articolo 122 femminicidi nel 2012. Quanti nel 2013? ho aperto la sezione “Violenze di genere” a cui sono seguiti altri interventi ed articoli.

Con la sua recente riflessione (Femminicidi. Irrilevanza del patriarcato e illusioni dell’educazione all’affettività) Andrea Bocchiola mi invita a riaprire il dibattito e ad estenderlo a tutti coloro che intendono approfondire la tematica superando la comprensibile emotività che i recenti episodi hanno suscitato.

Questo blog è aperto ad altri contributi oltreché a commenti in coda a questi due interventi, naturalmente nel rispetto delle opinioni e della consapevolezza della gravità che l’argomento comporta.

2013 – 2023: uno scenario in lenta e faticosa evoluzione

Quell’articolo iniziava riferendosi alla squallida vicenda del volantino appeso sul portone della chiesa dal parroco di Lerici in cui affermava che sono le donne, con il loro comportamento, la causa prima dei femminicidi. Oggi sarebbe forse difficile ipotizzare un episodio analogo da parte di un parroco, ma la logica del “se la sono cercata” in riferimento a stupri e a violenze più gravi non è tramontata, basti osservare quanto avviene nei processi dove spesso, da parte di giudici e avvocati avversi, le vittime sono pesantemente vittimizzate (cfr. > qui <).

In un articolo successivo gli psicoanalisti Sonia de Cristofaro e Andrea Bocchiola intervenivano con una riflessione sulla violenza e l’esigenza di una sorta di principio di precauzione femminile: “Ogni donna dovrebbe disporre di un campanello di allarme interno che, dinanzi a certe situazioni gravide di violenza le fa dire “no” prima ancora di incespicarvi.”

Di qui la necessità di “un terzo” sia simbolico che reale:

Innanzitutto serve la ricostruzione di un patto sociale tra le donne e le istituzioni dello stato e quindi l’assicurazione della presenza di un “terzo” simbolico (interno, cioè psichico, ed esterno, cioè legale) come assetto minimo di prevenzione della violenza maschile.”

Se sul piano legislativo non sono mancati strumenti di maggior tutela contro le varie forme di violenza di genere, la loro effettiva applicazione e tempestività è ancora del tutto carente per cui quel “patto” è ben lungi dall’essersi realizzato come una recente polemica che ha coinvolto polizia di stato e carabinieri ben evidenzia.

E veniamo alla questione dei numeri. Se per l’anno 2012 la valutazione era di 122 femminicidi, per il 2023 le valutazioni sono discordanti e oscillano fra i 109 e gli 88 e in un caso scendono addirittura a 43. Il motivo di questa disparità è risaputo: non tutti gli omicidi di donne sono femminicidi ma una definizione legislativa e giuridica condivisa sia sul piano nazionale che internazionale è ancora da realizzare. Su questa tematica tra i molti altri si possono consultare l’Osservatorio Femminicidi di Repubblica e un approfondimento del periodico L’essenziale.

Anche prendendo il dato più alto (109) sembrerebbe esservi una diminuzione rispetto ai 122 del 2012; una bella analisi su today.it ci fa capire che i numeri vanno letti con attenzione e possono esser facilmente fraintesi: infatti mentre in generale quantità e statistica degli omicidi in Italia nel decennio 2012-2021 è costantemente diminuita, questo vale per la componente maschile ma non per quella femminile, proprio a causa dei femminicidi il cui tasso (0,4 ogni 100mila abitanti) è rimasto sostanzialmente invariato e colloca il nostro paese al terzo posto in Europa di questa tragica graduatoria, dopo Germania e Francia.

Affermare che nulla da allora è cambiato sarebbe comunque fuorviante. A partire dalla stessa parola Femminicidio – e dal relativo concetto – che pur inserita quale neologismo nel 2008 dalla Treccani e nonostante la pubblicazione nello stesso anno di un approfondito studio comparativo della giurista Barbara Spinelli[2], allora faceva fatica ad essere accettata e non mancavano, nel dibattito pubblico misere battute  del tipo “allora l’assassinio di un maschio è un ‘maschicidio’!”. Anche se esistono ancora resistenze ad un suo inserimento nella legislazione, oggi la differenza fra un omicidio con vittima femminile e un femminicidio, sia pur nella più generale accezione di “omicidio di una donna in quanto donna”, è generalmente accettato. Tanto che per la Treccani “femminicidio” è la parola dell’anno 2023.

Per quanto riguarda la quantificazione e il monitoraggio della violenza di genere nel corso degli anni, un importante passo in avanti è costituito dalla Legge 5.5.2022 n. 53 (Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere) che fissa criteri precisi per rilevarne le diverse forme garantendo “un flusso informativo adeguato per cadenza e contenuti sulla violenza di genere contro le donne al fine di progettare adeguate politiche di prevenzione e contrasto e di assicurare un effettivo monitoraggio del fenomeno” con la possibilità, nei prossimi anni, di confrontare dati omogenei.

Direi che ciò che è soprattutto cambiato è la sensibilità collettiva che si esprime in molteplici forme che vanno oltre alla rottura del silenzio che sottolineavo nell’aprile 2013. Sul piano mediatico se la trasmissione di approfondimento curata da Riccardo Iacona costituiva una assoluta novità, da allora il tema ha continuato ad esser presente sia in televisione che in molteplici spettacoli teatrali e le testate giornalistiche televisive in più casi dedicano un apposito spazio (es. > qui < e > qui <), per non parlare della stampa quotidiana. Sul versante legislativo è nel 2013 che prende vita la prima legge esplicitamente volta al “Contrasto alla violenza di genere” (Legge 15.10.2013 n. 119) che ha aperto la strada ad un settore specifico della nostra legislazione e nel 2017 ad una specifica Commissione parlamentare di inchiesta.

È soprattutto al livello della partecipazione pubblica che questa crescente sensibilità si è manifestata sia con una presenza più consistente ed attiva agli eventi pubblici come quelli legati alla giornata internazionale del 25 novembre, in particolare dal 2016 con la costituzione anche in Italia del movimento femminista “Non Una di Meno”, sia con momenti simbolici come scarpe, nastri e panchine rosse, oppure con murales riferiti alla violenza di genere e al femminicidio in generale oppure a casi specifici come quello di Marsala per Marisa di Leo.

A livello di approfondimento numerosi gli incontri, le conferenze e i convegni. Sul piano locale ricordo quello organizzato per l’8 marzo del 2023 dal Coordinamento donne dello SPI-CGIL: “Perché Eva subisce la violenza? E, la legge, la difende abbastanza?” in cui sono emersi temi di rilievo quali il gap fra la normativa di tutela e la sua conoscenza e applicazione sottolineando come di fronte ad almeno un terzo di donne che subisce violenza, solo una su dieci sporga denuncia. Non solo per paura ma spesso per una concezione del rapporto di coppia fondato sulla dipendenza affettiva. Una concezione dell’amore che definirei la malsana concezione di un “universo a due” che isola la coppia dal contesto e che, in un periodo di declino della socialità, è spesso perseguito non solo dalla componente maschile, ma anche da quella femminile. Un universo chiuso e malato laddove qualsiasi piccola differenza – di opinione, di scelta, di comportamento – può facilmente sfociare in violenza ove ovviamente è la componente femminile a subire.

E finisco questa frammentaria e necessariamente incompleta carrellata sul decennio trascorso citando il Progetto Airone: di fronte al drammatico tema degli orfani di femminicidio – tema a lungo ignorato e su cui legislazione e interventi statati sono in terribile ritardo – si è costituito nel 2015 un partenariato di trenta soggetti pubblici e privati – tra cui cinque università – intorno ad un progetto di intervento “a sostegno di ciascun orfano di crimine domestico, che possa garantire per il futuro l’adozione di linee guida e protocolli d’intervento.”

Qualcosa sta cambiando?

Un aumento di conoscenza e sensibilità, iniziative di denuncia e di supporto alle vittime (es. Sportelli donna) che ha mobilitato operatori delle professioni sociali, associazioni ed enti pubblici in modo crescente ma che sinora ha coinvolto una minoranza attiva – soprattutto femminile – e che non pare sia riuscita ad arginare o diminuire violenza di genere e femminicidi.

Eppure ho il sentore che qualcosa stia cambiando. E non è solo un auspicio; mi riferisco in particolare ad un segnale e ad un evento specifico.

Un segnale. Il successo del film della Cortellesi. C‘è ancora domani non solo ha riportato il grande pubblico nelle sale ma lo ha fatto in un periodo dell’anno in cui in passato le sale si riempivano con i cosiddetti cinepanettoni perlopiù improntati ad una comicità casareccia quasi sempre volgare e maschilista, imponendosi invece con uno stile filmico e una tematica diametralmente opposti. Un successo frutto soprattutto di un passaparola – a voce e nei social – non certo dovuto solo ad una attenta pubblicizzazione o alla popolarità della attrice-regista. Certo alcuni critici e cinefili hanno storto il naso quasi che il successo in sala sminuisse la qualità del film[3]. Quello che qui mi interessa sottolineare è che la partecipazione di un così vasto pubblico, di ambo i sessi, su una tematica esplicitamente di contrasto al predominio violento maschile va ben oltre alla partecipazione attiva, ma comunque minoritaria, di cui abbiamo sopra parlato. In sostanza mi pare che questo sia il segnale che si sia raggiunta – o si stia per raggiungere – quella che in sociologia viene definita “massa critica” per cui opinioni e comportamenti di una minoranza attiva diventano maggioritari. Se dovessi esprimere in poche parole il mio giudizio sul film direi: “Un film giusto al momento giusto”.

Un evento drammatico

Mi riferisco naturalmente alla uccisione di Giulia Cecchettin; mai un femminicidio aveva polarizzato così l’attenzione e una simile partecipazione sia ai funerali che alle manifestazioni del successivo 25 novembre[4]. I motivi sono tanti, dal tempo passato fra la denuncia della scomparsa di Giulia al ritrovamento del suo corpo devastato, dal fatto che l’assassino era quello che fino al giorno prima si sarebbe di certo definito il prototipo del “bravo ragazzo” e soprattutto gli interventi della sorella Elena e quello del padre al funerale e successivamente da Fabio Fazio. Interventi importanti sia perché hanno voluto uscire dal dolore familiare per trasformarlo in impegno civile. Non è certo il primo caso, basti ricordare i parenti delle vittime delle stragi, o il padre di Carolina Picchio[5]. Con una differenza: in quei casi si faceva riferimento a eventi o tematiche specifiche (la verità su una strage, la denuncia e prevenzione del bullismo …) mentre sorella e padre di Giulia hanno posto un problema di responsabilità che riguarda l’intera società, la componente maschile in primo luogo ma, implicitamente, anche quella femminile. E che abbiano toccato un nervo scoperto lo si è visto da un certo numero di reazioni scomposte e incredibili con pesanti accuse di strumentalizzazione del dolore sia da politici che da conduttori televisivi. Reazioni che non vi sono certo state, ad esempio, nei confronti dei familiari della strage di Ustica e di Paolo Picchio.


Quando mi chiedo se qualcosa sta cambiando non mi riferisco solo al fatto che vi è maggiore sensibilità ed attenzione nei confronti della violenze di genere – che tra l’altro ha incentivato il numero di segnalazioni e richieste di aiuto al 1522 – né tantomeno ad una auspicata diminuzionedi femminicidi che anzi – come paventa Bocchiola nel suo intervento (violenza chiama violenza) – sembrerebbe esservi in questo inizio 2024 una sorta di efferata emulazione. E i media dovrebbero essere molto attenti a come affrontare questi casi, certo senza censura ma soprattutto senza alimentare morbosa curiosità.

Mi chiedo se non è maturo il tempo per affrontare in modo più efficace violenza di genere sia nell’analisi delle sue motivazioni sia nelle modalità e strategie di prevenzione. Abbandonando risposte semplicistiche e polarizzate, spesso frutto della applicazione meccanica di categorie politiche o moralistiche, non limitandosi nemmeno a trovare un accordo sul minimo denominatore come talora in parlamento. Certo se devo dar vita ad una legge, come la n. 53 sopra ricordata, di monitoraggio di violenza di genere, il non utilizzare la parola “femminicidio” può essere anche un compromesso accettabile. Ma questa logica del “troviamo ciò su cui siamo tutti d’accordo” non serve ad analizzare, capire e pertanto prevenire. In sostanza serve un pensiero critico che riesca ad andare alla radice di un fenomeno – il femminicidio – che sinora, nonostante quanto sottolineato sopra, non accenna a diminuire.

Alcuni spunti di riflessione e qualche considerazione sull’intervento di Andrea Bocchiola

Viviamo in una società complessa e le scienze sociali ci hanno insegnato che i fenomeni delle nostre società possono essere letti e interpretati da molteplici punti di vista disciplinari senza che una lettura interpretativa ne infici altre dando così vita a letture poliedriche che si arricchiscono fra loro.  E allora ad una lettura psicoanalitica e psicologica, è bene si affianchino sguardi ed analisi provenienti non sola dalla psicologia (anzi dalle psicologie) ma anche antropologiche e sociali, criminologiche e giuridiche, etiche e filosofiche ecc. Tanto più che viviamo non solo in una società in rapida trasformazione, ma soprattutto in quelle che definirei trasformazioni asimmetriche dove alcuni settori si modificano radicalmente mentre altri sono immuni dal cambiamento o addirittura regrediscono a modelli pregressi. Questo vale in generale (economia, stratificazione sociale, politica, modelli culturali ecc.) e in particolare per ciò che chiamiamo famiglia. A questo si aggiungono le integrazioni e gli innesti sociali e culturali dovuti alla crescente immigrazione. Per intenderci due recenti femminicidi come quello di Saman Abbas e quello di Giulia Cecchettin è evidente siano collegate a strutture sociofamiliari diverse, antitetiche direi, così come le modalità del loro compimento. Non dimenticandoci che il delitto d’onore è una fattispecie di femminicidio innestata nella struttura sociale del nostro paese e se la sua giustificazione giuridica è stata superata non è detto che la sua mentalità lo sia ovunque altrettanto. Questo perché i tempi di cambiamento delle strutture sociali, delle norme giuridiche e della mentalità hanno durata diversa (rapida, lenta, lunga).

Da tempo chi lavora nella scuola – e a maggior ragione chi opera nella psicoterapia – osserva quella che per comodità viene definita “società senza padri”[6] e un noto psicologo è arrivato a coniare il termine polemico di “figliarcato”. Fatta la giusta tara sulla necessità di semplificazione legate alla comunicazione giornalistica e mediale, non bisogna universalizzare dimenticando che – magari non solo in aree socio-geografiche più periferiche – possa permanere, o venir riproposto, il modello opposto del “padre padrone”.

Il patriarcato

“L’organizzazione patriarcale (della famiglia) è stata la forma storicamente predominante nelle società europee, e in essa è apparso concentrarsi il dominio dell’uomo sulla donna; ma forme anche più rigide e totalitarie di patriarcato si ritrovano presso molte altre società, p. es. quelle che hanno a base del proprio ordinamento giuridico, e più in generale della propria morale, la religione musulmana.”[7]

Cosa caratterizza questa famiglia patriarcale predominante in Europa prima dello sviluppo capitalistico ed industriale? Essenzialmente il fatto che la famiglia costituiva “una comunità di produzione[8] e il “patriarca” oltreché capofamiglia era proprietario e organizzatore della attività produttiva sia essa agro-pastorale, artigianale o altro. La famiglia patriarcale è strutturata su più livelli di parentela (famiglia allargata) di modo che la proprietà familiare si mantenga intatta e passi in eredità di norma al figlio maschio maggiore. E l’autorità del patriarca non ha un significato regressivo in quanto costituisce la garanzia di condizioni di relativo benessere all’intera famiglia allargata. Allora in senso proprio possiamo parlare di società patriarcale “rispetto ai tempi in cui (la famiglia) era la comunità produttiva dominante[9] mentre nei tempi successivi ed anche odierni possono permanere singole realtà di famiglie patriarcali con le caratteristiche sopra indicate (ad esempio il Maso tirolese).

Con lo sviluppo di modelli economici non più centrati sulla famiglia, ma sul capitale e l’industria, la famiglia si ristruttura secondo quella che è stata definita famiglia borghese, o coniugale o nucleare composta unicamente da padre, madre e un numero di figli progressivamente in diminuzione. Come ha ben dimostrato la mole di studi raccolti da Horkheimer nel testo citato il principio di autorità patriarcale si trasferisce sul capo famiglia borghese, in quanto detentore di un patrimonio economico essenzialmente monetario ma oramai senza le altre ampie prerogative del patriarca. Lo stesso avviene per le famiglie operaie e più in genere popolari che si strutturano in modo analogo a quelle borghesi.

Un modello di famiglia che nasce e si dimostra rapidamente fragile per vari motivi: la netta divisione di ruoli fra marito apportatore del reddito e moglie destinata alla cura della casa e dei figli viene spesso messa in discussione sia per motivi economici (il reddito integrativo della moglie e in certi periodi di crisi economica o di guerra non solo integrativo), la perdita del ruolo educativo-professionale del capo famiglia a cui è subentrato lo stato con la scuola pubblica, un principio di autorità disancorato dalla sua motivazione originaria e che può produrre sottomissione e mentalità autoritaria oppure, come ha ricordato Bocchiola, anche una giustificata ribellione ed infine il processo di emancipazione femminile che ha definitivamente messo in discussione i suoi ruoli cristallizzati.

 Una efficace narrazione di questa complessiva dinamica la ritroviamo ad esempio in un bell’intervento dello scrittore Maurizio Maggiani su La Stampa.

Quella a cui fanno riferimento i sostenitori della Famiglia (con la “F” maiuscola) e che spesso chiamano “famiglia naturale” (basterebbe aver letto un qualsiasi manuale di sociologia o antropologia per accorgersi che non è mai esistita una famiglia “naturale” ma molteplici modelli proprio perché l’uomo è “naturalmente un animale culturale”) è in realtà la famiglia coniugale-borghese. Tipologia non solo storicamente delimitata, ma oramai palesemente declinante. E val la pena sottolineare come spesso siano proprio i sostenitori politici della centralità della “famiglia naturale” e della sua difesa a vivere in realtà situazioni familiari-affettive lontanissime dal modello che vorrebbero imporre. Ma, come è noto, l’ideologia prescinde dal principio di realtà.

Concludendo sulla tematica del patriarcato ha senso oggi utilizzare quel termine? È evidente che quando, in relazione alla violenza di genere e al femminicidio si parla di “patriarcato” e “società patriarcale” non ci si riferisce ad una struttura sociale da tempo estinta ma essenzialmente a due aspetti: da un lato il netto prevalere nei ruoli sociali e nel riconoscimento economico delle figure maschili e dall’altro la permanenza (ideologica perché disancorata dalla realtà socio-economica) del principio di autorità del maschio-padre che non può trovare oggi altro fondamento dalla presunta superiorità del maschio altrimenti detta maschilismo[10]. È bene esserne consapevoli per evitare polarizzazioni inutili come quella fra le due affermazioni apparentemente dicotomiche:

  • Il patriarcato non esiste più da tempo (vera in riferimento alla struttura socio-familiare)
  • Il patriarcato permea ancora la nostra società (vera in riferimento alla ideologia)

Un dibattito del genere è ovviamente inconcludente e non fa fare un passo in avanti nel capire e nel prevenire.

La forza della Vergogna

Marsala. Murale per Marisa Di Leo

Da quando ho iniziato ad occuparmi di femminicidio mi sono convinto essenzialmente di due aspetti. L’irrilevanza quale causante (e spesso implicitamente scusante) della gelosia che spesso veniva richiamata (oggi meno frequentemente) quale motivazione. La gelosia dovrebbe semmai rivolgersi verso un antagonista ma il più delle volte l’antagonista è del tutto assente.

L’estrema rilevanza invece della vergogna: la messa in crisi di una identificazione con il modello di maschio dominante dall’imporsi di una donna che afferma la propria indipendenza affettiva e/o si afferma in modo più significativo del partner negli studi e nella vita sociale.  E siccome la vergogna – come ben sottolinea Ágnes Heller – non è altro che l’effetto dell’insieme degli sguardi altrui su di noi, proponevo un suo rovesciamento.

“Il primo passo è allora quello di dar vita ad una sempre più estesa esecrazione non solo “pubblica”, ma “di genere” che sommerga di vergogna quello che normalmente è chiamato “maschilismo” ma che preferirei chiamare “infantilismo sentimentale di maschi senza dignità”, di esseri incapaci di rappresentarsi sulla scena pubblica se non come conquistatori e dominatori, in sostanza privi di valore in sé stessi.
Occorre insomma rovesciare “l’orgoglio maschilista” in vergogna e discredito contrapponendogli l’orgoglio di uomini liberi e, in quanto tali, in grado di liberamente rapportarsi a donne libere.”[11]

La lettura – in parte rilettura – di testi etici ed antropologici della filosofa ungherese[12] mi conferma sul suolo centrale della vergogna e nel contempo sulla ingenuità della mia proposta del 2013.

Cerco di approfondire. La forma originaria di moralità si basa su di una autorità esterna e la sua interiorizzazione avviene appunto attraverso il meccanismo della vergogna. Lascio la parola alla Heller:

. Poiché è la comu­nità nel suo insieme che specifica e rende applicabili le norme, l’indi­viduo trae tutto il proprio contenuto normativo da fonti esterne, sen­za aggiungere o togliere alcunché a questo contenuto. Ciò significa che ogni persona parla a nome della comunità, ed è in tal modo che il giudizio morale prende forma nello sguardo, negli occhi degli altri. Questi occhi ti seguono in ogni tuo agire e in ogni tuo fare, si posano su di te e ti osservano. Se fai qualcosa che non dovresti fare, gli occhi degli altri ti fanno provare vergogna. Chi provoca il sentimento della vergogna? Chi ci guarda, o meglio i membri della comunità che ci os­servano e immediatamente suscitano in noi, se ci sentiamo differenti, il sentimento della vergogna. Questo tipo di autorità morale è propria delle società primitive, in cui occorre obbedire alle stesse norme e re­gole della comunità di appartenenza.[13]

Con lo sviluppo e articolazione della società – in sostanza con la nascita delle Polis – prende vita un’altra autorità morale, quella interna della coscienza.

Con il passare del tempo la società è diventata più complessa e l’au­torità morale si è sviluppata e sdoppiata nell’autorità morale interna che è la coscienza. Questa non coincide più con lo sguardo esterno de­gli altri, ma è una voce interna. La coscienza in quanto voce interiore ci parla, mette in guardia, consiglia, ricompensa, punisce. Con i suoi ammonimenti e i suoi consigli la coscienza è un sentimento orientati­vo. La nostra coscienza ci parla e se non l’ascoltiamo proviamo un do­lore assai più tormentoso di quello del corpo. D’altra parte se noi dia­mo retta alla coscienza proviamo gioia, soddisfazione, felicità. In Gre­cia troviamo la prima grande formulazione della coscienza nel δαίμων socratico, che non è più il potere della vergogna, ma una voce che spinge all’azione.[14]

Il “potere della vergogna” agisce allora soprattutto ove permane un assetto comunitario ed è chiaramente un agente ad. es. quando il comportamento femminile è visto come un affronto all’onore della famiglia. Il suo rovesciamento – che proponevo – è difficilmente realizzabile in una società frammentata retta sulla centralità dell’individuo (una “società desocializzata”). Lo sguardo che provoca vergogna non è quello di un pubblico generico veicolato dalla stampa o dai media (se un “amico” di un social non mi aggrada me lo levo subito di torno con un clic) né quello di una manifestazione di protesta, ma quello degli occhi con cui mi confronto quotidianamente.

Dall’altro lato l’autorità morale interna della coscienza – lo sguardo etico con cui guardiamo noi stessi – può essere messo in crisi dal prevalere del narcisismo, lo sguardo distorto e compiacente con cui preferiamo osservarci.

Il rovesciamento che mi auguravo può avvenire solo con il recupero di spazi comunitari, di una rivitalizzazione di un “bisogno di comunità” di cui parlavo qualche anno fa[15]. Ne gioverebbe non solo il contrasto alla violenza di genere e al femminicidio – una rete di sguardi solidali in grado di dar vita ad un’etica collettiva non violenta – ma più in generale le relazioni sociali, la cultura e una politica che sembra oggi essersi smarrita.

È anche quello che si augura Ágnes Heller in un bel saggio su cui mi propongo di ritornare (La società insoddisfatta[16]):

“Perché questo accada si devono stabilire varie comunità umane con stili di vita differenti, tutte in grado di offrire modelli morali-normativi per «la vita buona» ma diversi tra loro.”


[1] Max Horkheimer, Studi sull’autorità e la famiglia, Utet, Torino 1974, p. 56.

[2] Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, Milano 2008. Della stessa Spinelli la voce Femminicidio nell’Enciclopedia Italiana (Appendice 2015) > qui <. Da non confondere l’autrice con la omonima parlamentare europea e saggista, figlia di Altiero Spinelli.

[3] Per una rassegna di recensioni positive e talora negative si può guardare > qui < e > qui<. Per una lettura critica d’oltre confine si può leggere la recensione sul sito della RadioTelevisione della Svizzera italiana (> qui <)

[4] A Roma vi sono state 500mila manifestanti (con anche molti uomini) e iniziative si sono svolte in tutta Italia con richiami al femminicidio di Giulia Cecchettin e, talora, al film della Cortellesi. Cfr. > qui <, > qui <, > qui < e > qui <.

[5] Sulle iniziative di Paolo Picchio contro il Bullismo e il cyberbullismo cfr. > qui < e > qui <.

[6] Ne parlavo in un mio post del 2013. “… la funzione del padre è da tempo in crisi: il suo ruolo “terzo” si poneva come autorità in grado di porre un limite al rapporto simbiotico madre-figlio, indirizzando al differimento del piacere attraverso la scoperta del mondo sociale e delle sue regole. La crisi di quel modello è sotto gli occhi di tutti e sono del tutto inutili i richiami nostalgici che vorrebbero riproporlo. Ma non penso nemmeno che sia da accettare come ineluttabile (o addirittura da esaltare) la “società senza padri”. (Alla ricerca del padre)

[7] Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino 1978,voce “Famiglia, Sociologia della”, p. 306.

[8] Horkheimer cit., p.55

[9] Ivi, p. 50.

[10] Su quanto il maschilismo sia in effetti la maschera della fragilità maschile non mi soffermo e mi limito ad indicare alcuni testi che hanno approfondito il tema: William Pollack, No macho, Il Saggiatore – Net, Milano 2003; Stefano Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino 2009; Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2011. “Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa, dell’infanzia, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata”. (Ivi, p. 98).

[11] 122 femminicidi nel 2012. Quanti nel 2013?

[12] Le condizioni della morale, Editori Riuniti, Roma 1985; Etica generale, Il Mulino, Bologna 1994; Per una antropologia della modernità, Rosenberg & Sellier, Torino 2009; Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, Castelvecchi, Roma 2018.

[13] Per un’antropologia della modernità cit., p 76.

[14] Ivi,p.77.

[15] Cfr. anche L’orizzonte della comunità ai tempi di Internet.

[16] Riportato in Il potere della vergogna cit., pp. 345-362.

Femminicidi. Irrilevanza del patriarcato e illusioni dell’educazione all’affettività

di Andrea Bocchiola

Psicoanalista (Società Psicoanalitica Italiana,  International Psychoanalytical Association)

Omicidio in casa (1890). Jakub Schikaneder

Da sempre gli uomini distruggono e uccidono volentieri

(W. Sofsky, 1996, Saggio sulla violenza)

Violenza chiama violenza. Ogni omicidio sdogana e legittima l’omicidio seguente. Caino non porta con sé la sola morte del fratello, ma tutte le morti che da quella discesero, per via di contagio. Incontenibile, la violenza ogni volta rinasce dalle proprie ceneri, dal proprio orrore e dal proprio abietto piacere. E così è per la violenza di genere: ogni femminicidio è insieme richiamo, istigazione e legittimazione del successivo, al punto che, se non è possibile e non è giusto non darne notizia, ogni notizia partecipa della perpetrazione di ciò che denuncia. E ora, di fronte a questa inarrestabile marea bisogna ammettere che la politica e la società hanno le armi spuntate, sia dal punto di vista della prevenzione che da quello dell’interpretazione del fenomeno. 

Per rimediare all’emergenza, una certa cultura di destra evoca l’inasprimento delle pene, come se non sapessimo, dall’esperienza, che la pena non ha alcun effetto di deterrenza sul crimine, visto che, se così fosse, dovremmo ormai vivere in una civiltà perfetta (e questo tralasciando il fatto che il carcere, che solo in pochi casi rispetta il dettato costituzionale della riabilitazione, sia più uno spaventoso incubatore del comportamento criminale che un luogo di rieducazione alla vita civile). Tuttavia anche la classica alternativa alle pratiche di sorveglianza e punizione, ossia l’idea liberal progressista di un’educazione all’affettività, sessuale e identitaria nelle scuole, sembra ignorare l’esame di realtà. Se infatti i sermoni e la loro versione post moderna, quella che sostituisce il Nuovo Testamento con l’expertise delle psicologie funzionassero, dopo secoli di prediche dal pulpito, dovremmo essere quasi tutti in via di canonizzazione.

Purtroppo la credenza che la conoscenza faccia la virtù, che basti insomma educare la coscienza, aumentare la consapevolezza delle persone o sostenere i loro buoni intenti, perché le esplosioni di violenza possano essere evitate, non è solo una pia illusione che ci fa dimenticare l’irriducibile godimento per la violenza che alberga nell’animo umano. È soprattutto un pernicioso misunderstanding rispetto alla comprensione del femminicidio e della violenza di genere. Il problema rispetto agli agiti violenti non sono infatti i contenuti educativi con cui riempire le coscienze dei giovani virgulti, anche ammesso e non concesso che il mondo degli affetti sia riconducibile a dei contenuti trasmissibili. Il problema è, piuttosto, la capacità soggettiva, psichica di contenere l’angoscia di sopportare e elaborare la frustrazione, la rabbia, e persino l’odio, senza esserne travolta e senza dare il via libera all’azione. La questione si gioca dunque ben poco sui contenuti e molto di più sulla tenuta dei contenitori psichici rispetto all’angoscia, alla frustrazione, alla rabbia e all’odio, provocati a esempio, dall’esser abbandonati. Quindi si gioca sui trasformatori psichici, ossia sulle funzioni mentali di trasformazione e digestione dei vissuti insopportabili e incomprensibili che albergano e ingombrano la mente, (come il dolore, la paura, lo spavento e così via), che dei contenitori costituiscono la nervatura essenziale. Sennonché imparare a contenere questi vissuti e a trasformarli non è qualcosa che nessuna educazione all’affettività possa insegnare direttamente o indirettamente. Posso ben conoscere la virtù, ma nel momento dell’odio la conoscenza e la consapevolezza non costituisce un argine. Di fatto il solo modo per sostenere queste funzioni è l’esempio. 

Marsala. Murale per Marisa Di Leo

Il genitore che dinanzi al neonato che piange è capace di contenere la propria angoscia dovuta al non capire il motivo del pianto e restare tranquillo, insegna al bambino che si può non essere travolti dallo spavento. Non perché glielo spiega a parole ma perché glielo mostra nel comportamento. I genitori che sanno contenersi non inondando con le proprie ansie i bambini, insegnano loro a esser più forti dell’angoscia che provano davanti ai momenti cruciali della crescita. I genitori che non trattano i bambini come dei piccoli principi, insegnano loro che si può sopravvivere al duro confronto con la realtà. Ancora, i genitori che non trattano i bambini come dei piccoli soggetti politici, demandandogli l’onere di dovere decidere loro cosa fare, dove andare e cosa mangiare, insegnano loro la virtù del limite e contengono la cosa più angosciante che ci sia: l’illusione di essere onnipotenti (quella del bambino che comanda il genitore). I genitori che non vanno all’arrembaggio del desiderio del bambino, accontentandolo subito per ogni capriccio (es. la bambina che vuole andare a danza e il giorno dopo è già iscritta alla migliore delle scuole e attrezzata nel migliore negozio di danza della città), insegnano al bambino che il desiderio non va solo espresso ma va fatto crescere, coltivato, che richiede tempo per essere fatto davvero proprio, digerito e quindi soggettivato. Al contrario abbiamo solo dei genitori che vandalizzano il bambino del suo desiderio e che se ne appropriano, lasciandolo depauperato e senza più la possibilità di capire se quel desiderio era suo o dei suoi parenti. I genitori che non trattano il bambino come una propria propaggine narcisistica di cui fare mostra come fosse un trofeo, insegnano al bambino il rispetto dei confini tra Sé e l’Altro e lo proteggono da una invasione di campo che, quando si verifica li fa impazzire di angoscia, rendendoli incapaci di consolidare i propri confini rispetto ai movimenti dell’altro (questa impossibilità, lo vedremo tra poco, è esattamente uno e dei più importanti detonatori della violenza di genere). I genitori che non fanno continui sermoni ai bambini, in base all’ideologia mal digerita del dialogo a tutti i costi, somministrandogli un bombardamento simbolico che nella maggioranza dei casi è inutile e in molti di essi produce solo rabbia e angoscia, prima o poi destinate a esplodere, preservano i bambini da quella che è la premessa a ogni violenza fisica possibile: quella violenza simbolica con la quale la ricchezza degli argomenti dell’adulto si mangia qualsiasi pensiero il bambino possa avere (piccolo inciso da psicoanalista che si occupa anche di bambini: nei capricci dei bambini è il bambino ad aver ragione e il capriccio è solo l’occasione per denunciare uno stato confuso della mente che nasce dalle ambiguità, ambivalenze e invasività psichiche degli adulti).  I genitori che non hanno paura del conflitto con i propri figli, che sanno sostenerlo senza doverlo fuggire o manipolare, che non sono dunque costretti a fare gli amichetti dei loro bambini, gli insegnano, senza dirlo ovviamente (anche volendo, come dirlo poi, senza percepire immediatamente una nota in falsetto?) moltissime cose, a esempio che il conflitto non distrugge il legame (il legame che nega il conflitto è collusione), che il legame può essere riparato, che si può tollerare il conflitto con l’altro senza angoscia catastrofica (che, come vedremo, è una delle premesse del femminicidio).

La scuola che funge da argine tra mondo familiare e vita pubblica, che non intrude nello spazio privato dei bambini (occupandosi delle loro vicende famigliari, affettive, psicologiche), insegna al bambino che esiste un mondo pubblico diverso da quello privato, che è possibile fare una differenza interna tra i due e che quando la vita personale va male, è possibile e necessario cavarsela lo stesso nella propria vita pubblica (scolastica prima e lavorativa poi). La scuola capace di bocciare e dare cattivi voti protegge il bambino dalla sua onnipotenza, gli offre un’occasione per prendersi del tempo di crescita, per un esame di realtà su se stesso e in generale per fare un uso evolutivo della frustrazione e della delusione, anche rispetto a se stesso. 

La scuola che mantiene l’asimmetria tra docente e discente, nella quale gli insegnanti non sono amici o gli psicologi dei loro studenti, nella quale, per fare un esempio gli studenti si alzano dal banco quando entra l’insegnante e la lezione frontale non è il male assoluto, introducono bambini e adolescenti, non solo alla differenza tra il gioco e la realtà ma a una acquisizione di disciplina e tenuta caratteriale, che sarà loro indispensabile davanti a ogni momento di difficoltà nella vita adulta (e nel suo ingresso).

La scuola capace di fornire ai ragazzi dei veri riti di passaggio e che gli diano un segno di un cambiamento di status e responsabilità, li introduce all’esperienza del tempo, del cambiamento e della perdita, sostenendo la loro fatica a abbandonare l’onnipotenza psichica dell’infanzia.

Potremmo proseguire per altre dieci pagine, ma continueremmo a dire la stessa cosa: come possiamo pensare che l’educazione all’affettività possa servire a qualcosa se la scuola e la famiglia sono esse per prime gli agenti di una violenza simbolica che infantilizza i bambini, li rende passivi rispetto ai propri vissuti e non rispetta i loro confini psichici? Come può servire un’educazione all’affettività se le agenzie educative per prime non sono in grado di contenere la propria angoscia e diventano persecutorie? Come educare, trasmettendo contenuti, se le agenzie educative si assumono il compito di distruggere ogni contenitore sia dei contenuti che degli affetti?

Venendo invece all’’interpretazione corrente del femminicidio bisogna riconoscere che essa ha trovato nel patriarcato sia l’imputato ideale che il perfetto capro espiatorio. Ma siamo davvero sicuri che sia così? 

Come ebbe modo di osservare il sociologo M. Horkheimer, nei suoi Studi sull’autorità e la famiglia (M. Horkheimer, 1951), questo tipo di famiglia aveva come esito la generazione non di personalità sottomesse, passive con l’autorità e violente con gli altri, ma esattamente l’opposto. La famiglia patriarcale era la struttura che generava il soggetto autonomo critico in grado di opporsi alla violenza autoritaria familiare e sociale (come successe, a esempio, con i moti studenteschi degli anni Sessanta e Settanta). In secondo luogo, questo tipo di famiglia e cultura, che è in crisi manifesta da parecchi decenni, è stato soppiantato da un tipo ben differente di famiglia, che con il patriarcato nulla ha a che vedere e di cui stiamo in questi anni cominciando a apprezzare la potenza “educativa”. Coerentemente con queste osservazioni, se guardiamo ai dati del Rapporto sulla criminalità giovanile (fonte: Direzione Centrale della Polizia Criminale – Eurispes) scopriamo che la violenza di genere sta investendo in modo inquietante le nuove generazioni e di conseguenza le nuove famiglie, proprio le più lontane dal modello di un patriarcato in via di smantellamento. Quindi, se vogliamo comprendere qualcosa di questa violenza, dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche di queste famiglie e del loro clima affettivo.

A rischio di essere tranchant diciamo che questa famiglia ha meno a che fare con il patriarcato che con la cultura mafiosa. I bambini sono i comandanti e i despoti onnipotenti e, mafiosamente appunto, l’organizzazione lavora per proteggerne il potere e il capriccio. Nessun limite può essere somministrato, ogni frustrazione va evitata, il conflitto tra le generazioni viene aggirato attraverso una complicità di fatto tra i genitori e i figli, mascherata peraltro dall’ideologia dell’ascolto e del dialogo. Il che si traduce in un bambino assolutista e in una famiglia che gode di questo suo assolutismo senza freni. L’intero dispositivo familiare si mobilita per fornire al bambino qualcosa di simile a un allattamento continuo fuori tempo massimo, nel tentativo di tenerlo al riparo da ogni forma di limitazione, di fatica personale, d’esame di realtà e di frustrazione. I padri, lungi dall’essere i portatori di una autorità patriarcale, non solo finiscono con l’“allattare” a loro volta i pargoli, ma rischiano di entrare in competizione con loro per avere le attenzioni della madre, in posizione infantile.

L’esito è che non siamo di fronte al soggetto padrone che autoritariamente dispone del corpo della donna, come fosse un suo oggetto “sessuale” o una sua “proprietà” di fatto, e che anche giustamente è messo sotto accusa. Abbiamo piuttosto dei soggetti infantili, padri, adulti o adolescenti che siano, che non possono tollerare l’angoscia che la mamma (e i suoi sostituti), smetta di offrirgli il seno. E come bambini, o meglio, come infans, infanti di due anni, si scagliano contro di lei, per distruggerla in preda all’odio totale e senza controllo del bambino che urla alla mamma “ti butto nella pentolaccia”.

In questa situazione, ciò che viene a mancare, a un primo livello, è quanto in psicoanalisi chiamiamo funzione paterna (e che per essere chiari, essendo una funzione, è indipendente sia dal genere sessuale che dalla identità di genere dei genitori, o dal loro essere una coppia o single, mentre può benissimo essere assente nelle famiglie tradizionali) e che dovrebbe intervenire proprio a limitare l’onnipotenza infantile, separare il bambino dal seno e introdurre il soggetto alla frustrazione e al suo contenimento. In una parola, quello che manca è la Legge. In sua assenza l’odio per il seno (la donna) che si sottrae alla protervia avida e controllante dell’infante non può che esplodere, e purtroppo lo farà con tutto il potere e la forza di un corpo adulto, contro ogni femmina il destino gli farà incontrare.

Ma c’è un secondo livello della questione ed è forse ancora più interessante. Davanti alla ritirata delle funzioni paterne, davanti a una paternità che sempre più si maternalizza, bisogna completare il ragionamento e osservare che ciò che abbiamo davanti è l’esplosione di un materno senza limiti, senza controllo e senza freni. Troppo facile fare del “maschile” un capro espiatorio, e dimenticarsi di ciò che questa ritirata delle funzioni paterne lascia invece emergere. Ossia la maternalizzazione dell’intero dispositivo familiare, nel senso dell’allattamento infinito e senza freni di cui abbiamo parlato, e che lascia ai bambini e agli uomini che diverranno non solo la mera alternativa tra l’essere onnipotenti (“sei mia, ti distruggo”) e l’impotenza (“senza di te muoio”), ma anche l’ingiunzione alla distruzione come sola chance di individuazione soggettiva. Dietro al femminicidio, in altri termini, c’è sempre un matricidio, sovente scambiato per la sola strategia di sopravvivenza e di individuazione possibile. 

Se un tempo potevamo parlare di parricidio simbolico come quell’atto di sovversione nei confronti della legge paterna percepita come autoritaria e repressiva (“adesso che sono piccolo mi devo adeguare, domani quando sarò grande non dipenderò da te, ti criticherò”) e di soggettivazione del proprio ingresso nel mondo adulto (“adesso valgono le mie regole, non le tue”), ora dobbiamo parlare di un matricidio reale come paradossale atto di sopravvivenza psichica autodistruttivo, con il quale l’infans, divenuto adulto, in preda al terrore e all’orror vacui, uccide, nella donna che ha dinanzi, il fantasma della madre che gli sottrae il seno.


Margarita Sikorskaia

Concorso per Tesi di Laurea magistrali su Nino Chiovini

Nel terzo anniversario della costituzione del Parco Letterario® Nino Chiovini e a 100 anni dalla nascita dello scrittore verbanese il 28 ottobre 2023 si è tenuto il Convegno “Abitare i confini … negli scritti di Nino Chiovini, Plinio Martini ed Erminio Ferrari” con un significativo confronto fra i tre scrittori.

Come ricordava la locandina del Convegno:

Il quattordici di febbraio e il quattro di agosto di cento anni fa i due versanti delle Lepontine diedero alla luce Nino e Plinio che di quelle Alpi e della relativa cultura e storia saranno profondi interpreti e narratori.

Erminio, che troppo presto ci ha lasciato, ne ha consapevolmente raccolto l’eredità.”

Al termine del Convegno si è presentata la proposta di un Bando di Concorso per l’assegnazione del Premio di laurea “Nino Chiovini”; iniziativa patrocinata e sostenuta economicamente dal Comune di Verbania; al sostegno del Comune si sono aggiunte associazioni culturali e partigiane nonché singoli cittadini.

Fondotoce (Novara), Italy – 1965/04/25 – Nino Chiovini “Peppo” con un gruppo di ex partigiani e altri partecipanti alla Festa della Liberazione – Photo © Riccardo Schwamenthal / CSImages.com – Phocus

Le tesi in concorso dovranno esser discusse negli anni accademici 2023/2024 e 2024/2025. Quale che sia l’ambito di studi universitari (storico, letterario, socio-antropologico) le tesi dovranno affrontare l’opera complessiva di Chiovini.

È prevista l’assegnazione di due premi di € 2.000 o, a giudizio della giuria, di un premio di € 2.000 e due di € 1.000.

Tutte le informazioni per partecipare al concorso sul sito della Casa della Resistenza ( > qui < )

Associazioni e singoli che intendano sostenere economicamente l’iniziativa sono invitati a far riferimento alla Segreteria della Casa della Resistenza: mail segreteria@casadellaresistenza.it ; tel. 0323 586802.

Il testo completo del bando



Bando di Concorso per l’assegnazione del Premio di laurea “Nino Chiovini”

Premessa

Promosso da Parco Nazionale Val Grande, Associazione Casa della Resistenza e Parchi Letterari®, il 24 ottobre 2020 si è costituito un Parco Letterario dedicato a Nino Chiovini, partigiano, storico e scrittore verbanese, figura chiave della ricerca etno-antropologica, storico-geografica, socioeconomica della Val Grande e del suo territorio, nonché scrittore dalla riconosciuta valenza letteraria.

Bando di Concorso

Il Parco Letterario Nino Chiovini, con il patrocinio e il contributo del Comune di Verbania, indice un Concorso per l’assegnazione di Premi per Lauree magistrali che verranno discusse negli anni accademici 2023/2024 e 2024/2025. Quale che sia l’ambito di studi universitari (storico, letterario, socio-antropologico) le tesi dovranno affrontare l’opera complessiva di Nino Chiovini.

Premi

È prevista la assegnazione di due premi di € 2.000 o, a decisione insindacabile della giuria, di un premio di € 2.000 e due di € 1.000.

Partecipazione

La partecipazione al concorso è gratuita. La richiesta dovrà avvenire entro il 30 novembre 2025 tramite il modulo allegato con le modalità e la documentazione lì indicate.

Tesi

Le tesi di laurea che concorrono dovranno essere fisicamente depositate ovvero fatte pervenire in copia cartacea con PDF allegato nella sede della Biblioteca Aldo Aniasi entro il 15 marzo 2026.

Le copie delle tesi presentate non verranno restituite e entreranno a far parte della Biblioteca Aldo Aniasi e la loro consultazione avverrà secondo le norme in vigore presso detta Biblioteca. I vincitori del premio, qualora pubblicassero il loro lavoro, sono tenuti a darne copia alla Biblioteca.

Collaborazione

La Biblioteca Aldo Aniasi e il Centro di Documentazione della Casa della Resistenza sono disponibili, con le modalità stabilite dai loro regolamenti, a fornire collaborazione online e in presenza ai laureandi ai fini della ricerca bibliografica e per la consultazione di opere e documenti di archivio originali o in copia ivi conservati.

Giuria e Premiazione

La giuria del premio sarà composta da due rappresentanti del Parco Letterario Nino Chiovini, da uno della Associazione Parchi Letterari® e uno del Comune di Verbania.

La proclamazione dei vincitori e la consegna dei premi avverrà entro il 30 aprile 2026 all’interno di una iniziativa pubblica alla quale i vincitori dovranno partecipare.

“Even 1943. Olocausto sul Lago Maggiore”: online il documentario

La strage degli ebrei sul Lago Maggiore è la prima avvenuta in Italia, subito a ridosso dell’8 settembre 1943, e la seconda, dopo le Fosse Ardeatine, per numero di vittime. In nove località dell’allora Provincia di Novara le SS catturarono e trucidarono almeno 58 ebrei.

Una strage che, nonostante la sua rilevanza storica regionale e nazionale, come è stato giustamente rilevato, è stata per lungo tempo dimenticata.

Il documentario, ultimato nel dicembre 2010, ripercorre gli eccidi con ampio riferimento al contesto e al dibattito storico sui motivi di quella strage e della sua scarsa conoscenza.

In previsione delle celebrazioni per l’80° anniversario di quegli eccidi il documentario è oggi visionabile online sul canale YouTube di Lorenzo Camocardi nella versione sottotitolata in inglese, realizzata nel gennaio 2012 grazie alla collaborazione della compianta Sandra Spence.

Una dettagliata scheda di presentazione e tecnica è visionabile > qui <.

Di seguito i capitoli in cui è scandito il filmato con a fianco il relativo tempo di inizio per chi voglia soffermarsi su singoli aspetti:

  1. Titoli di testa                                                    00:00
  2. Lago Maggiore settembre 1943                       02:30
  3. Eccidio di Baveno                                           09:55
  4. Eccidio di Arona                                              17:59
  5. Eccidio di Meina                                             25:17
  6. Eccidio di Orta                                                  43:38
  7. Eccidio di Mergozzo                                      48:54
  8. Eccidio di Stresa                                              1:01:28
  9. Eccidio di Pian Nava                                       1:07:44
  10. Eccidio di Novara                                            1:14:33
  11. I giusti e i salvati                                             1:16:32
  12. Eccidio di Intra                                                 1:22:02
  13. L’albergo, le ville e i beni                            1:28:00
  14. 1954 il processo di Torino                           1:33:31
  15. 1968 il processo di Osnabrück                   1:36:45
  16. Il dibattito storico                                          1:43:33
  17. Responsabilità e memoria                         1:49:04
  18. Dediche e titoli di coda                                1.53:29
Mario Luzzato e famiglia. Il Castagneto, Baveno, giugno 1936.

SINOSSI

Le SS arrivano sul Lago Maggiore la notte dell’11 settembre ’43. Il giorno dopo installano il comando nell’albergo Beaurivage di Baveno e si dislocano nei principali centri della costa piemontese. Si tratta del 1° battaglione della Leibstandarte (Guardia del Corpo) Adolf Hitler, proveniente dal fronte orientale. Si fermeranno per un mese.

Il documentario ripercorre la vicenda dei 57 ebrei trucidati tra settembre e ottobre in nove località: sulla costa piemontese del Lago (Baveno, Arona, Meina, Stresa), nei paesi di Mergozzo e Orta che si affacciano sui due laghi omonimi, a Novara, in un piccolo paese collinare sopra Verbania (Pian Nava), ed infine, tra l’8 e l’11 ottobre, a Verbania Intra.

Nella tradizione ebraica si usa portare un sasso sulla tomba dei defunti (Even: il sasso della memoria). Il sasso del film non trova tomba su cui posarsi perché a tutt’oggi non si sa dove sono i corpi dei 57 ebrei trucidati. Va a trovare i testimoni superstiti, i documenti e gli storici, ricostruendo gli eccidi e i processi di Torino del 1955 e di Osnabrück del ‘68 a cui, con scarso esito, furono sottoposti alcuni dei responsabili.

La memoria della prima strage di ebrei in Italia, tenuta tenacemente in vita da due dei sopravvissuti, Aldo e Becky, rivive oggi, a fianco delle silenziose acque del lago, nella memoria materiale (lapidi e cippi) e vivente (commemorazioni e rievocazioni) delle comunità locali. Una memoria che non può essere solo “ricordo” ma assunzione di responsabilità e interrogazione sull’oggi.

“Trarego memoria ritrovata”: online il ducu-film

Nato come ricerca storica sull’eccidio di Promé condotta nell’anno scolastico 2002/03 dagli studenti delle classi 4a A e B di Scienze Umane e Sociali dell’Istituto Lorenzo Cobianchi. Il Preside Franco Bozzuto aveva scelto di intitolare l’Auditorium della scuola ai due ex allievi e partigiani Luigi Velati e Gastone Lubatti, caduti a Trarego il 25 febbraio 1945; venne allora avviato il progetto coordinato da quattro insegnanti con la collaborazione di Mauro Begozzi dell’Istituto Storico della Resistenza di Novara e della Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce. L’esito del lavoro fu pubblicato dall’Istituto nel 2003 col titolo Memoria di Trarego.

Presentato alla prima edizione 2004 del Premio Nazionale ANCI di Storia Locale conseguì il primo premio mentre, le mille copie edite dalla scuola presto esaurite, il volume viene ripubblicato nel 2007 in edizione ampliata dall’editore Tararà.

Nel frattempo, su proposta del regista Lorenzo Camocardi, nell’a.s. 2006/07 la classe 5a A di Scienze umane partecipa alla realizzazione del docu-film Trarego memoria ritrovata con un percorso di ripresa del lavoro delle classi precedenti integrato con interviste a testimoni ed esperti e ricostruzioni fiction interpretate dagli studenti nei luoghi di quegli eventi. Il filmato è stato proiettato in prima visione nel salone multiuso di Trarego il 4 marzo 2007 e ha avuto ampia diffusione sia in DVD che in televisioni locali e regionali con menzione della giuria del Concorso nazionale Filmare la storia. Nel 2012, esaurita la prima, viene diffusa una seconda edizione in DVD.

Ultimamente il regista Camocardi ne ha reso disponibile la visione sul suo canale YouTube:

Alpe Colle, 23 luglio 1944

Premessa

Se incontrando una lapide o un cippo che, fra i tanti che testimoniano, fra l’Ossola e il basso Novarese, il sangue versato – seminato secondo la forte immagine di Nino Chiovini – per liberarci dal nazi-fascismo e vogliamo documentarci e raccogliere le informazioni principali su quei caduti e quegli aventi, esiste uno strumento fondamentale: la monumentale opera di Enrico Massara[1]. Eppure se siamo stati all’Alpe Colle e, colpiti dall’imponente cippo che sembra fare da spartiacque fra la strada che sale da Trarego, quella che porta al Vadàa, quella che sale allo Spalavera e quella che scende a Pian Cavallo e di lì a Verbania e cerchiamo su quella ‘Antologia’ notizie sui nomi incisi sulla lapide e su quanto lì avvenne in quel 23 luglio, non vi troviamo nemmeno un cenno.

È pertanto quell’episodio da considerarsi del tutto minore? Certamente no, anche perché “come hanno dimostrato storici superlativi del nostro tempo, anche da uno sputo di terra si può narrare una storia che parla al mondo[2]. Anche in quello che avvenne a Colle in quella domenica di luglio del ’44 possiamo ritrovare senso, valori e insegnamenti su quella che è stata la resistenza nonché sugli orrori che quella guerra ha potato sulle nostre terre come in Europa e nel mondo.

Quello che segue è tentativo di riscostruire e contestualizzare quella vicenda sulla base degli appunti che avevo raccolto nel 2014 quando mi chiesero, per il 70mo anniversario, di commemorarla. Le fonti, disperse e frammentate, con qualche aggiornamento, sono indicate alla fine; oltre a queste avevo inoltre raccolto oralmente ulteriori informazioni, in particolare sulla posa del monumento.

La Cesare Battisti dopo il rastrellamento di giugno

Alla fine del rastrellamento di giugno che aveva investito tutta l’area tra Verbano, Cannobina, Vigezzo e Ossola, sotto la guida di Arca la Brigata Cesare Battisti ricompone le proprie fila. Innanzitutto si fa il conto dei caduti, oltre trenta; i superstiti si sono salvati soprattutto perché, conoscendo la zona, sono riusciti a scendere verso le aree abitate dove, in molti casi con l’aiuto della popolazione, hanno potuto nascondersi.

Il rufugio del Vadàa distrutto.Al centro Mario Manzoni Marmelada

Presto ripresi i collegamenti con il CLN di Verbania e nel milanese, occorre radunare i superstiti. Il precedente comando presso il rifugio CAI del Pian Vadàa è stato completamente distrutto dai tedeschi, vi rimane solo un cumulo di macerie. Inoltre Arca si rende conto che occorre spostarsi più a ridosso dei centri abitati verso Verbania.

La località prescelta è La Rocca, sopra Scareno. Rapidamente, grazie al passaparola e al contributo di alcune staffette, vi confluiscono i partigiani della formazione a cui si aggiungono ulteriori componenti, sia nuove reclute sia partigiani precedentemente in altre formazioni. In particolare un gruppo della Giovine Italia, guidato da Nino Chiovini, che non aveva condiviso la confluenza con la neonata Valgrande Martire di Mario Muneghina, e un gruppo di otto ucraini e  russi sfuggiti dai campi di prigionia tedeschi in Francia che, dopo un lungo percorso di attraversamento della Svizzera, arrivano a Manegra dove, contattati da Arca, accettano di confluire nella sua formazione.

Del clima di quei giorni d’inizio luglio alla Rocca ci dà un bello spaccato Chiovini nel suo Diario:

“Siamo a la Rocca. È un’alpe sotto la strada del Vadàa, a dieci minuti da Scareno. A La Rocca ritroviamo altri vecchi compagni della “Battisti”: Mosca, Italo, Nando, Peo. Non tutti, perché parecchi “sono andati a riposo”.

Sono già accertati 19 caduti, ma la “Battisti” contava 90 uomini all’inizio del rastrellamento, e solo una quarantina sono i superstiti. Delle reclute, solo pochissime sono rientrate.

Stringiamo amicizia con nuovi compagni, i più interessanti.

“Ghiffa”, il cuoco, è un ex alpino, commilitone di Bagat e sa cucinare a meraviglia.

Il “Maresciallo”, è un carabiniere siciliano, catturato dal “Valdossola” a Mergozzo e venuto a finire da noi, causa il rastrellamento. È brutto come un fascista, burocratico ed intransigente quanto un funzionario dei ministeri. Qui ha le mansioni di magazziniere e pretende il buono di prelevamento firmato da Mosca, anche per un fiammifero. Con noi, però è diverso: potremmo prelevare anche lui senza buono. È pauroso e noi abbiamo scoperto il suo debole: gli abbiamo promesso una pistola. Ecco perché non ci servono i “buoni”.

“Dieci” è l’unico che abbia ottenuto un beneficio dal rastrellamento. È un ex milite di 34 anni, alto e grosso, con una nera barba retorica e una cicatrice verticale su di una guancia: ha disertato in aprile, portandosi con sé parecchie armi. A Traffiume, in Cannobina, ha puntato il moschetto contro un milite, intimandogli la resa: il milite, armato di mitra, era a 100 metri. Ora “Dieci” ha un mitra, rastrellato in rastrellamento.

Gigi è un milanese, ufficiale dei carristi. Trapela allegria da tutti i pori: come Mosca. Provoca, incessantemente, discussioni politiche tra comunisti e anticomunisti; poi, interviene burlescamente, trasformando la discussione in comici duelli umoristici tra lui e i partigiani posati e seri. Gigi mi ha pregato di condurlo con noi alla prossima azione. […]

Bagat è di umor nero. La Rocca non gli piace, perché dice che gli unici luoghi per sdraiarsi senza il timore di rotolare in valle, sono i sentieri, e anche quelli sono scarsi. Le conseguenze del suo cattivo umore le subiscono i “conigli” e Tucci. Già, Bagat e Tucci non vanno d’accordo. Bagat sta diventando permaloso, e Tucci noioso.

***

L’inizio del Diario Partigiano di Nino Chiovini su “Monte Marona”

Nella vita civile può essere quasi impossibile il caso che parecchi individui appartenenti a disparate categorie sociali, dotate di disparata educazione, riescano a comprendersi a tal punto da costituire un gruppo di persone affiatate. E anche se esistesse affiatamento, non giungerebbe mai a sfiorare l’amicizia.

A La Rocca, abitazione di gente per la quale il proprio mondo è soltanto se stessa con le proprie armi, le munizioni, i paesi d’attorno, la voglia di mangiare e di dormire, questo avviene. Non avviene soltanto a La Rocca: in parecchi altri luoghi come La Rocca avviene. Ma La Rocca è il caso più esteso e meno verosimile per chi non appartiene al mondo nostro.

Tra i gruppetti che fanno parte della gente che abita provvisoriamente a La Rocca, ho scovato quello di Jimmy. È sudafricano e l’italiano lo parla come lo parleranno i russi tra un mese. È studente in medicina e non ha mai gridato viva l’Unione del Sud Africa. È un uomo pacifico e anche egoista talvolta: forse perché è così pacifico. Della guerra se ne frega più che odiarla. Se ne frega a tal punto da fare le azioni per puro senso sportivo e questo non credo che sia una contraddizione.

Anche “Dottore” è studente in medicina, ma non è sudafricano e il suo senso sportivo non è molto sviluppato. Ha voglia di laurearsi e i fascisti son quelli che glielo impediscono. Perché è a La Rocca glielo impediscono. Anche a Peo che studia lettere e odia ogni violenza, lo impediscono. Anche a Ezio e Felice che però sono “matricole” e ancora sono ragazzi con la mentalità delle “matricole”.

Anche Oddo e Paolo che sono due impiegati, han dovuto piantare il lavoro. Naturalmente anche loro, come Ezio e Felice, ce l’hanno coi fascisti perché sono i fascisti che li han fatti andare in montagna. Un giorno, forse a guerra finita, penseranno che i fascisti eran quelli che volevano la guerra e allora odieranno la guerra come la odia Peo adesso.

Ci sono anche Renzo e Achille: né studenti, né operai, né impiegati sono. Il loro mondo, prima, non era nemmeno sfiorato dai loro amici di adesso. Il ladro, han dichiarato che facevano prima di venire in montagna. Molti possono dire che la dichiarazione è cinica. Io penso che sia stata sincera prima di essere cinica.

Questi due non sono venuti in montagna per fede o per necessità politica. Chissà perché. Può anche non interessarmi. So che ci sono e sparano e sono onesti. Non so fino a quando saranno onesti, ma Arca dice che Renzo sarà onesto per sempre. E questo fa bene perché son queste cose che fan credere nel mondo degli uomini.

Son tutti questi uomini e ragazzi, studenti, ladri, lavoratori italiani e no, che vivono insieme: parlano, dormono, sparano e si radono la barba insieme.”[3]

Immagini a cui possiamo aggiungere il ricordo di Marmelada:

Alla Rocca la famiglia aumenta rapidamente. Dal piano con­tinuano ad arrivare nuovi volontari: il caro e simpatico te­nente Gigi; il Maresciallo, così chiamato per il suo cipiglio siciliano (sembra un pesce fuor d’acqua); l’Aluf, studente in medicina, che quando arriva sottolinea d’aver frequen­tato il corso allievi ufficiali e perciò viene preso di mira dagli sfottò di tutta la formazione; il Chimico, studente in chimi­ca e di nobile discendenza; il Leo, cugino del Chimico e te­nente degli alpini che vuol fare il partigiano semplice; il Dieci, burbero alpino e spirito indomito; e altri.

Dalla Svizzera arrivano due militanti comunisti, Settimo e Galli, molto seri e preparati, che si inseriscono rapidamen­te nello spirito della “Battisti” pur essendo molto più an­ziani di noi. Svolgono la loro opera di attivisti di partito con molta discrezione e guadagnano rapidamente la fiducia di tutti, pur non sfuggendo alla regola delle sfottiture della terza squadra. Poi arrivano otto russi – usciti dalla Svizzera si erano accampati a Manegra – che accettano l’invito di Arca di aggregarsi alla nostra formazione; la sera eseguono dei cori che fanno venire la pelle d’oca.[4]

Armando Calzavara “Arca”

La Rocca è principalmente un luogo di raduno, inoltre il piccolo alpeggio rapidamente non è più in grado ad ospitare il numero crescente di partigiani che vi sono confluiti. Arca inizia a predisporre la dislocazione delle diverse squadre nel territorio. Manda Marmelada al comando di una squadra di “otto ragazzi” a ricostituire il distaccamento dell’Alpe Piaggia; fra questi vi è il russo Victor. Il sudafricano Leon Kantey “Gimmy”[5] viene inviato, sempre al comando di una squadra di otto partigiani, per posizionarsi all’Alpe Biogna.

Saranno queste due squadre a trovarsi all’Alpe Colle il 23 luglio. Non saranno invece presenti i due comandanti, Marmelada e Gimmy in quanto quel giorno erano entrambi febbricitanti alla Rocca, “ricoverati in un baitino che funge da infermeria”. L’assenza dei due capisquadra può probabilmente spiegare la scarsa capacità di reazione all’attacco tedesco come la difficoltà a ricostruire con esattezza quanto avvenuto.

Il trasferimento verso Piancavallo

Marmelada e Gimmy, come abbiamo visto, sono alla Rocca. Manzoni aveva partecipato la notte del 18 alla importante operazione di prelevamento di viveri alla Nestlé di Intra[6] e dovendo calzare scarpe non sue si era procurato una vescica che aveva fatto infezione e si ritrova così in infermeria con Gimmy anche lui febbricitante “con un 39°”.

“Il 22 luglio verso sera Arca viene nel baitino e dice a me e a Leone di mandare una staffetta ad avvertire la nostra squa­dra che l’indomani, 23 luglio, devono trasferirsi con armi e bagagli. Devono trovarsi alle 10 di mattina a Colle dove una staffetta li raggiungerà per guidarli alla nuova destina­zione”.[7]

La destinazione, l’Albergo di Pian Cavallo, per ovvi motivi di sicurezza non viene divulgato e sarà la staffetta ad accompagnarli.

La squadra di Piaggia, pertanto, la mattina presto del 23 luglio si avvia per raggiungere l’Alpe Biogna e ricongiungersi con l’altra squadra per poi dirigersi insieme a Colle. Il percorso, “con armi e bagagli” si rivela abbastanza impegnativo per cui si richiede l’aiuto ad un alpigiano per il prosieguo del trasferimento. Questo il motivo per cui al gruppo di partigiani si aggiunge, da Biogna a Colle, un ragazzino di tredici anni.

“Marino Ferrari faceva parte di una famiglia numerosa residente a Crealla; per contribuire all’economia famigliare il ragazzetto venne affidato come garzo­ne all’allevatore Luigi Martinelli di Cambiasca, che “caricava” l’alpe Biogna; avvenne anche in tempo di guerra, e così pure durante l’estate del 1944. Il 23 luglio transitava presso l’alpe Biogna una piccola formazione di partigiani, i quali chiesero aiuto all’alpigiano per trasportare fino all’alpe Colle zaini, co­perte, padelle, viveri, armi e munizioni. Il Martinelli acconsentiva di buon cuore, conoscendo alcuni del gruppo, e metteva a disposizione l’asino col basto, a condizione che lo conducesse il suo garzone, il Marino; ma si cautelava che sempre il Marino lo avrebbe riportato indietro a Biogna una volta finita l’in­combenza.”[8]

Quanti sono, a questo punto i partigiani che si dirigono a Colle? Non più di sedici data la composizione delle due squadre; probabilmente un po’ meno in quanto alcuni potrebbero essere, come Marmelada e Gimmyi alla Rocca e magari qualche elemento della seconda squadra esser rimasto a Biogna come sembra intuirsi dalla narrazione di Manzoni per il periodo successivo.

Cosa accadde quel giorno a Colle

La documentazione relativa o è molto essenziale o, in alcuni casi, i testi presentano alcune contraddizioni. Provo a sintetizzare quanto è plausibilmente avvenuto.

Le due squadre riunite e l’asino carico condotto dal giovane Marino partono dall’Alpe Biogna e, passando per Pian d’Arla[9], arrivano all’Alpe Colle, forse in anticipo; comunque la staffetta che avrebbe dovuto guidarli a Pian Cavallo non c’è. Fa caldo e, depositati armi e bagagli individuali, si riposano ai bordi della strada disperdendosi alla ricerca del fresco. Non vengono appostate sentinelle non intuendo il pericolo. Solo il russo Victor si pone in posizione più elevata, sulla mulattiera che porta alla cima dello Spalavera.

La strada sterrata che sale da Trarego passando da Piazza, dopo l’ultima curva è in leggera discesa. Tre camionette tedesche[10] in ricognizione, che procedono a motore spento nell’ultimo tratto, sbucano sul piazzale dove confluiscono le strade per Pian Cavallo e il Vadàa e immediatamente aprono il fuoco. Il gruppo dei partigiani non è in grado di rispondere e cadono i due giovani, entrambi ventenni, Luigi Trelanzi “Lanzi” e Aleandro Rigamonti. Il giovane Marino Ferrari, gravemente ferito, verrà lasciato morire dissanguato mentre il partigiano Bruno Pezzi “Strozza”, ferito ad un polmone, riuscirà a nascondersi più a valle. Anche il partigiano Giovanni Borella “Bobi/Robi”, ferito ad un braccio, riesce a buttarsi a valle e nascondersi per poi raggiungere Scareno. Questa la sua breve testimonianza raccolta da Mario Manzoni.

“Robi era con la squadra di Biogna ed è stato ferito a Colle. Ecco il suo racconto: dopo essersi uniti alla mia squadra, proveniente da Piaggia, hanno proseguito per Colle seguen­do la strada Cadorna. Con loro c’era anche un ragazzino di dodici anni circa, che con la famiglia di Falmenta era al­l’alpeggio per la stagione estiva come usano fare tutti gli anni, e si è prestato a trasportare col suo mulo le nostre mas­serizie. Arrivati a Colle, e non trovando la staffetta, hanno posato sul bordo della strada armi e bagagli e, in ordine sparso, stavano guardando le baite bruciate dai tedeschi al termine del rastrellamento, quando dalla curva della strada che sale da Trarego sono sbucate improvvisamente le ca­mionette dei tedeschi che, con fuoco a ventaglio, li hanno colti di sorpresa così come erano. Nel fuggi fuggi Robi è stato colpito al braccio mentre si gettava a capofitto nella valletta sottostante, e ha visto cadere fulminato Lanzi della mia squadra. Poi ha raggiunto Scareno.”[11]

Nel frattempo il russo Selepukin, vista la drammatica situazione, si defila e sale per poco più di un chilometro lungo la mulattiera dello Spalavera e, poco prima del primo tornante si nasconde in una posizione sopraelevata da dove può controllare l’eventuale arrivo di militari tedeschi[12]. In effetti una squadra tedesca, o perché Victor era stato visto allontanarsi o per la scelta di perlustrare il territorio, si avvicina alla sua posizione e viene ingaggiato un combattimento di una certa durata in cui il soldato russo si difende sino all’esaurimento delle munizioni. Gravemente ferito viene lasciato agonizzante sul posto; al suo fianco sette caricatori vuoti.

A Colle i tedeschi, dopo aver catturato alcuni dei partigiani[13] sopravvissuti, bruciano armi e bagagli delle due squadre della Battisti lasciando sul posto le salme dei due caduti e il giovane alpigiano ferito, proseguendo, tutti o una parte, nella loro ricognizione verso il Vadàa.

Mario Manzoni si interroga sul perché “i tedeschi si siano trovati a Colle proprio in quell’ora. Fatali­tà o segnalazione di una spia?”. Personalmente propendo per la fatalità: se i tedeschi avessero saputo dell’appuntamento a Colle vi si sarebbero appostati in anticipo e per il gruppo dei partigiani la sorte sarebbe stata ancor più grave.

Il combattimento successivo a Pian d’Arla[14]

Lo scontro a fuoco tra Selepukin e i tedeschi, in località più occidentale rispetto Colle e, in linea d’aria più vicina a Scareno, viene sentito da “Palin”[15], l’oste del paese che da tempo collabora con la resistenza.

” … alle 10 e mezzo, il Palin piomba alla Rocca come un fulmine avvertendo che a Colle stanno sparando. Scatta l’allarme, e mentre ognuno si organizza, Arca invia Peo con una squadra verso la strada Cadorna per vedere di preciso cosa succede.”[16]

Di quanto avvenuto successivamente nel volume a più mani “La scelta. 1943-1945”, in un capitolo[17], Felice Sciomachen e Pompeo Mancarella “Peo” ci hanno lasciato un racconto dettagliato. Vi è solo un aspetto controverso: mentre Manzoni afferma che Arca, paventando un attacco dall’alto, ha mandato “una squadra” a controllare e il Diario storico parla di “una squadra comandata da Peo”, in questo testo appare chiaro come solo loro due siano saliti in ricognizione partecipando poi al breve combattimento.

Peo e Felice a Pian d’Arla. Anni ’90

“Siccome Peo e Felice si trovavano già pron­ti, vestiti ed armati, l’incarico fu affidato a loro con l’ordine di in­tercettare e ritardare l’avanzata degli attaccanti. I due si avviarono pertanto lungo il sentiero che raggiungeva in alto la strada “Cadorna” e arrivarono in località Pian d’Arla do­ve la strada si inarca in un’ampia curva.

Dopo un po’ udirono il rumore dell’autoblindo che saliva len­tamente e insieme decisero di attraversare la strada e di salire un po’ lungo il pendio sovrastante per essere in posizione più favore­vole. Si decise anche di tenersi a opportuna distanza l’uno dall’al­tro per non essere eventualmente falciati da una stessa raffica.[18]

Mentre appostati aspettano l’arrivo del mezzo tedesco si accorgono che sopra di loro ad una ventina di metri vi è un gruppo di tedeschi[19] che dopo un attimo aprono il fuoco. Felice, dopo aver sparato “senza nemmeno prendere la mira” si butta a valle nei cespugli al di là della strada. Una bomba gli scoppia vicino e, dopo esser scivolato “sotto un cespuglio”, perde i sensi. Nel frattempo anche Peo si lancia al di là della strada e viene ferito, pensa, di striscio al collo. Risponde al fuoco più volte scendendo a zig zag riuscendo così a portarsi fuori tiro. Si accorge si perdere molto sangue e, scendendo verso la Rocca viene soccorso dai compagni. La ferita non era solo superficiale ma una pallottola aveva attraversato la schiena “senza ledere nulla di importante” ed era uscita dal lato opposto forando il lobo dell’orecchio.
Quando la compagnia tedesca si è ritirata scendendo verso Intra, dalla Rocca salgono i partigiani della Battisti per verificare sul luogo quanto era accaduto a Colle, recuperare le salme dei caduti ed eventualmente qualche ferito riuscito a nascondersi.
Peo e gli altri compagni pensavano ormai che Felice fosse caduto. Solo verso il tramonto Felice riprende i sensi e gli occorre un po’ di tempo per capire dove si trovasse e cosa gli fosse accaduto.

Era quasi buio quando Felice raggiunse i suoi compagni. In­contrò prima Ezio[20] che a gran voce gridò agli altri: è vivo! E a quel punto Felice non ebbe più dubbi e chiese ed ottenne rassicuranti notizie anche del Peo.[21]

I caduti

Marino Ferrari

Il giovane garzone di Crealla, pur non essendo un partigiano, è annoverato fra i caduti della Cesare Battisti e una sua sintetica scheda è riportata sia nel data base del Centro di Documentazione della Casa della resistenza che nell’elenco dei partigiani novaresi dell’istituto della resistenza di Novara dalle quali si desume solo l’anno di nascita (1931) e il nome del padre: Salvatore. Sul trasferimento della salma e sulla sua memoria riporto le parole di Roberto Caretti.[22]

Nella ecatombe dell’alpe Colle, le testimonianze oculari ricordano come il corpo di Marino fosse stato quasi tagliato in due dalla raffica di proiettili; ciononostante i lamenti dello sfortunato ragazzo, coinvolto suo malgrado nello scontro, continuano sino a spegnersi in una lunga e terribile agonia; la salma del ragazzo è poi recuperata e trasportata in gerlo, a turno, da alcune donne di Crealla lungo una via dolorosa costituita dal sentiero che congiunge Colle, Pian Puz, Ludrogno, Cadaglia, Luera a Crealla (un percorso lungo e faticoso, tant’è che le donne arrivano in paese appena in tempo prima che scatti il coprifuoco). Al paese di Crealla si celebrano infine le esequie del povero giovane. L’alpigiano Martinelli, riconoscendo la propria involontaria responsabilità per la morte prematura del Ferrari, che aveva preso a servizio e aveva esposto ai rischi mandandolo insieme ai partigiani, ne risarciva convenientemente la fa­miglia; a distanza di anni, gli Alpini di Crealla e l’Associazione Rinascita, con gran seguito della popolazione di Crealla, in un gesto di grande umanità hanno eretto un cippo recante una epigrafe e la fotografia di Marino Ferrari che viene così equiparato, nonostante la sua giovane età, a tutti i caduti della guerra di terra, d’aria e di mare.


Luigi Trelanzi “Lanzi”

Giovane recluta di vent’anni, nato a Carpiano di Ghiffa il 19 marzo 1924.

Si era unito alla Cesare Battisti dopo il rastrellamento di giugno, diciotto giorni prima della sua morte a Colle.

Faceva parte della squadra proveniente da Piaggia.

Riposa nel cimitero di San Maurizio di Ghiffa a fianco di Victor Selepukin e di alcuni dei caduti dell’eccidio di Trarego.


Aleandro Rigamonti “Domo”

Il ventenne Aleandro[23] era nato il 15 ottobre del 1923 a Eupilio, nel Comasco, ed era residente con la famiglia del padre Egidio a Como.

Si era inserito nella Brigata Cesare Battisti già dal marzo del ’44 e sarà pertanto riconosciuto come partigiano combattente con la anzianità di 4 mesi e 8 giorni. La salma sarà prelevata dalla famiglia e inumata nel cimitero di Como.

Nel Comune di nascita, ad Eupilio in frazione Cornemo, in suo ricordo è stata intitolata una Piazza quale “Eroe della Libertà”.


Victor Selepukin

Trentaduenne soldato Russo – probabilmente Ucraino – di origine contadina. Dell’arrivo alla Rocca di Victor e degli altri sette russi provenienti d’oltre confine, ci racconta Nino Chiovini nel suo diario partigiano:

“Dalla Svizzera sono giunti otto prigionieri russi. Non sanno dieci parole di italiano: con loro siamo costretti a parlare in tedesco. Sono quasi tutti ucraini e russi bianchi [bielorussi]: catturati sul fronte orientale, furono condotti a lavorare nelle miniere di salgemma, in Francia; riuscirono ad evadere, e attraverso il Reno ripararono in Isvizzera. Uno di loro è già stato ferito durante uno scontro a Intra.”[24]

La sua salma è stata traslata, come quella di Trelanzi, al cimitero di San Maurizio di Ghiffa.

Sul luogo dove è stato rinvenuto il suo corpo dissanguato è stata eretta una croce con il suo nome e la data di morte con a fianco un segnale per poterla scorgere dalla sottostante mulattiera; in realtà ogni anno lo sviluppo della vegetazione, e delle felci in particolare, non ne rende agevole il ritrovamento. Si è pertanto progettata la posa di un pannello sulla strada sottostante in ricordo del suo sacrificio.


Cimitero di San Maurizio di Ghiffa. Caduti della Resistenza di Trarego e Colle.

I feriti

Bruno Pezzi “Strozza”

Nato a Calvisano, nel basso Bresciano, il 15 dicembre 1923, ventenne, si era unito alla Cesare Battisti. Riconosciuto partigiano combattente per 9 mesi e 25 giorni. Ferito ad un polmone, i compagni dopo averlo ritrovato, si rendono conto delle gravi condizioni e lo ricoverano in una baita dell’Alpe Scarnasca, appena sotto alla strada Cadorna. Del suo ritrovamento e di come e da chi è stato curato ci i racconta Mario Manzoni.

“In una valletta ben protetta hanno scoperto Strozza gra­vemente ferito al torace, con perforazione del polmone: per lui entrerà in azione l’organizzazione clandestina di In­tra di cui fa parte la contessa Bonacossa, che risiede nella sua villa San Remigio tra Intra e Pallanza. La contessa si è fatta amica di un ufficiale medico tedesco, che dirige l’ospe­dale dalla TODT di Pallanza, e il giorno successivo salirà a Colle col dottore, in autolettiga, per curare il ferito. L’uffi­ciale medico salverà Strozza e lascerà medicinali utili anche per le cure successive. Poi Strozza verrà trasportato in luo­go sicuro.”[25]

Giovanni Borella “Bobi”

Nato a Cambiasca il 23 dicembre 1924, e pertanto diciannovenne al momento dei fatti di Colle, si era unito alla Cesare Battisti dal precedente mese di aprile. Sarà riconosciuto partigiano combattente con 12 mesi e 9 giorni[26]. Sul suo ferimento e sulla sua testimonianza sui fatti di Colle ne abbiamo già parlato sopra. Da notare che anche Borella è stato visitato e curato, in questo caso a Scareno, dal medico tedesco della TODT.

Pompeo Mancarella “Peo”

Nato a Busto Arsizio il 24 giugno 1924, sarà riconosciuto quale partigiano combattente per 12 mesi e 22 giorni col grado di Comandante di Plotone. Rievocando la sua “scelta”[27] ci narra come, militare a Cerveteri in “difesa degli aeroporti dell’Urbe”, l’8 settembre si unisce ad un gruppo di altri quattro commilitoni per risalire “un po’ a piedi e un po’ prendendo a caso treni diretti verso Nord” e raggiunge Busto Arsizio. Con l’emanazione dei bandi di arruolamento dell’RSI prima si nasconde in una cameretta del campanile del suo paese, per poi raggiungere la Cesare Battisti sopra Intragna. Cattolico praticante, quella domenica del 23 luglio si era alzato prima degli altri per recarsi a messa a Scareno: questo il motivo per cui, essendo pronto, vestito ed armato, viene mandato in ricognizione con Felice, verso la strada Cadorna.

Felice Sciomachen

Nato a Milano il 6 giugno 1925. Il padre Enrico “era un ufficiale del Regio Esercito, prigioniero di guerra degli alleati” in Africa Orientale dal maggio 1941 ed inoltre, presso un parente, Generale dei carabinieri in pensione, a Pallanza aveva conosciuto e stimato il maresciallo Rodolfo Graziani. Con questo background familiare per lui non fu facile scegliere[28] tra RSI, renitenza e resistenza. Convintosi che la fedeltà alla monarchia dovesse comunque prevalere, raggiunse dapprima un cugino che nel Parmense stava organizzando la resistenza. Quando le Brigate Nere, in seguito ad una delazione, arrestarono il cugino, tornò a Milano collaborando con il nascente CLN nell’inviare ed accompagnare verso il Verbano e la Svizzera ebrei, ricercati politici e militari alleati ex prigionieri. Al termine di una di queste operazioni decise di fermarsi al Pian Vadàa con la Cesare Battisti.

Arialdo Catenazzi, memoria storica della Cesare Battisti. Colle 2012

Le croci e il cippo

Anche l’attuale monumento ha una sua storia da cui si può trarre qualche insegnamento. Episodio minore, come ricordavamo all’inizio, rispetto ai più tragici eventi ed eccidi che hanno colpito la zona del Verbano e dell’Ossola, i caduti di Colle vennero ricordati per iniziativa dell’ANPI nel luglio del 1955 con la collocazione di quattro croci con i relativi nomi. Nel 1977 viene elaborato un ambizioso progetto che prevedeva una fontana e un monumento rievocativo.

Il 1° di agosto del 1983, con una azione di evidente matrice fascista, le quattro croci vengono divelte da ignoti. Il progetto della fontana richiedeva tempi lunghi e allora si scelse, dopo un breve periodo di ripristino delle croci, la collocazione nel 1987 l’attuale massiccio cippo. Che porta in sé un duplice messaggio: ai nemici della resistenza “non sarete più in grado di rimuovere la memoria dei nostri caduti” e a tutti noi “così dev’essere la nostra memoria: solida e duratura”.

Colle: Commemorazione del 2012

La strada del Vadàa

In data 23 luglio del ’44 Nino Chiovini annota sul suo diario

“Wladimir si è rattristato: è morto Victor il contadino russo, dopo aver sparato tutti i colpi che aveva. Sulla strada del Vadàa è avvenuto questo: questa strada comincia a perder sangue sul serio.”[29]

Nel dicembre successivo realizza questa canzone, dedicandola ad Arca “sperando di raggiungere lo scopo che mi sono prefissato scrivendola”[30]. Pur non citando esplicitamente l’evento di Colle, il riferimento alla recluta (“coniglio”) caduto sul ciglio della Strada del Vadàa richiama evidentemente il giovane “Lanzi”, recluta da solo diciotto giorni.


LA STRADA DEL VADAÀ

Se da Intra senti il cannone

c’è qualcosa di tremendo

i partigiani stan morendo

sulla strada del Vadaà.

Quando siamo in rastrellamento

quello è un cammino traditore

perché li muore il più bel fiore

della nostra gioventù.

Se domandi a un ferito

dove ha preso quella rogna

ti risponde: – A Colle Biogna

sulla strada del Vadaà –

Ieri han fatto una puntata

all’appello c’è un “coniglio”

che non risponde; l’è sul ciglio

della strada del Vadaà.

Comandante Barbadirame

facci questo per piacere:

– Non devi farci più vedere

questa strada del Vadaà.

La Battisti vuol cambiare

perché stufa di quei posti

vuol fuggire a tutti i costi

dalla strada del Vadaà.

La Battisti vuol cambiare

e manda a dire al Comandante

questa strada è senza piante

e ci batte troppo sol.

Il Comandante manda a dire

che se vogliam cambiare

c’è sì un posto per cambiare

e l’è al piano che si andrà.

Da posto 24, Dic 1944

Partigiano Peppo (Pl. Espl)


Colle: Commemorazione del 2014.

Noterelle a margine

La resistenza ha sempre avuto un respiro internazionale; non solo perché fu combattuta in più paesi all’interno di un conflitto mondiale contro il nazifascismo, ma anche e soprattutto perché come numerosi italiani si sono uniti alla resistenza all’estero, così molti militari provenienti da ogni parte del mondo furono parte attiva della resistenza italiana. Anche nella nostra breve rievocazione di questo “episodio minore” della resistenza abbiamo incontrato partigiani russi (che probabilmente erano ucraini e bielorussi) e un sudafricano e possiamo anche ricordare come nella Cesare Battisti si erano arruolati da poco persino due tedeschi, di origine austriaca, che avevano disertato[31].

Russi o sovietici? Ai tempi non si faceva differenza, oggi è bene distinguere la cittadinanza di quella che era l’Unione Sovietica dalle nazionalità che la componevano e che in parte, dopo l’89, si sono ricostituite in Stati.

Tedeschi o nazisti? Erminio Ferrari, in Valgranda Revisited[32] riporta la polemica, che condivide, di Peppino Cavigioli sull’uso dell’appellativo “tedeschi” nei pannelli del Parco Nazionale della Valgrande a ricordo degli eventi del rastrellamento del ’44, invece del più corretto “nazisti”. Nel ricordare l’eccidio di Colle ho preferito utilizzare “tedeschi” non solo perché i militari che irrompono all’Alpe Colle non è detto che fossero nazisti; di certo non era un reparto delle SS, che in quel luglio ’44 non erano presenti in zona. Forse erano quelli di stanza a Cannobio. Peraltro le truppe che effettuarono e guidarono il rastrellamento della Valgrande, le SS Polizei, non erano propriamente SS ma reparti di polizia tedesca militarizzata[33]. Truppe “tedesche” a Colle, così denominate anche dai testimoni di allora perché è l’esercito della Germania che occupava all’epoca il nostro territorio e molta parte del resto d’Italia e vi è pertanto una responsabilità storica dello Stato tedesco su quanto avvenne. Aggiunge Ferrari:

“… consideriamo anche il processo storico che ne è seguito: l’esame che i tedeschi hanno fatto del proprio passato e quello a cui si sono sottratti gli italiani, che i fascisti li hanno poi riportati al governo.”[34]

Dire pertanto “tedeschi” riferito ai reparti operanti allora non significa generalizzare; d’altronde nel nostro breve racconto abbiamo anche incontrato un medico tedesco della TODT, di cui purtroppo non conosciamo il nome, che con grave rischio per la propria incolumità , ha collaborato con la resistenza curando partigiani feriti.

A riprova che la realtà è sempre più complessa e variegata di quanto le nostre categorie storiche riescano a rappresentare. In un periodo in cui sembra che tutto debba esser nettamente contrapposto, bianco o nero, amico o nemico ecc. anche questo è un piccolo insegnamento che i nomi incisi sul cippo di Colle e la loro piccola storia ci trasmettono.

Colle: Commemorazione 2023

Fonti e citazioni

Biancardi Giovanni (a cura), 1a Divisione Ossola «Mario Flaim». Diario storico, Verbania 1995, p. 102 e passim.

Caretti Roberto, Nella sua fresca giovinezza. Alpe Colle, 23 luglio 1944, in “Vallintrasche 2012”, pp. 139-142.

Chiovini Nino, I giorni della semina, Tararà, Verbania 2005, pp. 115-116 e passim.

Chiovini Nino, Val Grande partigiana e dintorni. 4 storie di protagonisti, Comitato Resistenza – Comune di Verbania, 2002.

Chiovini Nino, Fuori legge??? Dal diario partigiano alla ricerca storica, Tararà, Verbania 2012, passim.

Chiovini Nino, Piccola storia della banda di Pian Cavallone, Tararà, Verbania 2014, p. 107.

Ferrari Erminio, Valzer per un amico. Racconti, Tararà, Verbania 2020.

Manzoni Mario, Partigiani nel Verbano, Comitato Unitario per la Resistenza nel Verbano, Verbania, 2008, pp. 81-95 e passim.

Sciomachen Felice e altri, La Scelta. 1943 – 1945, Alberti, Verbania 2001, pp. 19-25, 53-62.

Tordini Nico e Lino, Partigiani di Valgrande. Ricostruzione critica …, 2 volumi, Alberti, Verbania 2021, passim.

Arialdo Catenazzi. Colle 2023

 Fonti iconografiche

Archivio personale

Centro di Documentazione Casa della Resistenza

Felice Sciomachen e altri,, La Scelta cit.

ANPI Alto Verbano

Flavio Maglio


[1] Enrico Massara, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese. Uomini ed episodi della lotta di liberazione, Novara 1984, pp. 860.

[2] Erminio Ferrari, “Quel che dobbiamo alla Valgrande”, in Nino Chiovini, Val Grande partigiana e dintorni. 4 storie di protagonisti …, Verbania 2002, p. 10.

[3] Fuori legge??? Dal diario ecc., pp. 82-84.

[4] Mario Manzoni (Marmelada), Partigiani nel Verbano, cit. p. 88.

[5] “… il sudafricano Gimmy (Leon Kantey, nato il 14/10/1921 a Mossel Bay, Sud Africa, e morto nel 2003 negli Stati Uniti) …” in Tordini Nico e Lino, Partigiani di Valgrande ecc., p. 51. Mario Manzoni così testimonia il suo inserimento nella formazione nel marzo ’44 quando la Battisti era ancora dislocata a Steppio (in codice Sciangai): “Nell’ultimo gruppo di ‘orfanelli’ [reclute] che ho accompagnato a Sciangai c’è anche un sudafricano, Gimmy, che non vuol saperne di andare in Svizzera ma vuole restare con la “Bat­tisti” per continuare a combattere in Italia. Già precedente­mente altri militari alleati si sono uniti alle varie formazioni partigiane, ma i comandi anglo-americani, salvo casi speciali e previa loro autorizzazione, non sono d’accordo su queste fusioni spontanee. Qualcuno di questi militari è tuttora in Italia, ma la maggior parte, dopo una permanenza più o me­no lunga, ha preferito la Svizzera. Arca cerca invano di far­gli capire questa e altre cose, ma Gimmy è irremovibile, si trova bene con noi. È un tipo allampanato, alto più di un metro e ottanta, ma non pesa più di settanta chili, e sa il fatto suo. Parla discretamente l’italiano, e diventa presto il beniamino di tutti perché è sempre pronto a portare il suo aiuto a chi ne ha bisogno …“. (Partigiani nel Verbano cit. p. 48.  

[6] Operazione realizzata con l’utilizzo della ferrovia Intra-Premeno, due camion e un motofurgone. Vengono prelevati circa 50 quintali di viveri (cioccolata, zucchero, scatolame) distribuiti poi in parte alla popolazione e alle formazioni contigue. Cfr. Diario storico cit. p- 101 e Partigiani nel Verbano p. 88-89.

[7] Ivi, p. 90.

[8] Nella sua fresca giovinezza cit., p. 140.

[9] Attualmente è il punto di partenza della ZipLine Lago Maggiore che permette un “volo” sino all’Alpe Segletta.

[10]Tre camionette tedesche, seguite da un camion” secondo il Diario storico cit. p. 102.

[11] Partigiani nel Verbano cit. p. 91-92.

[12] Secondo il Diario storico (p. 102) Selepukin non era solo, ma con due altri partigiani, dei quali comunque non si ha nessuna notizia.

[13] Tre secondo Chiovini (I giorni della semina cit., p. 116), uno secondo il Diario Storico.

[14] Nel Diario storico i due episodi sono fusi – e confusi – fra loro. Pur essendo strettamente collegate, le due vicende sono temporalmente e localmente distinte come le testimonianze dirette dei due feriti a Pian d’Arla e il testo del Manzoni chiaramente evidenziano. Di seguito il testo del Diario storico:

“23 luglio 1944 Durante il trasferimento, una squadra sosta a Colle (ignara dello stato di allarme). Tre camionette tedesche, seguite da un camion, sbu­cano a motore spento dalla strada di Trarego Piazza e aprono il fuoco sul gruppo a riposo. Tre partigiani cadono e un ragazzo conducente di un asino.

Dopo il primo smarrimento, una squadra comandata da «Peo» (Pompeo Mancarella) cerca di attaccare la colonna. Si incontra con un forte pattuglione tedesco di fiancheggiatori. Violenta sparatoria. «Peo» viene ferito. Il russo Selepuchin (uscito dalla Svizzera con 8 compagni per combattere i nazifascisti), appostatosi con due uomini, tiene a bada col suo moschetto il pattuglione che retrocede con qualche ferito. Selepu­chin, ferito, muore dissanguato. Vicino alla sua arma, con l’ultimo colpo in canna, si ritroveranno 7 caricatori vuoti.

Perdite nostre: 3 partigiani morti e un ragazzo 3 feriti e un prigioniero

Non accertate le perdite nemiche.”

[15] Paolo Zucchi, oltre che oste di Scareno, capo contrabbandiere del paese. Lui e la sua famiglia (sorella, figlia e nipote) hanno aiutato i partigiani a nascondersi e a rifocillarsi durante il rastrellamento, allestendo anche una sorta di infermeria per i feriti. Si impegnerà poi nel recupero delle salme dei caduti. Di lui, nel diario, dice Chiovini “A La Rocca finalmente troviamo Palin. Non è un partigiano, ma fa lo stesso: Palin dice che la Battisti è tutta a Scareno, a casa sua. Palin, nella “Battisti” è conosciuto anche dalle reclute. È un abitante di Scareno e per noi è staffetta, guida, albergatore, portaferiti, becchino, tutto. È una istituzione da premio Nobel.” (Fuori legge??? cit., p. 88). Cfr. anche Partigiani di Valgrande, cit. p. 427 e 578.

[16] Partigiani nel Verbano cit. p. 90.

[17] “Incontri troppo ravvicinati” in La scelta cit., p. 57-60.  Il testo completo del capitolo è scaricabile < qui >.

[18] Ivi, p. 57.

[19] Nel loro racconto si ipotizza che si trattasse “di pat­tuglie inviate ad esplorare la strada al di là del curvone per evitare all’autoblindo di incappare in qualche imboscata.” Potrebbe anche trattarsi della squadra che ha ingaggiato il combattimento con Selepukin e che ora sta scendendo per ricongiungersi al reparto in ricognizione sulla strada Cadorna verso il Vadàa.

[20] Ezio Bassani: cfr. la relativa scheda del Centro di Documentazione CDR.

[21] Ivi, p. 60.

[22] Nella sua fresca giovinezza cit., p. 140 e 142.

[23] Nei documenti compare anche con il nome di Leandro e di Alessandro. Sul monumento di Colle si indica l’età di 21 anni: in realtà li avrebbe compiuti nell’ottobre successivo. È un errore frequente nella attribuzione dell’età dei caduti partigiani in quanto spesso si computa l’anno di nascita (1923 in questo caso) e non la data precisa.

[24] Fuori legge??? cit. p.82-83.

[25] Partigiani nel Verbano, cit., p. 92.

[26] Sul Diario storico, che lo annovera fra i feriti (p. 130) vi sono dati discordanti rispetto a quanto risulta dalla scheda di riconoscimento sia sulla paternità (Egidio invece che Felice) e sull’anno di nascita (1922 invece che 1924). Manzoni lo chiama Robi, invece che Bobi. Il figlio Egidio sarà un noto sacerdote operante per lungo tempo a Verbania.

[27] La scelta cit. p. 19-22.

[28] La scelta cit. p. 23-25.

[29] Fuori legge??? cit. p. 89.

[30] Piccola storia ecc. cit., p. 107. L’aria del canto è quella di “Ho sentito sparate il cannone”.

[31] Karl e Ludwig Muller. Così Chiovini nel suo Diario rievoca il loro arrivo nel maggio ’44: “Due militari della “Luftwaffe” hanno disertato. Anche loro non vogliono più combattere la guerra. Sono partiti da Oleggio con un autocarro e dopo averlo distrutto, si sono presentati a noi. Si chiamano Karl e Ludwig, dicono di essere austriaci. Karl è biondo, alto, secco; ha un viso affilato, occhi di colore indefinibile. Il suo sguardo, sempre intelligente, talvolta è tagliente, quasi cattivo, talvolta chiaro e scanzonato come quello di un monello. È loquace e si esprime in un italiano stentato e buffo. Ludwig è l’opposto: piccolo, tozzo, taciturno, capelli ed occhi castani, viso quadrato e sguardo impenetrabile. Non si sa affatto esprimere in italiano. Forse la sua intelligenza è chiusa quanto il suo carattere. Sono eccellenti bevitori e Karl ha subito fraternizzato con Bagat.” In Fuori legge??? cit. p. 61,

[32] Valzer per un amico, cit. p. 32-34.

[33] Cfr. Raphael Rues, SS-Polizei. Ossola-Lago Maggiore 1943-1945, Insubria Historica, Minusio (CH) 2018.

[34] Sulla complessa e tutt’altro che facile e lineare “resa dei conti” della Germania con il nazismo cfr. Tommaso Speccher, La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, Laterza, Bari-Roma 2022.

La comunicazione nei percorsi educativi

È uscito da poco il n. 2/2023 della Rivista online Alternativa-A che così si presenta nella pagina dedicata:

Alternativa è una pubblicazione trimestrale di servizio e di aiuto per chi, in ambito provinciale, opera in campo sociale, come professionista o volontario, in enti, istituzioni, cooperative e associazioni e anche per chi, semplicemente, a quel campo guarda con interesse. La rivista è l’evoluzione dello storico periodico “Alternativa A”, nato nel 1984 per volontà dell’Associazione omonima, del quale raccoglie una solida eredità di impegno nel sociale.

Questo numero, pur mantenendo il carattere di una rivista con rubriche e argomenti diversi, propone come focus il tema della Comunicazione nei suoi diversi aspetti e ambiti. Mi è stato chiesto un pezzo sulla “Comunicazione nei percorsi educativi e formativi” con l’indicazione di una lunghezza “pari a un massimo di 3/4 pagine, ognuna della quali di ca. 4500 caratteri”. Una bella scommessa vista l’ampiezza dell’argomento; ho allora sfruttato al massimo – come d’altronde faccio spesso nel mio blog – la caratteristica di una rivista online che permette ipertesti con molteplici collegamenti anche a documenti.

Non si può non comunicare.

Il primo assioma della comunicazione, insieme agli altri quattro enunciati per la prima volta alla soglia del ’68 da Watzlawick e dai suoi colleghi di Palo Alto, dovrebbero esser entrati da tempo nel senso comune, almeno per tutti quelli che si occupano di educazione. Rispetto al modello logico o “matematico” elaborato un ventennio prima da Shannon e Weaver (emittente – codifica – messaggio – canale, con eventuale rumore – decodifica – ricevente) viene introdotta un’altra dimensione, quella comportamentale e contestuale, o se vogliamo analogica. Il cosiddetto rumore non è più un “disturbo”, ma ulteriore comunicazione che può arricchire, precisare, ma anche contraddire il messaggio.

Ne derivano alcune conseguenze, o corollari, di cui è utile aver consapevolezza:

  • Non sempre siamo consapevoli di comunicare
  • Non sempre sappiamo cosa comunichiamo

Per uscire da quello che può apparire come un discorso astratto mi soffermo su un recente episodio di cui si è ampiamente discusso sui media. Un chiaro esempio di comunicazione inconsapevole: si tratta della circolare della preside del Liceo “Leopardi” di Aulla.

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Villafranca, 21 aprile 2023 Circolare n. 644

Ai docenti, agli studenti, ai genitori di tutte le classi

sede di Aulla

Oggetto: debate

Giovedì 27 aprile 2023 alle ore 10.05 gli studenti delle classi succitate, accompagnate dai docenti in orario, si recheranno nella sala Consiliare del Comune di Aulla per partecipare al dibattito sul topico “Noi riteniamo che non sia più opportuno che il 25 aprile venga festeggiato come una festività nazionale”, animato da una squadra mista di alunni dei tre licei lunigianesi.

Al termine dell’attività, presumibilmente intorno alle ore 12.00, si farà rientro in classe per completare l’orario curricolare.

F.to IL DIRIGENTE SCOLASTICO SILVIA ARRIGHI

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Dato per scontato che né la Preside e la sua scuola, né il Comune ospitante avessero intenzione di sostenere le tesi negazioniste della Resistenza e negare il valore del 25 aprile, come successivamente “precisato” da entrambi gli enti, il messaggio della circolare nel contesto temporale (a ridosso del 25 aprile) e tematico (le polemiche da parte di esponenti nazionali della nuova maggioranza) produce invece l’effetto opposto. La sua lettura da parte di chi non era direttamente coinvolto nella iniziativa sembrerebbe confermare il contrario: ovvero che è lecito e magari anche opportuno abolire la festività nazionale del 25 aprile con tutto ciò che una tale scelta significherebbe sui valori fondativi della nostra Repubblica. E così ovviamente è stata letta con il risultato che l’iniziativa, “per evitare ulteriori polemiche”, è stata poi annullata[1].

Nel tentativo di chiarire la vicenda la scuola parla della metodologia del “Debate”, metodologia didattica che consiste in una gara argomentativa, con regole codificate, tra due gruppi di studenti che sostengono tesi opposte a partire da un titolo “topico” che può apparire provocatorio e si dà quale altro esempio la tesi del terrapiattismo.

 Non si tratta di una metodologia “locale” ma da tempo praticata in molte scuole e sostenuta dall’Indire[2] che così la definisce:

Debate (Argomentare e dibattere)

Il «debate» è una metodologia per acquisire competenze trasversali («life skill»), che favorisce il cooperative learning e la peer education non solo tra studenti, ma anche tra docenti e tra docenti e studenti. Il debate consiste in un confronto fra due squadre di studenti che sostengono e controbattono un’affermazione o un argomento dato dal docente, ponendosi in un campo (pro) o nell’altro (contro). Il tema individuato è tra quelli poco dibattuti nell’attività didattica tradizionale (…)

Personalmente ho molte perplessità su questa metodologia didattica che tra l’altro c’entra poco con cooperative learning e peer education.

Cerco di spiegarmi. Il presupposto è che esista una tecnica di argomentazione neutra rispetto ai valori e alle tesi sostenute. Ma allora il tema scelto dovrebbe essere estraneo al contesto valoriale. Questo potrebbe valere in ambito scientifico dove le questioni aperte sono però al di fuori della portata di studenti di scuola secondaria, oppure su questioni liberamente opinabili a prescindere dai valori; ma in quest’ultimo caso si andrebbe a discutere su questioni del tutto banali.

Nel caso in esempio (25 aprile) o altri simili (es. pena di morte) come si scelgono poi le squadre? Tra l’altro il sito di Indire che presenta possibili modalità di Debate a più livelli di crescente complessità, su questo punto è invece molto vago. A caso (sorteggio ecc.) o si tiene conti delle opinioni dei partecipanti? Come? Costringendo magari a sostenere una tesi non condivisa e contraria alle proprie convinzioni e valori?

Il messaggio implicito è che le due tesi siano del tutto equivalenti, ma è evidente che non lo sono. E che comunque le tesi possibili siano dicotomicamente due (tesi “A” e antitesi “non A”) in una logica binaria mentre nella maggior parte dei casi reali prevale una logica fuzzy a più valori.

In sostanza mi pare una metodologia al passo con questi tempi dove sembra esser lecito sostenere qualunque assurdità al di là dell’evidenza e pertanto lasciando libero spazio alle fake news e alla possibile negazione dei valori fondanti di una società democratica (es. razzismo) e dove quello che conta è vincere (il cosiddetto “merito”).

Diverso è il caso del cooperative learning e della peer education che non sono metodologie neutre ma strategie con esplicite finalità valoriali: la cooperazione (e pertanto l’inclusione[3]) nel primo caso, la prevenzione nel secondo.

Questo significa che non è opportuno sviluppare abilità logico argomentative attraverso spazi appositi? Certamente no, anzi! Ad esempio nel 2002, ben prima che si parlasse di Debate, nell’indirizzo di Scienze Umane e Sociali abbiamo dato vita ad un Progetto Agorà volto alla acquisizione e sviluppo progressivo di competenze dialogiche (documentazione, ascolto attivo, comunicazione efficace, strutturazione logica ed argomentazione, osservazione/auto-osservazione e giudizio) attraverso uno spazio di discussione strutturata e monitorata su tematiche culturali, sociali e politiche. Le differenze principali rispetto al Debate: un argomento, scelto alternativamente da studenti e docenti e non tesi dicotomiche; non squadre contrapposte ma fasi di discussione che dal piccolo gruppo arrivano alla plenaria; espressione argomentata da parte dei partecipanti delle proprie posizioni e del loro modificarsi nel confronto; monitoraggio, automonitoraggio e valutazione dell’esperienza. Tra gli argomenti allora affrontati ricordo ad esempio: Possibilità di legalizzazione dell’eutanasia, Altre dipendenze (fumo, alcool, gioco, mode …), Trasmissione televisiva Il Grande Fratello[4].

Professione docenti.

Non è un refuso. La professionalità docente si acquisisce e si esercita collettivamente e la qualità di una scuola non dipende dalla qualità dei singoli ma dalla capacità dei docenti di lavorare in sintonia all’interno di una programmazione e finalità comuni. Se questo non avviene le modalità didattiche e gli stili di insegnamento dei docenti che agiscono sugli stessi gruppi classe possono esser fra loro incongrui con risultati contraddittori e negativi indipendentemente dalla competenza culturale e didattica dei singoli. La comunicazione “fra colleghi” non è allora da intendersi fra attività e percorsi paralleli ma di forma circolare, quella appunto che caratterizza una équipe affiatata.

Non è questa l’immagine normalmente percepita al di fuori del contesto scolastico, dalle famiglie e nei media, per non parlare della filmografia dove si è imposto il topos dell’insegnante eroe che, spesso in contrasto con colleghi e dirigenza, trasforma una classe demotivata e disagiata, plasmandola a sua immagine. Tutti, immagino, hanno visto e si sono magari commossi di fronte alle vicende del professor Keating e dei suoi allievi ne L’attimo fuggente divenuto il prototipo di film analoghi[5] per trama e dinamiche, altrettanto fuorvianti su ruolo e professionalità docente. Vale allora la pena fare un confronto con un film apparentemente opposto come L’onda e scoprire che, sia pur con finalità diverse, anzi antitetiche, le modalità didattiche e le dinamiche innestate dall’azione “educativa” di Keating e Wenger siano sostanzialmente analoghe.

No, la comunicazione educativa non avviene fra un singolo (il docente) e un gruppo (la classe), ma a più livelli a partire dalla specifica scuola con le sue regole di comportamento (effettive più che formali), dalla stessa struttura fisica ed anche dal suo aspetto esteriore di ordine e cura (o viceversa di incuria), sino alle équipe (gli insegnanti di un Corso e i singoli Consigli di classe) e le classi degli studenti, anche loro con dinamiche e modalità relazionali complesse e non sempre esplicite.

Affinché si realizzino équipe ben integrate, in grado di agire in sintonia e realizzare progetti didattici congruenti – sia che questi siano da loro stesse concepiti, oppure recepiti da proposte esterne – queste abbisognano di tempo e pertanto di stabilità, cosa oggi non facilitata dalle recenti normative e dalla tendenza a frammentare l’orario con mini corsi di due ore settimanali; e non sempre i dirigenti scolastici sono consapevoli di questa esigenza.

Vi sono comunque pratiche di facile realizzazione che possono facilitare una professionalità condivisa. Quella più diffusa è certamente la compresenza con due o più insegnanti che intervengono su una classe o su classi riunite: tali attività non solo comportano arricchimento reciproco ma richiedono di mettere in sintonia reciproche modalità, contenuti e finalità.

Un’altra pratica, sperimentata e promossa dall’IRRSAE Piemonte quando la coordinatrice storica della Sperimentazione del Cobianchi vi si era trasferita, è quella dell’amico critico: un collega interviene durante una o più lezioni in qualità di osservatore con un attento monitoraggio delle interazioni, verbali e non verbali, fra il docente e la classe. A tal fine possono essere utili apposite schede su cui riportare tali osservazioni come quelle realizzate al Cobianchi all’interno di un Progetto qualità (1998-2001) sulla Comunicazione verbale e la Comunicazione non verbale[6]. Successivamente i ruoli vengono scambiati e l’osservatore diventa osservato.

Le dimensioni del gruppo classe e la sua manutenzione[7]

Se la comunicazione ed interazione didattica avviene fra due gruppi, l’équipe dei docenti da un lato e il gruppo classe dall’altro non bisogna sottovalutare il fatto che ogni classe ha specifiche caratteristiche date non solo dalla sommatoria dei singoli, ma soprattutto dalle dinamiche che intercorrono fra gli studenti (e fra studenti e insegnanti), dinamiche che possono sia favorire l’apprendimento da parte del gruppo che contrastarlo, dinamiche non sempre facili da leggere. In più casi può essere utile sia l’intervento di un esperto/osservatore esterno che l’utilizzo di questionari o altri strumenti di ricerca che evidenzino le problematiche ed eventuali tensioni sotterranee e permettano l’individuazione e progettazione di percorsi idonei ad affrontarle[8].

Il gruppo classe è infatti vissuto come un luogo forte di coinvolgimento emotivo, sia in positivo (le amicizie, le fedeltà, le esperienze forti) che in negativo (rifiuto, sofferenza, solitudine). Inoltre fra il gruppo classe “formale” (l’elenco del registro) e quello informale (quello delle amicizie e degli af­fetti) può esserci una forte discrepanza; all’interno di quest’ultimo può costituirsi un gruppo classe “segreto” che accetta ed include ma, in altri casi, rifiuta ed ostracizza (compagni di classe e tal­volta insegnanti) e che può muoversi secondo prospettive del tutto incongrue con le finalità educative. La vita della classe può diventare allora un vero e proprio inferno con con­flitti più o meno latenti, incomprensioni reciproche fra insegnanti ed allievi, estenuanti contratta­zioni, ecc. Il luogo meno adatto insomma ad una positiva crescita culturale, professionale, sociale e civile.

Il bullo che non c’è … ma è presente e assai diffuso il bullismo[9]

L’attenzione nel mondo occidentale al fenomeno del bullismo è relativamente recente per poi diventare, da categoria assente, a termine di largo utilizzo, spesso a sproposito. Le prime indagini a partire dagli anni ’70 sono quelle dello svedese Olweus che si concentrava sulla figura del “bullo” e sulle sue caratteristiche. Questa metodologia di ricerca, applicata nei decenni successivi in diversi paesi, Italia compresa, registrava il fenomeno soprattutto nella scuola elementare e media per poi decrescere e scomparire con l’avanzare dell’età.

Nello stesso periodo in Giappone si sono sviluppati gli studi sull’Ijime, una dinamica di gruppo che tende ad ostracizzare ed emarginare alcuni dei suoi membri. Dinamica spesso ignorata dagli adulti e talora anche, più o meno consapevolmente, da loro rinforzata. Le ricerche effettuate nella scuole secondarie, anche nel nostro territorio, hanno evidenziato come proprio questa sia da un lato una modalità ampiamente diffusa e dall’altro quella che produce maggiore sofferenza nelle vittime. Essere in grado di “leggerla” nella quotidianità significa conoscere e riconoscere le dinamiche che non si limitano a due soggetti (il bullo e la vittima) ma all’insieme delle relazioni nella classe, nella scuola e fuori dalla scuola (es. nei gruppi associativi e sportivi). Dinamiche che hanno a che vedere con la costruzione dell’identità del gruppo e il costituirsi al suo interno di una leadership.

Questa dimensione gruppale ed identitaria della dinamica da un lato include ed esclude (ostracizza), dall’altro costruisce e/o rinforza la leadership del gruppo stesso. La designazione della/e vittima/e cambia pertanto caratteristica da classe a classe, da scuola a scuola. Per fare un esempio in una classe può essere vittimizzato il “secchione” che va benissimo a scuola e in un’altra invece lo studente con difficoltà di apprendimento, quello/a che veste elegante e in altro caso quello/a che non indossa capi di abbigliamento firmati, ecc.

Se non si sa leggere la dinamica di quello specifico gruppo il risultato è che il bullismo (l’ostracismo) per adulti ed educatori sia invisibile oppure lo si avverta solo quando interviene qualche episodio eclatante. Magari proprio quando la vittima, a lungo sottoposta a persecuzioni, “esplode” e reagisce anche in modo violento con la conseguenza, non infrequente, di esser lei quella sanzionata. Oppure quando è troppo tardi perché ha messo in atto la sua strategia di fuga: cambio scuola, abbandono degli studi, ritiro sociale (Hikikomori) … o peggio, sino al suicidio[10]. Un aspetto da non ignorare è che le vittime normalmente si vergognano e non vogliono che le loro sofferenze diventino pubbliche: il dover ammettere di essere sottoposte a continui soprusi può esser fonte ulteriore di enorme sofferenza.

Da un po’ di anni si parla di cyberbullismo, il più delle volte come se fosse un fenomeno a sé stante,indipendente dal bullismo e addirittura come “un pericolo che viene dalla rete” (testuale da un articolo giornalistico). Il bullismo (l’ostracismo) ha residenza elettiva nella scuola e, secondariamente, in altri momenti aggregativi dei pari: ha radice nella relazione reale e semmai rinforzo attraverso il web che per le sue note caratteristiche velocizza le dinamiche e amplifica la platea.


[1] Sul dibattito scaturito dalla circolare si può ad esempio leggere l’articolo pubblicato sul quotidiano locale La Voce Apuanadel 24 aprile.

[2] Cfr. https://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/debate  

[3] L’opposto della “scuola del merito” non è ovviamente la “scuola del demerito”, ma appunto la scuola dell’inclusione che non è altro da una scuola autenticamente democratica. Le pagine di don Milani della Lettera a una Professoressa sono ancora, drammaticamente, attuali.

[4] Non è qui possibile dettagliare il progetto completo che è comunque possibile visionare ed eventualmente scaricare dall’archivio del mio blog: < qui >.

[5] Si possono ricordare la variante musicale di School of Rock (2003) e quelle al femminile: Mona Lisa Smile (2003), Freedom Writers (2007) e Una volta nella vita (2014).

[6] Consultabili e scaricabili dal mio blog Fractaliaspei: Scheda di Osservazione della comunicazione verbale e dell’interazione didattica < qui > e Scheda di Osservazione della comunicazione non verbale < qui >.

[7] Per un’analisi più articolata di questa tematica e l’esemplificazione di alcune pratiche didattiche volte a mettere al centro il gruppo classe e le sue dinamiche rimando ad un contributo collettivo pubblicato nel 2007 dai docenti dell’allora Indirizzo di Scienze Umane e sociali del Cobianchi nel volume Nuovi saperi per la scuola edito da Marsilio e scaricabile < qui >.

[8] Un percorso con queste caratteristiche è documentato sulle rivista delle Scuole sperimentali: Competitività, cooperazione, creatività e filosofie ellenistiche in Sensate Esperienze. Rivista trimestrale della scuola secondaria, ottobre 1994. In forma più completa l’esperienza è documentata sul mio blog.

[9] Anche su questa tematica rinvio a contributi sul mio blog: Il bullismo dalla fotografia al video e Bullismo (e Cyberbullismo). Letti con categorie dinamiche.

[10] La cronaca ci riporta periodicamente alcuni di questi episodi drammatici; ne ricordo due di larga risonanza, apparentemente opposti ma nelle dinamiche sottostanti molto simili: il suicidio dieci anni fa della quattordicenne Carolina Picchio e la recente strage attuata dal tredicenne Kosta in una scuola di Belgrado. Due sofferenze da parte di studenti scolasticamente irreprensibili, portate all’estremo dal gruppo dei pari e ignorate dal mondo adulto. Le parole fanno più male delle botte ha scritto Carolina; del tredicenne serbo le prime testimonianze dicono che era un nerd, considerato sfigato da compagni e compagne ed emarginato, in particolare nelle attività esterne alla scuola (parco giochi, gite ecc.).