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Femminicidio. Undici anni dopo cosa è cambiato?

15 gennaio 2024

La crudeltà, che secondo Nietzsche è «la risorsa dell’orgoglio ferito», scorre in canali diversi da quelli del lavoro e della conoscenza, in cui un’educazione razionale la potrebbe certamente orientare. (Max Horkheimer)[1]

Fractaliaspei – Frammenti similari di speranza nasce undici anni fa, per l’esattezza il 4 febbraio 2013 con il primo editoriale sul tema della speranza. Due giorni dopo con l’articolo 122 femminicidi nel 2012. Quanti nel 2013? ho aperto la sezione “Violenze di genere” a cui sono seguiti altri interventi ed articoli.

Con la sua recente riflessione (Femminicidi. Irrilevanza del patriarcato e illusioni dell’educazione all’affettività) Andrea Bocchiola mi invita a riaprire il dibattito e ad estenderlo a tutti coloro che intendono approfondire la tematica superando la comprensibile emotività che i recenti episodi hanno suscitato.

Questo blog è aperto ad altri contributi oltreché a commenti in coda a questi due interventi, naturalmente nel rispetto delle opinioni e della consapevolezza della gravità che l’argomento comporta.

2013 – 2023: uno scenario in lenta e faticosa evoluzione

Quell’articolo iniziava riferendosi alla squallida vicenda del volantino appeso sul portone della chiesa dal parroco di Lerici in cui affermava che sono le donne, con il loro comportamento, la causa prima dei femminicidi. Oggi sarebbe forse difficile ipotizzare un episodio analogo da parte di un parroco, ma la logica del “se la sono cercata” in riferimento a stupri e a violenze più gravi non è tramontata, basti osservare quanto avviene nei processi dove spesso, da parte di giudici e avvocati avversi, le vittime sono pesantemente vittimizzate (cfr. > qui <).

In un articolo successivo gli psicoanalisti Sonia de Cristofaro e Andrea Bocchiola intervenivano con una riflessione sulla violenza e l’esigenza di una sorta di principio di precauzione femminile: “Ogni donna dovrebbe disporre di un campanello di allarme interno che, dinanzi a certe situazioni gravide di violenza le fa dire “no” prima ancora di incespicarvi.”

Di qui la necessità di “un terzo” sia simbolico che reale:

Innanzitutto serve la ricostruzione di un patto sociale tra le donne e le istituzioni dello stato e quindi l’assicurazione della presenza di un “terzo” simbolico (interno, cioè psichico, ed esterno, cioè legale) come assetto minimo di prevenzione della violenza maschile.”

Se sul piano legislativo non sono mancati strumenti di maggior tutela contro le varie forme di violenza di genere, la loro effettiva applicazione e tempestività è ancora del tutto carente per cui quel “patto” è ben lungi dall’essersi realizzato come una recente polemica che ha coinvolto polizia di stato e carabinieri ben evidenzia.

E veniamo alla questione dei numeri. Se per l’anno 2012 la valutazione era di 122 femminicidi, per il 2023 le valutazioni sono discordanti e oscillano fra i 109 e gli 88 e in un caso scendono addirittura a 43. Il motivo di questa disparità è risaputo: non tutti gli omicidi di donne sono femminicidi ma una definizione legislativa e giuridica condivisa sia sul piano nazionale che internazionale è ancora da realizzare. Su questa tematica tra i molti altri si possono consultare l’Osservatorio Femminicidi di Repubblica e un approfondimento del periodico L’essenziale.

Anche prendendo il dato più alto (109) sembrerebbe esservi una diminuzione rispetto ai 122 del 2012; una bella analisi su today.it ci fa capire che i numeri vanno letti con attenzione e possono esser facilmente fraintesi: infatti mentre in generale quantità e statistica degli omicidi in Italia nel decennio 2012-2021 è costantemente diminuita, questo vale per la componente maschile ma non per quella femminile, proprio a causa dei femminicidi il cui tasso (0,4 ogni 100mila abitanti) è rimasto sostanzialmente invariato e colloca il nostro paese al terzo posto in Europa di questa tragica graduatoria, dopo Germania e Francia.

Affermare che nulla da allora è cambiato sarebbe comunque fuorviante. A partire dalla stessa parola Femminicidio – e dal relativo concetto – che pur inserita quale neologismo nel 2008 dalla Treccani e nonostante la pubblicazione nello stesso anno di un approfondito studio comparativo della giurista Barbara Spinelli[2], allora faceva fatica ad essere accettata e non mancavano, nel dibattito pubblico misere battute  del tipo “allora l’assassinio di un maschio è un ‘maschicidio’!”. Anche se esistono ancora resistenze ad un suo inserimento nella legislazione, oggi la differenza fra un omicidio con vittima femminile e un femminicidio, sia pur nella più generale accezione di “omicidio di una donna in quanto donna”, è generalmente accettato. Tanto che per la Treccani “femminicidio” è la parola dell’anno 2023.

Per quanto riguarda la quantificazione e il monitoraggio della violenza di genere nel corso degli anni, un importante passo in avanti è costituito dalla Legge 5.5.2022 n. 53 (Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere) che fissa criteri precisi per rilevarne le diverse forme garantendo “un flusso informativo adeguato per cadenza e contenuti sulla violenza di genere contro le donne al fine di progettare adeguate politiche di prevenzione e contrasto e di assicurare un effettivo monitoraggio del fenomeno” con la possibilità, nei prossimi anni, di confrontare dati omogenei.

Direi che ciò che è soprattutto cambiato è la sensibilità collettiva che si esprime in molteplici forme che vanno oltre alla rottura del silenzio che sottolineavo nell’aprile 2013. Sul piano mediatico se la trasmissione di approfondimento curata da Riccardo Iacona costituiva una assoluta novità, da allora il tema ha continuato ad esser presente sia in televisione che in molteplici spettacoli teatrali e le testate giornalistiche televisive in più casi dedicano un apposito spazio (es. > qui < e > qui <), per non parlare della stampa quotidiana. Sul versante legislativo è nel 2013 che prende vita la prima legge esplicitamente volta al “Contrasto alla violenza di genere” (Legge 15.10.2013 n. 119) che ha aperto la strada ad un settore specifico della nostra legislazione e nel 2017 ad una specifica Commissione parlamentare di inchiesta.

È soprattutto al livello della partecipazione pubblica che questa crescente sensibilità si è manifestata sia con una presenza più consistente ed attiva agli eventi pubblici come quelli legati alla giornata internazionale del 25 novembre, in particolare dal 2016 con la costituzione anche in Italia del movimento femminista “Non Una di Meno”, sia con momenti simbolici come scarpe, nastri e panchine rosse, oppure con murales riferiti alla violenza di genere e al femminicidio in generale oppure a casi specifici come quello di Marsala per Marisa di Leo.

A livello di approfondimento numerosi gli incontri, le conferenze e i convegni. Sul piano locale ricordo quello organizzato per l’8 marzo del 2023 dal Coordinamento donne dello SPI-CGIL: “Perché Eva subisce la violenza? E, la legge, la difende abbastanza?” in cui sono emersi temi di rilievo quali il gap fra la normativa di tutela e la sua conoscenza e applicazione sottolineando come di fronte ad almeno un terzo di donne che subisce violenza, solo una su dieci sporga denuncia. Non solo per paura ma spesso per una concezione del rapporto di coppia fondato sulla dipendenza affettiva. Una concezione dell’amore che definirei la malsana concezione di un “universo a due” che isola la coppia dal contesto e che, in un periodo di declino della socialità, è spesso perseguito non solo dalla componente maschile, ma anche da quella femminile. Un universo chiuso e malato laddove qualsiasi piccola differenza – di opinione, di scelta, di comportamento – può facilmente sfociare in violenza ove ovviamente è la componente femminile a subire.

E finisco questa frammentaria e necessariamente incompleta carrellata sul decennio trascorso citando il Progetto Airone: di fronte al drammatico tema degli orfani di femminicidio – tema a lungo ignorato e su cui legislazione e interventi statati sono in terribile ritardo – si è costituito nel 2015 un partenariato di trenta soggetti pubblici e privati – tra cui cinque università – intorno ad un progetto di intervento “a sostegno di ciascun orfano di crimine domestico, che possa garantire per il futuro l’adozione di linee guida e protocolli d’intervento.”

Qualcosa sta cambiando?

Un aumento di conoscenza e sensibilità, iniziative di denuncia e di supporto alle vittime (es. Sportelli donna) che ha mobilitato operatori delle professioni sociali, associazioni ed enti pubblici in modo crescente ma che sinora ha coinvolto una minoranza attiva – soprattutto femminile – e che non pare sia riuscita ad arginare o diminuire violenza di genere e femminicidi.

Eppure ho il sentore che qualcosa stia cambiando. E non è solo un auspicio; mi riferisco in particolare ad un segnale e ad un evento specifico.

Un segnale. Il successo del film della Cortellesi. C‘è ancora domani non solo ha riportato il grande pubblico nelle sale ma lo ha fatto in un periodo dell’anno in cui in passato le sale si riempivano con i cosiddetti cinepanettoni perlopiù improntati ad una comicità casareccia quasi sempre volgare e maschilista, imponendosi invece con uno stile filmico e una tematica diametralmente opposti. Un successo frutto soprattutto di un passaparola – a voce e nei social – non certo dovuto solo ad una attenta pubblicizzazione o alla popolarità della attrice-regista. Certo alcuni critici e cinefili hanno storto il naso quasi che il successo in sala sminuisse la qualità del film[3]. Quello che qui mi interessa sottolineare è che la partecipazione di un così vasto pubblico, di ambo i sessi, su una tematica esplicitamente di contrasto al predominio violento maschile va ben oltre alla partecipazione attiva, ma comunque minoritaria, di cui abbiamo sopra parlato. In sostanza mi pare che questo sia il segnale che si sia raggiunta – o si stia per raggiungere – quella che in sociologia viene definita “massa critica” per cui opinioni e comportamenti di una minoranza attiva diventano maggioritari. Se dovessi esprimere in poche parole il mio giudizio sul film direi: “Un film giusto al momento giusto”.

Un evento drammatico

Mi riferisco naturalmente alla uccisione di Giulia Cecchettin; mai un femminicidio aveva polarizzato così l’attenzione e una simile partecipazione sia ai funerali che alle manifestazioni del successivo 25 novembre[4]. I motivi sono tanti, dal tempo passato fra la denuncia della scomparsa di Giulia al ritrovamento del suo corpo devastato, dal fatto che l’assassino era quello che fino al giorno prima si sarebbe di certo definito il prototipo del “bravo ragazzo” e soprattutto gli interventi della sorella Elena e quello del padre al funerale e successivamente da Fabio Fazio. Interventi importanti sia perché hanno voluto uscire dal dolore familiare per trasformarlo in impegno civile. Non è certo il primo caso, basti ricordare i parenti delle vittime delle stragi, o il padre di Carolina Picchio[5]. Con una differenza: in quei casi si faceva riferimento a eventi o tematiche specifiche (la verità su una strage, la denuncia e prevenzione del bullismo …) mentre sorella e padre di Giulia hanno posto un problema di responsabilità che riguarda l’intera società, la componente maschile in primo luogo ma, implicitamente, anche quella femminile. E che abbiano toccato un nervo scoperto lo si è visto da un certo numero di reazioni scomposte e incredibili con pesanti accuse di strumentalizzazione del dolore sia da politici che da conduttori televisivi. Reazioni che non vi sono certo state, ad esempio, nei confronti dei familiari della strage di Ustica e di Paolo Picchio.


Quando mi chiedo se qualcosa sta cambiando non mi riferisco solo al fatto che vi è maggiore sensibilità ed attenzione nei confronti della violenze di genere – che tra l’altro ha incentivato il numero di segnalazioni e richieste di aiuto al 1522 – né tantomeno ad una auspicata diminuzionedi femminicidi che anzi – come paventa Bocchiola nel suo intervento (violenza chiama violenza) – sembrerebbe esservi in questo inizio 2024 una sorta di efferata emulazione. E i media dovrebbero essere molto attenti a come affrontare questi casi, certo senza censura ma soprattutto senza alimentare morbosa curiosità.

Mi chiedo se non è maturo il tempo per affrontare in modo più efficace violenza di genere sia nell’analisi delle sue motivazioni sia nelle modalità e strategie di prevenzione. Abbandonando risposte semplicistiche e polarizzate, spesso frutto della applicazione meccanica di categorie politiche o moralistiche, non limitandosi nemmeno a trovare un accordo sul minimo denominatore come talora in parlamento. Certo se devo dar vita ad una legge, come la n. 53 sopra ricordata, di monitoraggio di violenza di genere, il non utilizzare la parola “femminicidio” può essere anche un compromesso accettabile. Ma questa logica del “troviamo ciò su cui siamo tutti d’accordo” non serve ad analizzare, capire e pertanto prevenire. In sostanza serve un pensiero critico che riesca ad andare alla radice di un fenomeno – il femminicidio – che sinora, nonostante quanto sottolineato sopra, non accenna a diminuire.

Alcuni spunti di riflessione e qualche considerazione sull’intervento di Andrea Bocchiola

Viviamo in una società complessa e le scienze sociali ci hanno insegnato che i fenomeni delle nostre società possono essere letti e interpretati da molteplici punti di vista disciplinari senza che una lettura interpretativa ne infici altre dando così vita a letture poliedriche che si arricchiscono fra loro.  E allora ad una lettura psicoanalitica e psicologica, è bene si affianchino sguardi ed analisi provenienti non sola dalla psicologia (anzi dalle psicologie) ma anche antropologiche e sociali, criminologiche e giuridiche, etiche e filosofiche ecc. Tanto più che viviamo non solo in una società in rapida trasformazione, ma soprattutto in quelle che definirei trasformazioni asimmetriche dove alcuni settori si modificano radicalmente mentre altri sono immuni dal cambiamento o addirittura regrediscono a modelli pregressi. Questo vale in generale (economia, stratificazione sociale, politica, modelli culturali ecc.) e in particolare per ciò che chiamiamo famiglia. A questo si aggiungono le integrazioni e gli innesti sociali e culturali dovuti alla crescente immigrazione. Per intenderci due recenti femminicidi come quello di Saman Abbas e quello di Giulia Cecchettin è evidente siano collegate a strutture sociofamiliari diverse, antitetiche direi, così come le modalità del loro compimento. Non dimenticandoci che il delitto d’onore è una fattispecie di femminicidio innestata nella struttura sociale del nostro paese e se la sua giustificazione giuridica è stata superata non è detto che la sua mentalità lo sia ovunque altrettanto. Questo perché i tempi di cambiamento delle strutture sociali, delle norme giuridiche e della mentalità hanno durata diversa (rapida, lenta, lunga).

Da tempo chi lavora nella scuola – e a maggior ragione chi opera nella psicoterapia – osserva quella che per comodità viene definita “società senza padri”[6] e un noto psicologo è arrivato a coniare il termine polemico di “figliarcato”. Fatta la giusta tara sulla necessità di semplificazione legate alla comunicazione giornalistica e mediale, non bisogna universalizzare dimenticando che – magari non solo in aree socio-geografiche più periferiche – possa permanere, o venir riproposto, il modello opposto del “padre padrone”.

Il patriarcato

“L’organizzazione patriarcale (della famiglia) è stata la forma storicamente predominante nelle società europee, e in essa è apparso concentrarsi il dominio dell’uomo sulla donna; ma forme anche più rigide e totalitarie di patriarcato si ritrovano presso molte altre società, p. es. quelle che hanno a base del proprio ordinamento giuridico, e più in generale della propria morale, la religione musulmana.”[7]

Cosa caratterizza questa famiglia patriarcale predominante in Europa prima dello sviluppo capitalistico ed industriale? Essenzialmente il fatto che la famiglia costituiva “una comunità di produzione[8] e il “patriarca” oltreché capofamiglia era proprietario e organizzatore della attività produttiva sia essa agro-pastorale, artigianale o altro. La famiglia patriarcale è strutturata su più livelli di parentela (famiglia allargata) di modo che la proprietà familiare si mantenga intatta e passi in eredità di norma al figlio maschio maggiore. E l’autorità del patriarca non ha un significato regressivo in quanto costituisce la garanzia di condizioni di relativo benessere all’intera famiglia allargata. Allora in senso proprio possiamo parlare di società patriarcale “rispetto ai tempi in cui (la famiglia) era la comunità produttiva dominante[9] mentre nei tempi successivi ed anche odierni possono permanere singole realtà di famiglie patriarcali con le caratteristiche sopra indicate (ad esempio il Maso tirolese).

Con lo sviluppo di modelli economici non più centrati sulla famiglia, ma sul capitale e l’industria, la famiglia si ristruttura secondo quella che è stata definita famiglia borghese, o coniugale o nucleare composta unicamente da padre, madre e un numero di figli progressivamente in diminuzione. Come ha ben dimostrato la mole di studi raccolti da Horkheimer nel testo citato il principio di autorità patriarcale si trasferisce sul capo famiglia borghese, in quanto detentore di un patrimonio economico essenzialmente monetario ma oramai senza le altre ampie prerogative del patriarca. Lo stesso avviene per le famiglie operaie e più in genere popolari che si strutturano in modo analogo a quelle borghesi.

Un modello di famiglia che nasce e si dimostra rapidamente fragile per vari motivi: la netta divisione di ruoli fra marito apportatore del reddito e moglie destinata alla cura della casa e dei figli viene spesso messa in discussione sia per motivi economici (il reddito integrativo della moglie e in certi periodi di crisi economica o di guerra non solo integrativo), la perdita del ruolo educativo-professionale del capo famiglia a cui è subentrato lo stato con la scuola pubblica, un principio di autorità disancorato dalla sua motivazione originaria e che può produrre sottomissione e mentalità autoritaria oppure, come ha ricordato Bocchiola, anche una giustificata ribellione ed infine il processo di emancipazione femminile che ha definitivamente messo in discussione i suoi ruoli cristallizzati.

 Una efficace narrazione di questa complessiva dinamica la ritroviamo ad esempio in un bell’intervento dello scrittore Maurizio Maggiani su La Stampa.

Quella a cui fanno riferimento i sostenitori della Famiglia (con la “F” maiuscola) e che spesso chiamano “famiglia naturale” (basterebbe aver letto un qualsiasi manuale di sociologia o antropologia per accorgersi che non è mai esistita una famiglia “naturale” ma molteplici modelli proprio perché l’uomo è “naturalmente un animale culturale”) è in realtà la famiglia coniugale-borghese. Tipologia non solo storicamente delimitata, ma oramai palesemente declinante. E val la pena sottolineare come spesso siano proprio i sostenitori politici della centralità della “famiglia naturale” e della sua difesa a vivere in realtà situazioni familiari-affettive lontanissime dal modello che vorrebbero imporre. Ma, come è noto, l’ideologia prescinde dal principio di realtà.

Concludendo sulla tematica del patriarcato ha senso oggi utilizzare quel termine? È evidente che quando, in relazione alla violenza di genere e al femminicidio si parla di “patriarcato” e “società patriarcale” non ci si riferisce ad una struttura sociale da tempo estinta ma essenzialmente a due aspetti: da un lato il netto prevalere nei ruoli sociali e nel riconoscimento economico delle figure maschili e dall’altro la permanenza (ideologica perché disancorata dalla realtà socio-economica) del principio di autorità del maschio-padre che non può trovare oggi altro fondamento dalla presunta superiorità del maschio altrimenti detta maschilismo[10]. È bene esserne consapevoli per evitare polarizzazioni inutili come quella fra le due affermazioni apparentemente dicotomiche:

  • Il patriarcato non esiste più da tempo (vera in riferimento alla struttura socio-familiare)
  • Il patriarcato permea ancora la nostra società (vera in riferimento alla ideologia)

Un dibattito del genere è ovviamente inconcludente e non fa fare un passo in avanti nel capire e nel prevenire.

La forza della Vergogna

Marsala. Murale per Marisa Di Leo

Da quando ho iniziato ad occuparmi di femminicidio mi sono convinto essenzialmente di due aspetti. L’irrilevanza quale causante (e spesso implicitamente scusante) della gelosia che spesso veniva richiamata (oggi meno frequentemente) quale motivazione. La gelosia dovrebbe semmai rivolgersi verso un antagonista ma il più delle volte l’antagonista è del tutto assente.

L’estrema rilevanza invece della vergogna: la messa in crisi di una identificazione con il modello di maschio dominante dall’imporsi di una donna che afferma la propria indipendenza affettiva e/o si afferma in modo più significativo del partner negli studi e nella vita sociale.  E siccome la vergogna – come ben sottolinea Ágnes Heller – non è altro che l’effetto dell’insieme degli sguardi altrui su di noi, proponevo un suo rovesciamento.

“Il primo passo è allora quello di dar vita ad una sempre più estesa esecrazione non solo “pubblica”, ma “di genere” che sommerga di vergogna quello che normalmente è chiamato “maschilismo” ma che preferirei chiamare “infantilismo sentimentale di maschi senza dignità”, di esseri incapaci di rappresentarsi sulla scena pubblica se non come conquistatori e dominatori, in sostanza privi di valore in sé stessi.
Occorre insomma rovesciare “l’orgoglio maschilista” in vergogna e discredito contrapponendogli l’orgoglio di uomini liberi e, in quanto tali, in grado di liberamente rapportarsi a donne libere.”[11]

La lettura – in parte rilettura – di testi etici ed antropologici della filosofa ungherese[12] mi conferma sul suolo centrale della vergogna e nel contempo sulla ingenuità della mia proposta del 2013.

Cerco di approfondire. La forma originaria di moralità si basa su di una autorità esterna e la sua interiorizzazione avviene appunto attraverso il meccanismo della vergogna. Lascio la parola alla Heller:

. Poiché è la comu­nità nel suo insieme che specifica e rende applicabili le norme, l’indi­viduo trae tutto il proprio contenuto normativo da fonti esterne, sen­za aggiungere o togliere alcunché a questo contenuto. Ciò significa che ogni persona parla a nome della comunità, ed è in tal modo che il giudizio morale prende forma nello sguardo, negli occhi degli altri. Questi occhi ti seguono in ogni tuo agire e in ogni tuo fare, si posano su di te e ti osservano. Se fai qualcosa che non dovresti fare, gli occhi degli altri ti fanno provare vergogna. Chi provoca il sentimento della vergogna? Chi ci guarda, o meglio i membri della comunità che ci os­servano e immediatamente suscitano in noi, se ci sentiamo differenti, il sentimento della vergogna. Questo tipo di autorità morale è propria delle società primitive, in cui occorre obbedire alle stesse norme e re­gole della comunità di appartenenza.[13]

Con lo sviluppo e articolazione della società – in sostanza con la nascita delle Polis – prende vita un’altra autorità morale, quella interna della coscienza.

Con il passare del tempo la società è diventata più complessa e l’au­torità morale si è sviluppata e sdoppiata nell’autorità morale interna che è la coscienza. Questa non coincide più con lo sguardo esterno de­gli altri, ma è una voce interna. La coscienza in quanto voce interiore ci parla, mette in guardia, consiglia, ricompensa, punisce. Con i suoi ammonimenti e i suoi consigli la coscienza è un sentimento orientati­vo. La nostra coscienza ci parla e se non l’ascoltiamo proviamo un do­lore assai più tormentoso di quello del corpo. D’altra parte se noi dia­mo retta alla coscienza proviamo gioia, soddisfazione, felicità. In Gre­cia troviamo la prima grande formulazione della coscienza nel δαίμων socratico, che non è più il potere della vergogna, ma una voce che spinge all’azione.[14]

Il “potere della vergogna” agisce allora soprattutto ove permane un assetto comunitario ed è chiaramente un agente ad. es. quando il comportamento femminile è visto come un affronto all’onore della famiglia. Il suo rovesciamento – che proponevo – è difficilmente realizzabile in una società frammentata retta sulla centralità dell’individuo (una “società desocializzata”). Lo sguardo che provoca vergogna non è quello di un pubblico generico veicolato dalla stampa o dai media (se un “amico” di un social non mi aggrada me lo levo subito di torno con un clic) né quello di una manifestazione di protesta, ma quello degli occhi con cui mi confronto quotidianamente.

Dall’altro lato l’autorità morale interna della coscienza – lo sguardo etico con cui guardiamo noi stessi – può essere messo in crisi dal prevalere del narcisismo, lo sguardo distorto e compiacente con cui preferiamo osservarci.

Il rovesciamento che mi auguravo può avvenire solo con il recupero di spazi comunitari, di una rivitalizzazione di un “bisogno di comunità” di cui parlavo qualche anno fa[15]. Ne gioverebbe non solo il contrasto alla violenza di genere e al femminicidio – una rete di sguardi solidali in grado di dar vita ad un’etica collettiva non violenta – ma più in generale le relazioni sociali, la cultura e una politica che sembra oggi essersi smarrita.

È anche quello che si augura Ágnes Heller in un bel saggio su cui mi propongo di ritornare (La società insoddisfatta[16]):

“Perché questo accada si devono stabilire varie comunità umane con stili di vita differenti, tutte in grado di offrire modelli morali-normativi per «la vita buona» ma diversi tra loro.”


[1] Max Horkheimer, Studi sull’autorità e la famiglia, Utet, Torino 1974, p. 56.

[2] Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, Milano 2008. Della stessa Spinelli la voce Femminicidio nell’Enciclopedia Italiana (Appendice 2015) > qui <. Da non confondere l’autrice con la omonima parlamentare europea e saggista, figlia di Altiero Spinelli.

[3] Per una rassegna di recensioni positive e talora negative si può guardare > qui < e > qui<. Per una lettura critica d’oltre confine si può leggere la recensione sul sito della RadioTelevisione della Svizzera italiana (> qui <)

[4] A Roma vi sono state 500mila manifestanti (con anche molti uomini) e iniziative si sono svolte in tutta Italia con richiami al femminicidio di Giulia Cecchettin e, talora, al film della Cortellesi. Cfr. > qui <, > qui <, > qui < e > qui <.

[5] Sulle iniziative di Paolo Picchio contro il Bullismo e il cyberbullismo cfr. > qui < e > qui <.

[6] Ne parlavo in un mio post del 2013. “… la funzione del padre è da tempo in crisi: il suo ruolo “terzo” si poneva come autorità in grado di porre un limite al rapporto simbiotico madre-figlio, indirizzando al differimento del piacere attraverso la scoperta del mondo sociale e delle sue regole. La crisi di quel modello è sotto gli occhi di tutti e sono del tutto inutili i richiami nostalgici che vorrebbero riproporlo. Ma non penso nemmeno che sia da accettare come ineluttabile (o addirittura da esaltare) la “società senza padri”. (Alla ricerca del padre)

[7] Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino 1978,voce “Famiglia, Sociologia della”, p. 306.

[8] Horkheimer cit., p.55

[9] Ivi, p. 50.

[10] Su quanto il maschilismo sia in effetti la maschera della fragilità maschile non mi soffermo e mi limito ad indicare alcuni testi che hanno approfondito il tema: William Pollack, No macho, Il Saggiatore – Net, Milano 2003; Stefano Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino 2009; Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2011. “Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa, dell’infanzia, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata”. (Ivi, p. 98).

[11] 122 femminicidi nel 2012. Quanti nel 2013?

[12] Le condizioni della morale, Editori Riuniti, Roma 1985; Etica generale, Il Mulino, Bologna 1994; Per una antropologia della modernità, Rosenberg & Sellier, Torino 2009; Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, Castelvecchi, Roma 2018.

[13] Per un’antropologia della modernità cit., p 76.

[14] Ivi,p.77.

[15] Cfr. anche L’orizzonte della comunità ai tempi di Internet.

[16] Riportato in Il potere della vergogna cit., pp. 345-362.

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