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Femminicidi. Irrilevanza del patriarcato e illusioni dell’educazione all’affettività

30 dicembre 2023

di Andrea Bocchiola

Psicoanalista (Società Psicoanalitica Italiana,  International Psychoanalytical Association)

Omicidio in casa (1890). Jakub Schikaneder

Da sempre gli uomini distruggono e uccidono volentieri

(W. Sofsky, 1996, Saggio sulla violenza)

Violenza chiama violenza. Ogni omicidio sdogana e legittima l’omicidio seguente. Caino non porta con sé la sola morte del fratello, ma tutte le morti che da quella discesero, per via di contagio. Incontenibile, la violenza ogni volta rinasce dalle proprie ceneri, dal proprio orrore e dal proprio abietto piacere. E così è per la violenza di genere: ogni femminicidio è insieme richiamo, istigazione e legittimazione del successivo, al punto che, se non è possibile e non è giusto non darne notizia, ogni notizia partecipa della perpetrazione di ciò che denuncia. E ora, di fronte a questa inarrestabile marea bisogna ammettere che la politica e la società hanno le armi spuntate, sia dal punto di vista della prevenzione che da quello dell’interpretazione del fenomeno. 

Per rimediare all’emergenza, una certa cultura di destra evoca l’inasprimento delle pene, come se non sapessimo, dall’esperienza, che la pena non ha alcun effetto di deterrenza sul crimine, visto che, se così fosse, dovremmo ormai vivere in una civiltà perfetta (e questo tralasciando il fatto che il carcere, che solo in pochi casi rispetta il dettato costituzionale della riabilitazione, sia più uno spaventoso incubatore del comportamento criminale che un luogo di rieducazione alla vita civile). Tuttavia anche la classica alternativa alle pratiche di sorveglianza e punizione, ossia l’idea liberal progressista di un’educazione all’affettività, sessuale e identitaria nelle scuole, sembra ignorare l’esame di realtà. Se infatti i sermoni e la loro versione post moderna, quella che sostituisce il Nuovo Testamento con l’expertise delle psicologie funzionassero, dopo secoli di prediche dal pulpito, dovremmo essere quasi tutti in via di canonizzazione.

Purtroppo la credenza che la conoscenza faccia la virtù, che basti insomma educare la coscienza, aumentare la consapevolezza delle persone o sostenere i loro buoni intenti, perché le esplosioni di violenza possano essere evitate, non è solo una pia illusione che ci fa dimenticare l’irriducibile godimento per la violenza che alberga nell’animo umano. È soprattutto un pernicioso misunderstanding rispetto alla comprensione del femminicidio e della violenza di genere. Il problema rispetto agli agiti violenti non sono infatti i contenuti educativi con cui riempire le coscienze dei giovani virgulti, anche ammesso e non concesso che il mondo degli affetti sia riconducibile a dei contenuti trasmissibili. Il problema è, piuttosto, la capacità soggettiva, psichica di contenere l’angoscia di sopportare e elaborare la frustrazione, la rabbia, e persino l’odio, senza esserne travolta e senza dare il via libera all’azione. La questione si gioca dunque ben poco sui contenuti e molto di più sulla tenuta dei contenitori psichici rispetto all’angoscia, alla frustrazione, alla rabbia e all’odio, provocati a esempio, dall’esser abbandonati. Quindi si gioca sui trasformatori psichici, ossia sulle funzioni mentali di trasformazione e digestione dei vissuti insopportabili e incomprensibili che albergano e ingombrano la mente, (come il dolore, la paura, lo spavento e così via), che dei contenitori costituiscono la nervatura essenziale. Sennonché imparare a contenere questi vissuti e a trasformarli non è qualcosa che nessuna educazione all’affettività possa insegnare direttamente o indirettamente. Posso ben conoscere la virtù, ma nel momento dell’odio la conoscenza e la consapevolezza non costituisce un argine. Di fatto il solo modo per sostenere queste funzioni è l’esempio. 

Marsala. Murale per Marisa Di Leo

Il genitore che dinanzi al neonato che piange è capace di contenere la propria angoscia dovuta al non capire il motivo del pianto e restare tranquillo, insegna al bambino che si può non essere travolti dallo spavento. Non perché glielo spiega a parole ma perché glielo mostra nel comportamento. I genitori che sanno contenersi non inondando con le proprie ansie i bambini, insegnano loro a esser più forti dell’angoscia che provano davanti ai momenti cruciali della crescita. I genitori che non trattano i bambini come dei piccoli principi, insegnano loro che si può sopravvivere al duro confronto con la realtà. Ancora, i genitori che non trattano i bambini come dei piccoli soggetti politici, demandandogli l’onere di dovere decidere loro cosa fare, dove andare e cosa mangiare, insegnano loro la virtù del limite e contengono la cosa più angosciante che ci sia: l’illusione di essere onnipotenti (quella del bambino che comanda il genitore). I genitori che non vanno all’arrembaggio del desiderio del bambino, accontentandolo subito per ogni capriccio (es. la bambina che vuole andare a danza e il giorno dopo è già iscritta alla migliore delle scuole e attrezzata nel migliore negozio di danza della città), insegnano al bambino che il desiderio non va solo espresso ma va fatto crescere, coltivato, che richiede tempo per essere fatto davvero proprio, digerito e quindi soggettivato. Al contrario abbiamo solo dei genitori che vandalizzano il bambino del suo desiderio e che se ne appropriano, lasciandolo depauperato e senza più la possibilità di capire se quel desiderio era suo o dei suoi parenti. I genitori che non trattano il bambino come una propria propaggine narcisistica di cui fare mostra come fosse un trofeo, insegnano al bambino il rispetto dei confini tra Sé e l’Altro e lo proteggono da una invasione di campo che, quando si verifica li fa impazzire di angoscia, rendendoli incapaci di consolidare i propri confini rispetto ai movimenti dell’altro (questa impossibilità, lo vedremo tra poco, è esattamente uno e dei più importanti detonatori della violenza di genere). I genitori che non fanno continui sermoni ai bambini, in base all’ideologia mal digerita del dialogo a tutti i costi, somministrandogli un bombardamento simbolico che nella maggioranza dei casi è inutile e in molti di essi produce solo rabbia e angoscia, prima o poi destinate a esplodere, preservano i bambini da quella che è la premessa a ogni violenza fisica possibile: quella violenza simbolica con la quale la ricchezza degli argomenti dell’adulto si mangia qualsiasi pensiero il bambino possa avere (piccolo inciso da psicoanalista che si occupa anche di bambini: nei capricci dei bambini è il bambino ad aver ragione e il capriccio è solo l’occasione per denunciare uno stato confuso della mente che nasce dalle ambiguità, ambivalenze e invasività psichiche degli adulti).  I genitori che non hanno paura del conflitto con i propri figli, che sanno sostenerlo senza doverlo fuggire o manipolare, che non sono dunque costretti a fare gli amichetti dei loro bambini, gli insegnano, senza dirlo ovviamente (anche volendo, come dirlo poi, senza percepire immediatamente una nota in falsetto?) moltissime cose, a esempio che il conflitto non distrugge il legame (il legame che nega il conflitto è collusione), che il legame può essere riparato, che si può tollerare il conflitto con l’altro senza angoscia catastrofica (che, come vedremo, è una delle premesse del femminicidio).

La scuola che funge da argine tra mondo familiare e vita pubblica, che non intrude nello spazio privato dei bambini (occupandosi delle loro vicende famigliari, affettive, psicologiche), insegna al bambino che esiste un mondo pubblico diverso da quello privato, che è possibile fare una differenza interna tra i due e che quando la vita personale va male, è possibile e necessario cavarsela lo stesso nella propria vita pubblica (scolastica prima e lavorativa poi). La scuola capace di bocciare e dare cattivi voti protegge il bambino dalla sua onnipotenza, gli offre un’occasione per prendersi del tempo di crescita, per un esame di realtà su se stesso e in generale per fare un uso evolutivo della frustrazione e della delusione, anche rispetto a se stesso. 

La scuola che mantiene l’asimmetria tra docente e discente, nella quale gli insegnanti non sono amici o gli psicologi dei loro studenti, nella quale, per fare un esempio gli studenti si alzano dal banco quando entra l’insegnante e la lezione frontale non è il male assoluto, introducono bambini e adolescenti, non solo alla differenza tra il gioco e la realtà ma a una acquisizione di disciplina e tenuta caratteriale, che sarà loro indispensabile davanti a ogni momento di difficoltà nella vita adulta (e nel suo ingresso).

La scuola capace di fornire ai ragazzi dei veri riti di passaggio e che gli diano un segno di un cambiamento di status e responsabilità, li introduce all’esperienza del tempo, del cambiamento e della perdita, sostenendo la loro fatica a abbandonare l’onnipotenza psichica dell’infanzia.

Potremmo proseguire per altre dieci pagine, ma continueremmo a dire la stessa cosa: come possiamo pensare che l’educazione all’affettività possa servire a qualcosa se la scuola e la famiglia sono esse per prime gli agenti di una violenza simbolica che infantilizza i bambini, li rende passivi rispetto ai propri vissuti e non rispetta i loro confini psichici? Come può servire un’educazione all’affettività se le agenzie educative per prime non sono in grado di contenere la propria angoscia e diventano persecutorie? Come educare, trasmettendo contenuti, se le agenzie educative si assumono il compito di distruggere ogni contenitore sia dei contenuti che degli affetti?

Venendo invece all’’interpretazione corrente del femminicidio bisogna riconoscere che essa ha trovato nel patriarcato sia l’imputato ideale che il perfetto capro espiatorio. Ma siamo davvero sicuri che sia così? 

Come ebbe modo di osservare il sociologo M. Horkheimer, nei suoi Studi sull’autorità e la famiglia (M. Horkheimer, 1951), questo tipo di famiglia aveva come esito la generazione non di personalità sottomesse, passive con l’autorità e violente con gli altri, ma esattamente l’opposto. La famiglia patriarcale era la struttura che generava il soggetto autonomo critico in grado di opporsi alla violenza autoritaria familiare e sociale (come successe, a esempio, con i moti studenteschi degli anni Sessanta e Settanta). In secondo luogo, questo tipo di famiglia e cultura, che è in crisi manifesta da parecchi decenni, è stato soppiantato da un tipo ben differente di famiglia, che con il patriarcato nulla ha a che vedere e di cui stiamo in questi anni cominciando a apprezzare la potenza “educativa”. Coerentemente con queste osservazioni, se guardiamo ai dati del Rapporto sulla criminalità giovanile (fonte: Direzione Centrale della Polizia Criminale – Eurispes) scopriamo che la violenza di genere sta investendo in modo inquietante le nuove generazioni e di conseguenza le nuove famiglie, proprio le più lontane dal modello di un patriarcato in via di smantellamento. Quindi, se vogliamo comprendere qualcosa di questa violenza, dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche di queste famiglie e del loro clima affettivo.

A rischio di essere tranchant diciamo che questa famiglia ha meno a che fare con il patriarcato che con la cultura mafiosa. I bambini sono i comandanti e i despoti onnipotenti e, mafiosamente appunto, l’organizzazione lavora per proteggerne il potere e il capriccio. Nessun limite può essere somministrato, ogni frustrazione va evitata, il conflitto tra le generazioni viene aggirato attraverso una complicità di fatto tra i genitori e i figli, mascherata peraltro dall’ideologia dell’ascolto e del dialogo. Il che si traduce in un bambino assolutista e in una famiglia che gode di questo suo assolutismo senza freni. L’intero dispositivo familiare si mobilita per fornire al bambino qualcosa di simile a un allattamento continuo fuori tempo massimo, nel tentativo di tenerlo al riparo da ogni forma di limitazione, di fatica personale, d’esame di realtà e di frustrazione. I padri, lungi dall’essere i portatori di una autorità patriarcale, non solo finiscono con l’“allattare” a loro volta i pargoli, ma rischiano di entrare in competizione con loro per avere le attenzioni della madre, in posizione infantile.

L’esito è che non siamo di fronte al soggetto padrone che autoritariamente dispone del corpo della donna, come fosse un suo oggetto “sessuale” o una sua “proprietà” di fatto, e che anche giustamente è messo sotto accusa. Abbiamo piuttosto dei soggetti infantili, padri, adulti o adolescenti che siano, che non possono tollerare l’angoscia che la mamma (e i suoi sostituti), smetta di offrirgli il seno. E come bambini, o meglio, come infans, infanti di due anni, si scagliano contro di lei, per distruggerla in preda all’odio totale e senza controllo del bambino che urla alla mamma “ti butto nella pentolaccia”.

In questa situazione, ciò che viene a mancare, a un primo livello, è quanto in psicoanalisi chiamiamo funzione paterna (e che per essere chiari, essendo una funzione, è indipendente sia dal genere sessuale che dalla identità di genere dei genitori, o dal loro essere una coppia o single, mentre può benissimo essere assente nelle famiglie tradizionali) e che dovrebbe intervenire proprio a limitare l’onnipotenza infantile, separare il bambino dal seno e introdurre il soggetto alla frustrazione e al suo contenimento. In una parola, quello che manca è la Legge. In sua assenza l’odio per il seno (la donna) che si sottrae alla protervia avida e controllante dell’infante non può che esplodere, e purtroppo lo farà con tutto il potere e la forza di un corpo adulto, contro ogni femmina il destino gli farà incontrare.

Ma c’è un secondo livello della questione ed è forse ancora più interessante. Davanti alla ritirata delle funzioni paterne, davanti a una paternità che sempre più si maternalizza, bisogna completare il ragionamento e osservare che ciò che abbiamo davanti è l’esplosione di un materno senza limiti, senza controllo e senza freni. Troppo facile fare del “maschile” un capro espiatorio, e dimenticarsi di ciò che questa ritirata delle funzioni paterne lascia invece emergere. Ossia la maternalizzazione dell’intero dispositivo familiare, nel senso dell’allattamento infinito e senza freni di cui abbiamo parlato, e che lascia ai bambini e agli uomini che diverranno non solo la mera alternativa tra l’essere onnipotenti (“sei mia, ti distruggo”) e l’impotenza (“senza di te muoio”), ma anche l’ingiunzione alla distruzione come sola chance di individuazione soggettiva. Dietro al femminicidio, in altri termini, c’è sempre un matricidio, sovente scambiato per la sola strategia di sopravvivenza e di individuazione possibile. 

Se un tempo potevamo parlare di parricidio simbolico come quell’atto di sovversione nei confronti della legge paterna percepita come autoritaria e repressiva (“adesso che sono piccolo mi devo adeguare, domani quando sarò grande non dipenderò da te, ti criticherò”) e di soggettivazione del proprio ingresso nel mondo adulto (“adesso valgono le mie regole, non le tue”), ora dobbiamo parlare di un matricidio reale come paradossale atto di sopravvivenza psichica autodistruttivo, con il quale l’infans, divenuto adulto, in preda al terrore e all’orror vacui, uccide, nella donna che ha dinanzi, il fantasma della madre che gli sottrae il seno.


Margarita Sikorskaia

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