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Alpe Colle, 23 luglio 1944

13 agosto 2023

Premessa

Se incontrando una lapide o un cippo che, fra i tanti che testimoniano, fra l’Ossola e il basso Novarese, il sangue versato – seminato secondo la forte immagine di Nino Chiovini – per liberarci dal nazi-fascismo e vogliamo documentarci e raccogliere le informazioni principali su quei caduti e quegli aventi, esiste uno strumento fondamentale: la monumentale opera di Enrico Massara[1]. Eppure se siamo stati all’Alpe Colle e, colpiti dall’imponente cippo che sembra fare da spartiacque fra la strada che sale da Trarego, quella che porta al Vadàa, quella che sale allo Spalavera e quella che scende a Pian Cavallo e di lì a Verbania e cerchiamo su quella ‘Antologia’ notizie sui nomi incisi sulla lapide e su quanto lì avvenne in quel 23 luglio, non vi troviamo nemmeno un cenno.

È pertanto quell’episodio da considerarsi del tutto minore? Certamente no, anche perché “come hanno dimostrato storici superlativi del nostro tempo, anche da uno sputo di terra si può narrare una storia che parla al mondo[2]. Anche in quello che avvenne a Colle in quella domenica di luglio del ’44 possiamo ritrovare senso, valori e insegnamenti su quella che è stata la resistenza nonché sugli orrori che quella guerra ha potato sulle nostre terre come in Europa e nel mondo.

Quello che segue è tentativo di riscostruire e contestualizzare quella vicenda sulla base degli appunti che avevo raccolto nel 2014 quando mi chiesero, per il 70mo anniversario, di commemorarla. Le fonti, disperse e frammentate, con qualche aggiornamento, sono indicate alla fine; oltre a queste avevo inoltre raccolto oralmente ulteriori informazioni, in particolare sulla posa del monumento.

La Cesare Battisti dopo il rastrellamento di giugno

Alla fine del rastrellamento di giugno che aveva investito tutta l’area tra Verbano, Cannobina, Vigezzo e Ossola, sotto la guida di Arca la Brigata Cesare Battisti ricompone le proprie fila. Innanzitutto si fa il conto dei caduti, oltre trenta; i superstiti si sono salvati soprattutto perché, conoscendo la zona, sono riusciti a scendere verso le aree abitate dove, in molti casi con l’aiuto della popolazione, hanno potuto nascondersi.

Il rufugio del Vadàa distrutto.Al centro Mario Manzoni Marmelada

Presto ripresi i collegamenti con il CLN di Verbania e nel milanese, occorre radunare i superstiti. Il precedente comando presso il rifugio CAI del Pian Vadàa è stato completamente distrutto dai tedeschi, vi rimane solo un cumulo di macerie. Inoltre Arca si rende conto che occorre spostarsi più a ridosso dei centri abitati verso Verbania.

La località prescelta è La Rocca, sopra Scareno. Rapidamente, grazie al passaparola e al contributo di alcune staffette, vi confluiscono i partigiani della formazione a cui si aggiungono ulteriori componenti, sia nuove reclute sia partigiani precedentemente in altre formazioni. In particolare un gruppo della Giovine Italia, guidato da Nino Chiovini, che non aveva condiviso la confluenza con la neonata Valgrande Martire di Mario Muneghina, e un gruppo di otto ucraini e  russi sfuggiti dai campi di prigionia tedeschi in Francia che, dopo un lungo percorso di attraversamento della Svizzera, arrivano a Manegra dove, contattati da Arca, accettano di confluire nella sua formazione.

Del clima di quei giorni d’inizio luglio alla Rocca ci dà un bello spaccato Chiovini nel suo Diario:

“Siamo a la Rocca. È un’alpe sotto la strada del Vadàa, a dieci minuti da Scareno. A La Rocca ritroviamo altri vecchi compagni della “Battisti”: Mosca, Italo, Nando, Peo. Non tutti, perché parecchi “sono andati a riposo”.

Sono già accertati 19 caduti, ma la “Battisti” contava 90 uomini all’inizio del rastrellamento, e solo una quarantina sono i superstiti. Delle reclute, solo pochissime sono rientrate.

Stringiamo amicizia con nuovi compagni, i più interessanti.

“Ghiffa”, il cuoco, è un ex alpino, commilitone di Bagat e sa cucinare a meraviglia.

Il “Maresciallo”, è un carabiniere siciliano, catturato dal “Valdossola” a Mergozzo e venuto a finire da noi, causa il rastrellamento. È brutto come un fascista, burocratico ed intransigente quanto un funzionario dei ministeri. Qui ha le mansioni di magazziniere e pretende il buono di prelevamento firmato da Mosca, anche per un fiammifero. Con noi, però è diverso: potremmo prelevare anche lui senza buono. È pauroso e noi abbiamo scoperto il suo debole: gli abbiamo promesso una pistola. Ecco perché non ci servono i “buoni”.

“Dieci” è l’unico che abbia ottenuto un beneficio dal rastrellamento. È un ex milite di 34 anni, alto e grosso, con una nera barba retorica e una cicatrice verticale su di una guancia: ha disertato in aprile, portandosi con sé parecchie armi. A Traffiume, in Cannobina, ha puntato il moschetto contro un milite, intimandogli la resa: il milite, armato di mitra, era a 100 metri. Ora “Dieci” ha un mitra, rastrellato in rastrellamento.

Gigi è un milanese, ufficiale dei carristi. Trapela allegria da tutti i pori: come Mosca. Provoca, incessantemente, discussioni politiche tra comunisti e anticomunisti; poi, interviene burlescamente, trasformando la discussione in comici duelli umoristici tra lui e i partigiani posati e seri. Gigi mi ha pregato di condurlo con noi alla prossima azione. […]

Bagat è di umor nero. La Rocca non gli piace, perché dice che gli unici luoghi per sdraiarsi senza il timore di rotolare in valle, sono i sentieri, e anche quelli sono scarsi. Le conseguenze del suo cattivo umore le subiscono i “conigli” e Tucci. Già, Bagat e Tucci non vanno d’accordo. Bagat sta diventando permaloso, e Tucci noioso.

***

L’inizio del Diario Partigiano di Nino Chiovini su “Monte Marona”

Nella vita civile può essere quasi impossibile il caso che parecchi individui appartenenti a disparate categorie sociali, dotate di disparata educazione, riescano a comprendersi a tal punto da costituire un gruppo di persone affiatate. E anche se esistesse affiatamento, non giungerebbe mai a sfiorare l’amicizia.

A La Rocca, abitazione di gente per la quale il proprio mondo è soltanto se stessa con le proprie armi, le munizioni, i paesi d’attorno, la voglia di mangiare e di dormire, questo avviene. Non avviene soltanto a La Rocca: in parecchi altri luoghi come La Rocca avviene. Ma La Rocca è il caso più esteso e meno verosimile per chi non appartiene al mondo nostro.

Tra i gruppetti che fanno parte della gente che abita provvisoriamente a La Rocca, ho scovato quello di Jimmy. È sudafricano e l’italiano lo parla come lo parleranno i russi tra un mese. È studente in medicina e non ha mai gridato viva l’Unione del Sud Africa. È un uomo pacifico e anche egoista talvolta: forse perché è così pacifico. Della guerra se ne frega più che odiarla. Se ne frega a tal punto da fare le azioni per puro senso sportivo e questo non credo che sia una contraddizione.

Anche “Dottore” è studente in medicina, ma non è sudafricano e il suo senso sportivo non è molto sviluppato. Ha voglia di laurearsi e i fascisti son quelli che glielo impediscono. Perché è a La Rocca glielo impediscono. Anche a Peo che studia lettere e odia ogni violenza, lo impediscono. Anche a Ezio e Felice che però sono “matricole” e ancora sono ragazzi con la mentalità delle “matricole”.

Anche Oddo e Paolo che sono due impiegati, han dovuto piantare il lavoro. Naturalmente anche loro, come Ezio e Felice, ce l’hanno coi fascisti perché sono i fascisti che li han fatti andare in montagna. Un giorno, forse a guerra finita, penseranno che i fascisti eran quelli che volevano la guerra e allora odieranno la guerra come la odia Peo adesso.

Ci sono anche Renzo e Achille: né studenti, né operai, né impiegati sono. Il loro mondo, prima, non era nemmeno sfiorato dai loro amici di adesso. Il ladro, han dichiarato che facevano prima di venire in montagna. Molti possono dire che la dichiarazione è cinica. Io penso che sia stata sincera prima di essere cinica.

Questi due non sono venuti in montagna per fede o per necessità politica. Chissà perché. Può anche non interessarmi. So che ci sono e sparano e sono onesti. Non so fino a quando saranno onesti, ma Arca dice che Renzo sarà onesto per sempre. E questo fa bene perché son queste cose che fan credere nel mondo degli uomini.

Son tutti questi uomini e ragazzi, studenti, ladri, lavoratori italiani e no, che vivono insieme: parlano, dormono, sparano e si radono la barba insieme.”[3]

Immagini a cui possiamo aggiungere il ricordo di Marmelada:

Alla Rocca la famiglia aumenta rapidamente. Dal piano con­tinuano ad arrivare nuovi volontari: il caro e simpatico te­nente Gigi; il Maresciallo, così chiamato per il suo cipiglio siciliano (sembra un pesce fuor d’acqua); l’Aluf, studente in medicina, che quando arriva sottolinea d’aver frequen­tato il corso allievi ufficiali e perciò viene preso di mira dagli sfottò di tutta la formazione; il Chimico, studente in chimi­ca e di nobile discendenza; il Leo, cugino del Chimico e te­nente degli alpini che vuol fare il partigiano semplice; il Dieci, burbero alpino e spirito indomito; e altri.

Dalla Svizzera arrivano due militanti comunisti, Settimo e Galli, molto seri e preparati, che si inseriscono rapidamen­te nello spirito della “Battisti” pur essendo molto più an­ziani di noi. Svolgono la loro opera di attivisti di partito con molta discrezione e guadagnano rapidamente la fiducia di tutti, pur non sfuggendo alla regola delle sfottiture della terza squadra. Poi arrivano otto russi – usciti dalla Svizzera si erano accampati a Manegra – che accettano l’invito di Arca di aggregarsi alla nostra formazione; la sera eseguono dei cori che fanno venire la pelle d’oca.[4]

Armando Calzavara “Arca”

La Rocca è principalmente un luogo di raduno, inoltre il piccolo alpeggio rapidamente non è più in grado ad ospitare il numero crescente di partigiani che vi sono confluiti. Arca inizia a predisporre la dislocazione delle diverse squadre nel territorio. Manda Marmelada al comando di una squadra di “otto ragazzi” a ricostituire il distaccamento dell’Alpe Piaggia; fra questi vi è il russo Victor. Il sudafricano Leon Kantey “Gimmy”[5] viene inviato, sempre al comando di una squadra di otto partigiani, per posizionarsi all’Alpe Biogna.

Saranno queste due squadre a trovarsi all’Alpe Colle il 23 luglio. Non saranno invece presenti i due comandanti, Marmelada e Gimmy in quanto quel giorno erano entrambi febbricitanti alla Rocca, “ricoverati in un baitino che funge da infermeria”. L’assenza dei due capisquadra può probabilmente spiegare la scarsa capacità di reazione all’attacco tedesco come la difficoltà a ricostruire con esattezza quanto avvenuto.

Il trasferimento verso Piancavallo

Marmelada e Gimmy, come abbiamo visto, sono alla Rocca. Manzoni aveva partecipato la notte del 18 alla importante operazione di prelevamento di viveri alla Nestlé di Intra[6] e dovendo calzare scarpe non sue si era procurato una vescica che aveva fatto infezione e si ritrova così in infermeria con Gimmy anche lui febbricitante “con un 39°”.

“Il 22 luglio verso sera Arca viene nel baitino e dice a me e a Leone di mandare una staffetta ad avvertire la nostra squa­dra che l’indomani, 23 luglio, devono trasferirsi con armi e bagagli. Devono trovarsi alle 10 di mattina a Colle dove una staffetta li raggiungerà per guidarli alla nuova destina­zione”.[7]

La destinazione, l’Albergo di Pian Cavallo, per ovvi motivi di sicurezza non viene divulgato e sarà la staffetta ad accompagnarli.

La squadra di Piaggia, pertanto, la mattina presto del 23 luglio si avvia per raggiungere l’Alpe Biogna e ricongiungersi con l’altra squadra per poi dirigersi insieme a Colle. Il percorso, “con armi e bagagli” si rivela abbastanza impegnativo per cui si richiede l’aiuto ad un alpigiano per il prosieguo del trasferimento. Questo il motivo per cui al gruppo di partigiani si aggiunge, da Biogna a Colle, un ragazzino di tredici anni.

“Marino Ferrari faceva parte di una famiglia numerosa residente a Crealla; per contribuire all’economia famigliare il ragazzetto venne affidato come garzo­ne all’allevatore Luigi Martinelli di Cambiasca, che “caricava” l’alpe Biogna; avvenne anche in tempo di guerra, e così pure durante l’estate del 1944. Il 23 luglio transitava presso l’alpe Biogna una piccola formazione di partigiani, i quali chiesero aiuto all’alpigiano per trasportare fino all’alpe Colle zaini, co­perte, padelle, viveri, armi e munizioni. Il Martinelli acconsentiva di buon cuore, conoscendo alcuni del gruppo, e metteva a disposizione l’asino col basto, a condizione che lo conducesse il suo garzone, il Marino; ma si cautelava che sempre il Marino lo avrebbe riportato indietro a Biogna una volta finita l’in­combenza.”[8]

Quanti sono, a questo punto i partigiani che si dirigono a Colle? Non più di sedici data la composizione delle due squadre; probabilmente un po’ meno in quanto alcuni potrebbero essere, come Marmelada e Gimmyi alla Rocca e magari qualche elemento della seconda squadra esser rimasto a Biogna come sembra intuirsi dalla narrazione di Manzoni per il periodo successivo.

Cosa accadde quel giorno a Colle

La documentazione relativa o è molto essenziale o, in alcuni casi, i testi presentano alcune contraddizioni. Provo a sintetizzare quanto è plausibilmente avvenuto.

Le due squadre riunite e l’asino carico condotto dal giovane Marino partono dall’Alpe Biogna e, passando per Pian d’Arla[9], arrivano all’Alpe Colle, forse in anticipo; comunque la staffetta che avrebbe dovuto guidarli a Pian Cavallo non c’è. Fa caldo e, depositati armi e bagagli individuali, si riposano ai bordi della strada disperdendosi alla ricerca del fresco. Non vengono appostate sentinelle non intuendo il pericolo. Solo il russo Victor si pone in posizione più elevata, sulla mulattiera che porta alla cima dello Spalavera.

La strada sterrata che sale da Trarego passando da Piazza, dopo l’ultima curva è in leggera discesa. Tre camionette tedesche[10] in ricognizione, che procedono a motore spento nell’ultimo tratto, sbucano sul piazzale dove confluiscono le strade per Pian Cavallo e il Vadàa e immediatamente aprono il fuoco. Il gruppo dei partigiani non è in grado di rispondere e cadono i due giovani, entrambi ventenni, Luigi Trelanzi “Lanzi” e Aleandro Rigamonti. Il giovane Marino Ferrari, gravemente ferito, verrà lasciato morire dissanguato mentre il partigiano Bruno Pezzi “Strozza”, ferito ad un polmone, riuscirà a nascondersi più a valle. Anche il partigiano Giovanni Borella “Bobi/Robi”, ferito ad un braccio, riesce a buttarsi a valle e nascondersi per poi raggiungere Scareno. Questa la sua breve testimonianza raccolta da Mario Manzoni.

“Robi era con la squadra di Biogna ed è stato ferito a Colle. Ecco il suo racconto: dopo essersi uniti alla mia squadra, proveniente da Piaggia, hanno proseguito per Colle seguen­do la strada Cadorna. Con loro c’era anche un ragazzino di dodici anni circa, che con la famiglia di Falmenta era al­l’alpeggio per la stagione estiva come usano fare tutti gli anni, e si è prestato a trasportare col suo mulo le nostre mas­serizie. Arrivati a Colle, e non trovando la staffetta, hanno posato sul bordo della strada armi e bagagli e, in ordine sparso, stavano guardando le baite bruciate dai tedeschi al termine del rastrellamento, quando dalla curva della strada che sale da Trarego sono sbucate improvvisamente le ca­mionette dei tedeschi che, con fuoco a ventaglio, li hanno colti di sorpresa così come erano. Nel fuggi fuggi Robi è stato colpito al braccio mentre si gettava a capofitto nella valletta sottostante, e ha visto cadere fulminato Lanzi della mia squadra. Poi ha raggiunto Scareno.”[11]

Nel frattempo il russo Selepukin, vista la drammatica situazione, si defila e sale per poco più di un chilometro lungo la mulattiera dello Spalavera e, poco prima del primo tornante si nasconde in una posizione sopraelevata da dove può controllare l’eventuale arrivo di militari tedeschi[12]. In effetti una squadra tedesca, o perché Victor era stato visto allontanarsi o per la scelta di perlustrare il territorio, si avvicina alla sua posizione e viene ingaggiato un combattimento di una certa durata in cui il soldato russo si difende sino all’esaurimento delle munizioni. Gravemente ferito viene lasciato agonizzante sul posto; al suo fianco sette caricatori vuoti.

A Colle i tedeschi, dopo aver catturato alcuni dei partigiani[13] sopravvissuti, bruciano armi e bagagli delle due squadre della Battisti lasciando sul posto le salme dei due caduti e il giovane alpigiano ferito, proseguendo, tutti o una parte, nella loro ricognizione verso il Vadàa.

Mario Manzoni si interroga sul perché “i tedeschi si siano trovati a Colle proprio in quell’ora. Fatali­tà o segnalazione di una spia?”. Personalmente propendo per la fatalità: se i tedeschi avessero saputo dell’appuntamento a Colle vi si sarebbero appostati in anticipo e per il gruppo dei partigiani la sorte sarebbe stata ancor più grave.

Il combattimento successivo a Pian d’Arla[14]

Lo scontro a fuoco tra Selepukin e i tedeschi, in località più occidentale rispetto Colle e, in linea d’aria più vicina a Scareno, viene sentito da “Palin”[15], l’oste del paese che da tempo collabora con la resistenza.

” … alle 10 e mezzo, il Palin piomba alla Rocca come un fulmine avvertendo che a Colle stanno sparando. Scatta l’allarme, e mentre ognuno si organizza, Arca invia Peo con una squadra verso la strada Cadorna per vedere di preciso cosa succede.”[16]

Di quanto avvenuto successivamente nel volume a più mani “La scelta. 1943-1945”, in un capitolo[17], Felice Sciomachen e Pompeo Mancarella “Peo” ci hanno lasciato un racconto dettagliato. Vi è solo un aspetto controverso: mentre Manzoni afferma che Arca, paventando un attacco dall’alto, ha mandato “una squadra” a controllare e il Diario storico parla di “una squadra comandata da Peo”, in questo testo appare chiaro come solo loro due siano saliti in ricognizione partecipando poi al breve combattimento.

Peo e Felice a Pian d’Arla. Anni ’90

“Siccome Peo e Felice si trovavano già pron­ti, vestiti ed armati, l’incarico fu affidato a loro con l’ordine di in­tercettare e ritardare l’avanzata degli attaccanti. I due si avviarono pertanto lungo il sentiero che raggiungeva in alto la strada “Cadorna” e arrivarono in località Pian d’Arla do­ve la strada si inarca in un’ampia curva.

Dopo un po’ udirono il rumore dell’autoblindo che saliva len­tamente e insieme decisero di attraversare la strada e di salire un po’ lungo il pendio sovrastante per essere in posizione più favore­vole. Si decise anche di tenersi a opportuna distanza l’uno dall’al­tro per non essere eventualmente falciati da una stessa raffica.[18]

Mentre appostati aspettano l’arrivo del mezzo tedesco si accorgono che sopra di loro ad una ventina di metri vi è un gruppo di tedeschi[19] che dopo un attimo aprono il fuoco. Felice, dopo aver sparato “senza nemmeno prendere la mira” si butta a valle nei cespugli al di là della strada. Una bomba gli scoppia vicino e, dopo esser scivolato “sotto un cespuglio”, perde i sensi. Nel frattempo anche Peo si lancia al di là della strada e viene ferito, pensa, di striscio al collo. Risponde al fuoco più volte scendendo a zig zag riuscendo così a portarsi fuori tiro. Si accorge si perdere molto sangue e, scendendo verso la Rocca viene soccorso dai compagni. La ferita non era solo superficiale ma una pallottola aveva attraversato la schiena “senza ledere nulla di importante” ed era uscita dal lato opposto forando il lobo dell’orecchio.
Quando la compagnia tedesca si è ritirata scendendo verso Intra, dalla Rocca salgono i partigiani della Battisti per verificare sul luogo quanto era accaduto a Colle, recuperare le salme dei caduti ed eventualmente qualche ferito riuscito a nascondersi.
Peo e gli altri compagni pensavano ormai che Felice fosse caduto. Solo verso il tramonto Felice riprende i sensi e gli occorre un po’ di tempo per capire dove si trovasse e cosa gli fosse accaduto.

Era quasi buio quando Felice raggiunse i suoi compagni. In­contrò prima Ezio[20] che a gran voce gridò agli altri: è vivo! E a quel punto Felice non ebbe più dubbi e chiese ed ottenne rassicuranti notizie anche del Peo.[21]

I caduti

Marino Ferrari

Il giovane garzone di Crealla, pur non essendo un partigiano, è annoverato fra i caduti della Cesare Battisti e una sua sintetica scheda è riportata sia nel data base del Centro di Documentazione della Casa della resistenza che nell’elenco dei partigiani novaresi dell’istituto della resistenza di Novara dalle quali si desume solo l’anno di nascita (1931) e il nome del padre: Salvatore. Sul trasferimento della salma e sulla sua memoria riporto le parole di Roberto Caretti.[22]

Nella ecatombe dell’alpe Colle, le testimonianze oculari ricordano come il corpo di Marino fosse stato quasi tagliato in due dalla raffica di proiettili; ciononostante i lamenti dello sfortunato ragazzo, coinvolto suo malgrado nello scontro, continuano sino a spegnersi in una lunga e terribile agonia; la salma del ragazzo è poi recuperata e trasportata in gerlo, a turno, da alcune donne di Crealla lungo una via dolorosa costituita dal sentiero che congiunge Colle, Pian Puz, Ludrogno, Cadaglia, Luera a Crealla (un percorso lungo e faticoso, tant’è che le donne arrivano in paese appena in tempo prima che scatti il coprifuoco). Al paese di Crealla si celebrano infine le esequie del povero giovane. L’alpigiano Martinelli, riconoscendo la propria involontaria responsabilità per la morte prematura del Ferrari, che aveva preso a servizio e aveva esposto ai rischi mandandolo insieme ai partigiani, ne risarciva convenientemente la fa­miglia; a distanza di anni, gli Alpini di Crealla e l’Associazione Rinascita, con gran seguito della popolazione di Crealla, in un gesto di grande umanità hanno eretto un cippo recante una epigrafe e la fotografia di Marino Ferrari che viene così equiparato, nonostante la sua giovane età, a tutti i caduti della guerra di terra, d’aria e di mare.


Luigi Trelanzi “Lanzi”

Giovane recluta di vent’anni, nato a Carpiano di Ghiffa il 19 marzo 1924.

Si era unito alla Cesare Battisti dopo il rastrellamento di giugno, diciotto giorni prima della sua morte a Colle.

Faceva parte della squadra proveniente da Piaggia.

Riposa nel cimitero di San Maurizio di Ghiffa a fianco di Victor Selepukin e di alcuni dei caduti dell’eccidio di Trarego.


Aleandro Rigamonti “Domo”

Il ventenne Aleandro[23] era nato il 15 ottobre del 1923 a Eupilio, nel Comasco, ed era residente con la famiglia del padre Egidio a Como.

Si era inserito nella Brigata Cesare Battisti già dal marzo del ’44 e sarà pertanto riconosciuto come partigiano combattente con la anzianità di 4 mesi e 8 giorni. La salma sarà prelevata dalla famiglia e inumata nel cimitero di Como.

Nel Comune di nascita, ad Eupilio in frazione Cornemo, in suo ricordo è stata intitolata una Piazza quale “Eroe della Libertà”.


Victor Selepukin

Trentaduenne soldato Russo – probabilmente Ucraino – di origine contadina. Dell’arrivo alla Rocca di Victor e degli altri sette russi provenienti d’oltre confine, ci racconta Nino Chiovini nel suo diario partigiano:

“Dalla Svizzera sono giunti otto prigionieri russi. Non sanno dieci parole di italiano: con loro siamo costretti a parlare in tedesco. Sono quasi tutti ucraini e russi bianchi [bielorussi]: catturati sul fronte orientale, furono condotti a lavorare nelle miniere di salgemma, in Francia; riuscirono ad evadere, e attraverso il Reno ripararono in Isvizzera. Uno di loro è già stato ferito durante uno scontro a Intra.”[24]

La sua salma è stata traslata, come quella di Trelanzi, al cimitero di San Maurizio di Ghiffa.

Sul luogo dove è stato rinvenuto il suo corpo dissanguato è stata eretta una croce con il suo nome e la data di morte con a fianco un segnale per poterla scorgere dalla sottostante mulattiera; in realtà ogni anno lo sviluppo della vegetazione, e delle felci in particolare, non ne rende agevole il ritrovamento. Si è pertanto progettata la posa di un pannello sulla strada sottostante in ricordo del suo sacrificio.


Cimitero di San Maurizio di Ghiffa. Caduti della Resistenza di Trarego e Colle.

I feriti

Bruno Pezzi “Strozza”

Nato a Calvisano, nel basso Bresciano, il 15 dicembre 1923, ventenne, si era unito alla Cesare Battisti. Riconosciuto partigiano combattente per 9 mesi e 25 giorni. Ferito ad un polmone, i compagni dopo averlo ritrovato, si rendono conto delle gravi condizioni e lo ricoverano in una baita dell’Alpe Scarnasca, appena sotto alla strada Cadorna. Del suo ritrovamento e di come e da chi è stato curato ci i racconta Mario Manzoni.

“In una valletta ben protetta hanno scoperto Strozza gra­vemente ferito al torace, con perforazione del polmone: per lui entrerà in azione l’organizzazione clandestina di In­tra di cui fa parte la contessa Bonacossa, che risiede nella sua villa San Remigio tra Intra e Pallanza. La contessa si è fatta amica di un ufficiale medico tedesco, che dirige l’ospe­dale dalla TODT di Pallanza, e il giorno successivo salirà a Colle col dottore, in autolettiga, per curare il ferito. L’uffi­ciale medico salverà Strozza e lascerà medicinali utili anche per le cure successive. Poi Strozza verrà trasportato in luo­go sicuro.”[25]

Giovanni Borella “Bobi”

Nato a Cambiasca il 23 dicembre 1924, e pertanto diciannovenne al momento dei fatti di Colle, si era unito alla Cesare Battisti dal precedente mese di aprile. Sarà riconosciuto partigiano combattente con 12 mesi e 9 giorni[26]. Sul suo ferimento e sulla sua testimonianza sui fatti di Colle ne abbiamo già parlato sopra. Da notare che anche Borella è stato visitato e curato, in questo caso a Scareno, dal medico tedesco della TODT.

Pompeo Mancarella “Peo”

Nato a Busto Arsizio il 24 giugno 1924, sarà riconosciuto quale partigiano combattente per 12 mesi e 22 giorni col grado di Comandante di Plotone. Rievocando la sua “scelta”[27] ci narra come, militare a Cerveteri in “difesa degli aeroporti dell’Urbe”, l’8 settembre si unisce ad un gruppo di altri quattro commilitoni per risalire “un po’ a piedi e un po’ prendendo a caso treni diretti verso Nord” e raggiunge Busto Arsizio. Con l’emanazione dei bandi di arruolamento dell’RSI prima si nasconde in una cameretta del campanile del suo paese, per poi raggiungere la Cesare Battisti sopra Intragna. Cattolico praticante, quella domenica del 23 luglio si era alzato prima degli altri per recarsi a messa a Scareno: questo il motivo per cui, essendo pronto, vestito ed armato, viene mandato in ricognizione con Felice, verso la strada Cadorna.

Felice Sciomachen

Nato a Milano il 6 giugno 1925. Il padre Enrico “era un ufficiale del Regio Esercito, prigioniero di guerra degli alleati” in Africa Orientale dal maggio 1941 ed inoltre, presso un parente, Generale dei carabinieri in pensione, a Pallanza aveva conosciuto e stimato il maresciallo Rodolfo Graziani. Con questo background familiare per lui non fu facile scegliere[28] tra RSI, renitenza e resistenza. Convintosi che la fedeltà alla monarchia dovesse comunque prevalere, raggiunse dapprima un cugino che nel Parmense stava organizzando la resistenza. Quando le Brigate Nere, in seguito ad una delazione, arrestarono il cugino, tornò a Milano collaborando con il nascente CLN nell’inviare ed accompagnare verso il Verbano e la Svizzera ebrei, ricercati politici e militari alleati ex prigionieri. Al termine di una di queste operazioni decise di fermarsi al Pian Vadàa con la Cesare Battisti.

Arialdo Catenazzi, memoria storica della Cesare Battisti. Colle 2012

Le croci e il cippo

Anche l’attuale monumento ha una sua storia da cui si può trarre qualche insegnamento. Episodio minore, come ricordavamo all’inizio, rispetto ai più tragici eventi ed eccidi che hanno colpito la zona del Verbano e dell’Ossola, i caduti di Colle vennero ricordati per iniziativa dell’ANPI nel luglio del 1955 con la collocazione di quattro croci con i relativi nomi. Nel 1977 viene elaborato un ambizioso progetto che prevedeva una fontana e un monumento rievocativo.

Il 1° di agosto del 1983, con una azione di evidente matrice fascista, le quattro croci vengono divelte da ignoti. Il progetto della fontana richiedeva tempi lunghi e allora si scelse, dopo un breve periodo di ripristino delle croci, la collocazione nel 1987 l’attuale massiccio cippo. Che porta in sé un duplice messaggio: ai nemici della resistenza “non sarete più in grado di rimuovere la memoria dei nostri caduti” e a tutti noi “così dev’essere la nostra memoria: solida e duratura”.

Colle: Commemorazione del 2012

La strada del Vadàa

In data 23 luglio del ’44 Nino Chiovini annota sul suo diario

“Wladimir si è rattristato: è morto Victor il contadino russo, dopo aver sparato tutti i colpi che aveva. Sulla strada del Vadàa è avvenuto questo: questa strada comincia a perder sangue sul serio.”[29]

Nel dicembre successivo realizza questa canzone, dedicandola ad Arca “sperando di raggiungere lo scopo che mi sono prefissato scrivendola”[30]. Pur non citando esplicitamente l’evento di Colle, il riferimento alla recluta (“coniglio”) caduto sul ciglio della Strada del Vadàa richiama evidentemente il giovane “Lanzi”, recluta da solo diciotto giorni.


LA STRADA DEL VADAÀ

Se da Intra senti il cannone

c’è qualcosa di tremendo

i partigiani stan morendo

sulla strada del Vadaà.

Quando siamo in rastrellamento

quello è un cammino traditore

perché li muore il più bel fiore

della nostra gioventù.

Se domandi a un ferito

dove ha preso quella rogna

ti risponde: – A Colle Biogna

sulla strada del Vadaà –

Ieri han fatto una puntata

all’appello c’è un “coniglio”

che non risponde; l’è sul ciglio

della strada del Vadaà.

Comandante Barbadirame

facci questo per piacere:

– Non devi farci più vedere

questa strada del Vadaà.

La Battisti vuol cambiare

perché stufa di quei posti

vuol fuggire a tutti i costi

dalla strada del Vadaà.

La Battisti vuol cambiare

e manda a dire al Comandante

questa strada è senza piante

e ci batte troppo sol.

Il Comandante manda a dire

che se vogliam cambiare

c’è sì un posto per cambiare

e l’è al piano che si andrà.

Da posto 24, Dic 1944

Partigiano Peppo (Pl. Espl)


Colle: Commemorazione del 2014.

Noterelle a margine

La resistenza ha sempre avuto un respiro internazionale; non solo perché fu combattuta in più paesi all’interno di un conflitto mondiale contro il nazifascismo, ma anche e soprattutto perché come numerosi italiani si sono uniti alla resistenza all’estero, così molti militari provenienti da ogni parte del mondo furono parte attiva della resistenza italiana. Anche nella nostra breve rievocazione di questo “episodio minore” della resistenza abbiamo incontrato partigiani russi (che probabilmente erano ucraini e bielorussi) e un sudafricano e possiamo anche ricordare come nella Cesare Battisti si erano arruolati da poco persino due tedeschi, di origine austriaca, che avevano disertato[31].

Russi o sovietici? Ai tempi non si faceva differenza, oggi è bene distinguere la cittadinanza di quella che era l’Unione Sovietica dalle nazionalità che la componevano e che in parte, dopo l’89, si sono ricostituite in Stati.

Tedeschi o nazisti? Erminio Ferrari, in Valgranda Revisited[32] riporta la polemica, che condivide, di Peppino Cavigioli sull’uso dell’appellativo “tedeschi” nei pannelli del Parco Nazionale della Valgrande a ricordo degli eventi del rastrellamento del ’44, invece del più corretto “nazisti”. Nel ricordare l’eccidio di Colle ho preferito utilizzare “tedeschi” non solo perché i militari che irrompono all’Alpe Colle non è detto che fossero nazisti; di certo non era un reparto delle SS, che in quel luglio ’44 non erano presenti in zona. Forse erano quelli di stanza a Cannobio. Peraltro le truppe che effettuarono e guidarono il rastrellamento della Valgrande, le SS Polizei, non erano propriamente SS ma reparti di polizia tedesca militarizzata[33]. Truppe “tedesche” a Colle, così denominate anche dai testimoni di allora perché è l’esercito della Germania che occupava all’epoca il nostro territorio e molta parte del resto d’Italia e vi è pertanto una responsabilità storica dello Stato tedesco su quanto avvenne. Aggiunge Ferrari:

“… consideriamo anche il processo storico che ne è seguito: l’esame che i tedeschi hanno fatto del proprio passato e quello a cui si sono sottratti gli italiani, che i fascisti li hanno poi riportati al governo.”[34]

Dire pertanto “tedeschi” riferito ai reparti operanti allora non significa generalizzare; d’altronde nel nostro breve racconto abbiamo anche incontrato un medico tedesco della TODT, di cui purtroppo non conosciamo il nome, che con grave rischio per la propria incolumità , ha collaborato con la resistenza curando partigiani feriti.

A riprova che la realtà è sempre più complessa e variegata di quanto le nostre categorie storiche riescano a rappresentare. In un periodo in cui sembra che tutto debba esser nettamente contrapposto, bianco o nero, amico o nemico ecc. anche questo è un piccolo insegnamento che i nomi incisi sul cippo di Colle e la loro piccola storia ci trasmettono.

Colle: Commemorazione 2023

Fonti e citazioni

Biancardi Giovanni (a cura), 1a Divisione Ossola «Mario Flaim». Diario storico, Verbania 1995, p. 102 e passim.

Caretti Roberto, Nella sua fresca giovinezza. Alpe Colle, 23 luglio 1944, in “Vallintrasche 2012”, pp. 139-142.

Chiovini Nino, I giorni della semina, Tararà, Verbania 2005, pp. 115-116 e passim.

Chiovini Nino, Val Grande partigiana e dintorni. 4 storie di protagonisti, Comitato Resistenza – Comune di Verbania, 2002.

Chiovini Nino, Fuori legge??? Dal diario partigiano alla ricerca storica, Tararà, Verbania 2012, passim.

Chiovini Nino, Piccola storia della banda di Pian Cavallone, Tararà, Verbania 2014, p. 107.

Ferrari Erminio, Valzer per un amico. Racconti, Tararà, Verbania 2020.

Manzoni Mario, Partigiani nel Verbano, Comitato Unitario per la Resistenza nel Verbano, Verbania, 2008, pp. 81-95 e passim.

Sciomachen Felice e altri, La Scelta. 1943 – 1945, Alberti, Verbania 2001, pp. 19-25, 53-62.

Tordini Nico e Lino, Partigiani di Valgrande. Ricostruzione critica …, 2 volumi, Alberti, Verbania 2021, passim.

Arialdo Catenazzi. Colle 2023

 Fonti iconografiche

Archivio personale

Centro di Documentazione Casa della Resistenza

Felice Sciomachen e altri,, La Scelta cit.

ANPI Alto Verbano

Flavio Maglio


[1] Enrico Massara, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese. Uomini ed episodi della lotta di liberazione, Novara 1984, pp. 860.

[2] Erminio Ferrari, “Quel che dobbiamo alla Valgrande”, in Nino Chiovini, Val Grande partigiana e dintorni. 4 storie di protagonisti …, Verbania 2002, p. 10.

[3] Fuori legge??? Dal diario ecc., pp. 82-84.

[4] Mario Manzoni (Marmelada), Partigiani nel Verbano, cit. p. 88.

[5] “… il sudafricano Gimmy (Leon Kantey, nato il 14/10/1921 a Mossel Bay, Sud Africa, e morto nel 2003 negli Stati Uniti) …” in Tordini Nico e Lino, Partigiani di Valgrande ecc., p. 51. Mario Manzoni così testimonia il suo inserimento nella formazione nel marzo ’44 quando la Battisti era ancora dislocata a Steppio (in codice Sciangai): “Nell’ultimo gruppo di ‘orfanelli’ [reclute] che ho accompagnato a Sciangai c’è anche un sudafricano, Gimmy, che non vuol saperne di andare in Svizzera ma vuole restare con la “Bat­tisti” per continuare a combattere in Italia. Già precedente­mente altri militari alleati si sono uniti alle varie formazioni partigiane, ma i comandi anglo-americani, salvo casi speciali e previa loro autorizzazione, non sono d’accordo su queste fusioni spontanee. Qualcuno di questi militari è tuttora in Italia, ma la maggior parte, dopo una permanenza più o me­no lunga, ha preferito la Svizzera. Arca cerca invano di far­gli capire questa e altre cose, ma Gimmy è irremovibile, si trova bene con noi. È un tipo allampanato, alto più di un metro e ottanta, ma non pesa più di settanta chili, e sa il fatto suo. Parla discretamente l’italiano, e diventa presto il beniamino di tutti perché è sempre pronto a portare il suo aiuto a chi ne ha bisogno …“. (Partigiani nel Verbano cit. p. 48.  

[6] Operazione realizzata con l’utilizzo della ferrovia Intra-Premeno, due camion e un motofurgone. Vengono prelevati circa 50 quintali di viveri (cioccolata, zucchero, scatolame) distribuiti poi in parte alla popolazione e alle formazioni contigue. Cfr. Diario storico cit. p- 101 e Partigiani nel Verbano p. 88-89.

[7] Ivi, p. 90.

[8] Nella sua fresca giovinezza cit., p. 140.

[9] Attualmente è il punto di partenza della ZipLine Lago Maggiore che permette un “volo” sino all’Alpe Segletta.

[10]Tre camionette tedesche, seguite da un camion” secondo il Diario storico cit. p. 102.

[11] Partigiani nel Verbano cit. p. 91-92.

[12] Secondo il Diario storico (p. 102) Selepukin non era solo, ma con due altri partigiani, dei quali comunque non si ha nessuna notizia.

[13] Tre secondo Chiovini (I giorni della semina cit., p. 116), uno secondo il Diario Storico.

[14] Nel Diario storico i due episodi sono fusi – e confusi – fra loro. Pur essendo strettamente collegate, le due vicende sono temporalmente e localmente distinte come le testimonianze dirette dei due feriti a Pian d’Arla e il testo del Manzoni chiaramente evidenziano. Di seguito il testo del Diario storico:

“23 luglio 1944 Durante il trasferimento, una squadra sosta a Colle (ignara dello stato di allarme). Tre camionette tedesche, seguite da un camion, sbu­cano a motore spento dalla strada di Trarego Piazza e aprono il fuoco sul gruppo a riposo. Tre partigiani cadono e un ragazzo conducente di un asino.

Dopo il primo smarrimento, una squadra comandata da «Peo» (Pompeo Mancarella) cerca di attaccare la colonna. Si incontra con un forte pattuglione tedesco di fiancheggiatori. Violenta sparatoria. «Peo» viene ferito. Il russo Selepuchin (uscito dalla Svizzera con 8 compagni per combattere i nazifascisti), appostatosi con due uomini, tiene a bada col suo moschetto il pattuglione che retrocede con qualche ferito. Selepu­chin, ferito, muore dissanguato. Vicino alla sua arma, con l’ultimo colpo in canna, si ritroveranno 7 caricatori vuoti.

Perdite nostre: 3 partigiani morti e un ragazzo 3 feriti e un prigioniero

Non accertate le perdite nemiche.”

[15] Paolo Zucchi, oltre che oste di Scareno, capo contrabbandiere del paese. Lui e la sua famiglia (sorella, figlia e nipote) hanno aiutato i partigiani a nascondersi e a rifocillarsi durante il rastrellamento, allestendo anche una sorta di infermeria per i feriti. Si impegnerà poi nel recupero delle salme dei caduti. Di lui, nel diario, dice Chiovini “A La Rocca finalmente troviamo Palin. Non è un partigiano, ma fa lo stesso: Palin dice che la Battisti è tutta a Scareno, a casa sua. Palin, nella “Battisti” è conosciuto anche dalle reclute. È un abitante di Scareno e per noi è staffetta, guida, albergatore, portaferiti, becchino, tutto. È una istituzione da premio Nobel.” (Fuori legge??? cit., p. 88). Cfr. anche Partigiani di Valgrande, cit. p. 427 e 578.

[16] Partigiani nel Verbano cit. p. 90.

[17] “Incontri troppo ravvicinati” in La scelta cit., p. 57-60.  Il testo completo del capitolo è scaricabile < qui >.

[18] Ivi, p. 57.

[19] Nel loro racconto si ipotizza che si trattasse “di pat­tuglie inviate ad esplorare la strada al di là del curvone per evitare all’autoblindo di incappare in qualche imboscata.” Potrebbe anche trattarsi della squadra che ha ingaggiato il combattimento con Selepukin e che ora sta scendendo per ricongiungersi al reparto in ricognizione sulla strada Cadorna verso il Vadàa.

[20] Ezio Bassani: cfr. la relativa scheda del Centro di Documentazione CDR.

[21] Ivi, p. 60.

[22] Nella sua fresca giovinezza cit., p. 140 e 142.

[23] Nei documenti compare anche con il nome di Leandro e di Alessandro. Sul monumento di Colle si indica l’età di 21 anni: in realtà li avrebbe compiuti nell’ottobre successivo. È un errore frequente nella attribuzione dell’età dei caduti partigiani in quanto spesso si computa l’anno di nascita (1923 in questo caso) e non la data precisa.

[24] Fuori legge??? cit. p.82-83.

[25] Partigiani nel Verbano, cit., p. 92.

[26] Sul Diario storico, che lo annovera fra i feriti (p. 130) vi sono dati discordanti rispetto a quanto risulta dalla scheda di riconoscimento sia sulla paternità (Egidio invece che Felice) e sull’anno di nascita (1922 invece che 1924). Manzoni lo chiama Robi, invece che Bobi. Il figlio Egidio sarà un noto sacerdote operante per lungo tempo a Verbania.

[27] La scelta cit. p. 19-22.

[28] La scelta cit. p. 23-25.

[29] Fuori legge??? cit. p. 89.

[30] Piccola storia ecc. cit., p. 107. L’aria del canto è quella di “Ho sentito sparate il cannone”.

[31] Karl e Ludwig Muller. Così Chiovini nel suo Diario rievoca il loro arrivo nel maggio ’44: “Due militari della “Luftwaffe” hanno disertato. Anche loro non vogliono più combattere la guerra. Sono partiti da Oleggio con un autocarro e dopo averlo distrutto, si sono presentati a noi. Si chiamano Karl e Ludwig, dicono di essere austriaci. Karl è biondo, alto, secco; ha un viso affilato, occhi di colore indefinibile. Il suo sguardo, sempre intelligente, talvolta è tagliente, quasi cattivo, talvolta chiaro e scanzonato come quello di un monello. È loquace e si esprime in un italiano stentato e buffo. Ludwig è l’opposto: piccolo, tozzo, taciturno, capelli ed occhi castani, viso quadrato e sguardo impenetrabile. Non si sa affatto esprimere in italiano. Forse la sua intelligenza è chiusa quanto il suo carattere. Sono eccellenti bevitori e Karl ha subito fraternizzato con Bagat.” In Fuori legge??? cit. p. 61,

[32] Valzer per un amico, cit. p. 32-34.

[33] Cfr. Raphael Rues, SS-Polizei. Ossola-Lago Maggiore 1943-1945, Insubria Historica, Minusio (CH) 2018.

[34] Sulla complessa e tutt’altro che facile e lineare “resa dei conti” della Germania con il nazismo cfr. Tommaso Speccher, La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, Laterza, Bari-Roma 2022.

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