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“Viva Babeuf !” di Gino Vermicelli

20 ottobre 2014

Giorni fa, mentre stavo preparando una sintesi sulla “Repubblica” dell’Ossola, mi sono imbattuto in questo passo (1) relativo alla situazione militare nazifascista nell’agosto del ’44.

 È da segnalare anche il carattere composito e raccogliticcio delle truppe fasciste e tedesche presenti in Ossola: molti dei presidi erano formati da geor­giani e cecoslovacchi inquadrati nella Wehrmacht. Tali soldati non erano certo animati da grande volontà collaborazionistica, ed appena si presentò l’occasione parecchi di loro – particolarmente i georgiani – passarono nelle fine par­tigiane.

«A fine agosto, mentre si aspettavano i rinforzi, arrivò a Domodossola un contingente composto di georgiani e di polizia tedesca. Detto contingente operò una puntata in valle Formazza dove si erano già verificati casi di diserzione nei presidi esistenti. .. .Durante tale operazione fuggirono oltre settanta georgiani che andavano a ingrossare le file dei ribelli seco trasportando armi compresi una mitragliatrice pesante ed un mortaio» (2)
 

Mi è subito venuta in mente una delle più belle sequenze del romanzo partigiano di Gino Vermicelli, Viva Babeuf !, dove questo passaggio massiccio dei georgiani fra le file partigiane viene rappresentato attraverso la figura del Capitano Cotny.

Di Gino “Edoardo” Vermicelli ne avevamo parlato, sempre pochi giorni fa, mentre stavamo organizzando una serata sulla Repubblica partigiana ossolana a Cannobio; “si ricordano tanti personaggi, civili e militari, politici e partigiani di quel periodo, ma sembra che di Gino si sia persa un po’ la memoria – ci eravamo detti – … eppure per molti di noi è stato più che un partigiano esemplare, è stato un amico e un maestro”. E Viva Babeuf ! non solo è il più bel romanzo partigiano delle nostre terre, ma uno dei più belli di tutta la resistenza italiana.

 

 

Quando l’editore Tararà, nel 2008, decise di ripubblicare il romanzo di Vermicelli (3), mi chiese di scrivere una nota di presentazione editoriale alla nuova edizione. La ripropongo qui nella versione completa che allora preparai (quella edita fu leggermente tagliata per esigenze di impaginazione) e, di seguito, un articolo pubblicato su Nuova Resistenza Unita in cui ho tentato di esplicitare la sua concezione del “fare memoria” che sta alla base del suo romanzo e del suo personale modo di esser testimone di quegli anni.

In appendice alcune delle pagine di Viva Babeuf ! incentrate sul capitano georgiano Cotny: un incentivo a intraprenderne (o riprenderne) la lettura.

 

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Nota editoriale

Viva Babeuf! uscì a stampa per le nostre edizioni – in collaborazione con la Cooperativa “Manifesto anni ‘80” – nel 1984. Erano passati vent’anni da quando Italo Calvino, nella prefazione alla riedizione del suo primo romanzo (Il sentiero dei nidi di ragno), identificava la narrativa della resistenza con una specifica stagione letteraria, quella del neorealismo, o come lui stesso volle precisare, del “neo-espressionismo”.

edizione 2008

edizione 2008

Nei decenni successivi si è fatta sempre più strada la convinzione come sia del tutto improprio collocare questa narrativa (e più in generale la letteratura legata alla resistenza) all’interno di una categoria, un genere letterario, una cifra stilistica specifici.

Questo non ci impedisce, quando parliamo di “letteratura della resistenza” di introdurre un criterio distintivo ancor oggi pertinente: quello del riferimento, o meglio, della centrale e concreta presenza in queste opere della diretta esperienza dell’autore; la trasposizione letteraria può dar vita a personaggi, dialoghi, situazioni e vicende di invenzione ma tramite ed oltre questi c’è un vissuto in prima persona che ripropone in tutta forza la sua presenza.

 

Ed è proprio l’esperienza diretta di questi autori che rivive nella loro narrazione ad introdurre un primo elemento di specificità e differenziazione. Non c’è resistenza se non legata ad un preciso territorio; non solo città, pianura, laguna, collina o montagna, ma proprio quello specifico spazio geografico ed umano.

Come ricorda Rossanda nell’introduzione, la notorietà dell’esperienza partigiana ossolana era già alta durante la guerra e crescerà nei decenni successivi; ma sino all’84 questa esperienza non aveva trovato una sua trasposizione letteraria se non nel breve racconto memorialistico di Franco Fortini (Sere in Valdossola). Viva Babeuf! è allora in primo luogo il romanzo della resistenza ossolana o, volendo precisare, dei monti tra la Valstrona e il versante occidentale dell’Ossola. Questo il paesaggio, soprattutto umano – le donne e gli uomini di quei paesi e di quegli alpeggi con la loro saggezza antica ed il loro spirito comunitario –, che incornicia la narrazione.

 

Il secondo elemento distintivo richiama il quando (e “a chi”) della scrittura e pubblicazione dell’opera. Se negli anni quaranta e i primissimi anni ’50 prevale quella che Calvino individuava come collettiva e reciproca “smania di raccontare” fra chi aveva partecipato alla stagione della liberazione e nel contempo quale difesa della resistenza dai detrattori che ben presto imperversarono, nelle opere successive sembra prevalere una maggior attenzione e differenziazione letteraria, un maggior distanziamento che può assumere o il taglio epico di un Fenoglio o quello antiretorico, antieroico ed ironico di un Meneghello in implicita polemica con ufficialità ed agiografia di molte celebrazioni.

In Viva Babeuf!, che Vermicelli scrive esplicitamente per i giovani degli anni Ottanta (e non solo), la memoria partigiana rivive attraverso la sensibilità maturata nelle lotte dei due decenni precedenti: la dimensione personale e la differenziazione fra i generi, la sessualità, la rivitalizzazione dell’ideale antico di eguaglianza e, non ultimo, lo spirito libertario, antigerarchico ed antimilitarista. “Possono fare come vogliono, combattere o scappare. … Sono liberi di scegliere come non lo è mai stato nessun soldato” … Cotney si convinse che se la guerra era la cosa peggiore, farla come la facevano i partigiani era il modo migliore.

Vi è soprattutto la voglia di far emergere la vitalità, la gioia di vivere di chi ha vissuto quell’esperienza. Alla domanda (retorica) “Se ne è valsa la pena”, in un’opera collettiva sulla resistenza curata da Aldo Aniasi, Vermicelli risponderà: “Veramente la pena non ci fu, se per pena s’intende tormento dell’anima, sofferenza morale. … il tutto era vissuto in un’atmosfera di vivace allegrezza. Il fatto è che avevamo vent’anni ed eravamo convinti che stavamo cambiando il mondo”.

Sta forse qui la distanza maggiore di Viva Babeuf! con la più parte della letteratura partigiana: da quella che Giovanni Falaschi, in una antologia (La letteratura partigiana in Italia 1943 – 1945) uscita pochi mesi prima del romanzo di Vermicelli, chiamava “tragicità e cupezza” di quei testi. Tragicità che ritroviamo anche in molti scritti successivi, magari esplicitata, anche in autori che hanno scelto una scrittura lieve ed ironica, come irrisolto senso di colpa. “In fondo non è colpa nostra se siamo ancora vivi” dirà ad esempio, en passant, Meneghello ne “I piccoli maestri”.

Vermicelli vuole soprattutto narrare quella voglia di vivere e di cambiare; la tragicità della guerra certo c’era, la morte era nelle cose, era messa in conto, ma ce ne parla sempre in modo indiretto, con estremo pudore sia che si tratti della morte dei “loro” che di quella dei “nostri”. L’attenzione è altrove.

 

Narrare. Qui troviamo il terzo elemento distintivo, quello propriamente letterario: le scelte di scrittura e di strutturazione del testo. Proprio perché qui valgono in primo luogo gli orientamenti e i gusti dei singoli autori e, più in profondità la specifica formazione e le personali frequentazioni di lettura, ogni autore è tendenzialmente un caso a sé. Più difficile trovare, almeno nei più significativi, delle costanti. Forse un elemento ricorrente lo ritroviamo nella mescolanza di lingue e linguaggi, sia perché la guerra di resistenza mise fianco a fianco la popolazione civile con i suoi dialetti, con partigiani dalle più svariate provenienze regionali, sociali e culturali, non escluso un buon numero di militari stranieri; sia perché l’antifascismo più o meno consapevole si “abbeverava” spesso di autori stranieri. In alcuni casi questa mescolanza poteva diventare scelta stilistica o, come in Fenoglio, vera e propria sperimentazione letteraria.

Non è il caso di Vermicelli. Certo troviamo il dialetto delle valli e talora il francese, ma in funzione direttamente narrativa; quello che troviamo nello stile della sua opera è soprattutto il “piacere di raccontare”. Chi lo ha conosciuto direttamente sa che Gino era un grande narratore; piccoli episodi, talora poco più che aneddoti, che, qualunque fosse l’uditorio (amici, studenti, giovani o adulti, militanti politici …), erano grado di incantare gli astanti e di trasmettere il suo senso profondo della vita. Di questa oralità narrativa troviamo traccia in più di un episodio del romanzo, ma soprattutto vi ritroviamo una strutturazione narrativa “classica” che probabilmente trova radice nelle letture giovanili del giovane autodidatta emigrato in Francia: i grandi romanzi della letteratura Francese e Russa in particolare. L’intreccio non solo sovrappone attori e osservatori, partigiani e popolazione civile ma ci porta anche dal “nemico”, dall’antagonista tedesco facendoci conoscere il suo, se non realistico, almeno plausibile, punto di vista. Mille miglia dalla frequente estremizzazione negativa (letteraria e più spesso filmica) a cui siamo abituati; anzi quasi un’ironica e benevola commiserazione per chi, nonostante tutta la sua forza distruttiva e, magari, la sua intelligenza, è destinato alla sconfitta.

 

C’è una citazione dal romanzo che abbiamo voluto anteporre alla postuma autobiografia di Vermicelli (4) per la sua capacità di rappresentare il suo percorso di vita (citazione spesso ripresa anche in ambiti del tutto diversi dal contesto originario come può confermare una rapida ricerca su internet) e che ci sembra analogamente chiarire la cifra narrativa del romanzo:

“A volte può essere più bello camminare che arrivare… Arrivare non esiste, è solo un momento del cammino”.

Dall’ultima neve della fine di marzo alla prima neve del successivo ottobre, da una fuga (uno sganciamento) ad una ancor più drammatica fuga e sganciamento per ri-trovare rifugio idoneo al proprio insediamento. Il camminare e la sua circolarità strutturano il romanzo, la vita del partigiano e, ad un livello più alto, il percorso storico perché “Ovunque uno vada, se non è l’ultimo viaggio, dovrà sempre ripartire.” Circolarità perché ogni arrivo sarà una partenza e perché ogni viaggio è un riprendere ciò che, noi od altri prima di noi, si era cominciato; così come altri, dopo di noi, se vorranno, potranno riprendere.

 

Convinti della permanente attualità e vigore letterario del suo romanzo partigiano, ci è parso non inutile, a dieci anni dalla scomparsa di Vermicelli e a ventiquattro dalla prima edizione, proporlo oggi a nuovi lettori, non escludendo, per chi già ha usufruito della prima edizione, il piacere di una rilettura.

 

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“Edoardo” e la memoria della Resistenza

da Nuova Resistenza Unita n. 3, maggio-giugno 2008

Dieci anni fa, la mattina del 21 maggio 1998, Gino Vermicelli ci ha lasciato. Due giorni dopo le esequie alla Casa della Resistenza.

"Edoardo" Vermicelli nel 1945

“Edoardo” Vermicelli nel 1945

Il tratto comune di quanto in quei giorni è stato scritto e di quanto quel pomeriggio a Fondotoce à stato ricordato è il “suo stile”, il suo tratto antieroico ed antiretorico, la sua ironia quasi tesa ad alleggerire e schernire la consistenza di un impegno e d’una fedeltà ideale mai venuta meno. Non a caso solo alla fine del suo percorso di vita si è lasciato convincere a rilasciarne una testimonianza compiuta.1

Potremmo parlare del partigiano, del dirigente politico, del pacifista, dello scrittore o magari – lui l’apprezzerebbe molto – dell’apicoltore. Voglio qui solo sottolineare alcuni aspetti del suo modo di porsi nei confronti della memoria della Resistenza.

Fino al 1984, nonostante le sue numerose collaborazioni ed interventi (Vie Nuove, Il Siciliano Nuovo, La lotta, il manifesto, La classe operaia …) Gino non ha scritto molto sulla resistenza; campeggia la sua lucida cronaca della battaglia di Megolo, pubblicata in più occasioni. Per il resto prevale un certo riserbo.

In una lettera del 1975 così si esprime:

“Sulla resistenza si è scritto molto, qualche volta bene, ma volte malamente; io credo che non serva una immagine agiografica della resistenza. Se, leggendo la nostra storia, i giovani ne ricavassero la sensazione che allora esistevano degli uomini buoni, generosi, immacolati, in lotta contro il male, non ne ricaverebbero nessun insegnamento e nessuna speranza, giacché, guardandoci attorno, di uomini «generosi ed immacolati» ne vedono ben pochi. Così facendo la resistenza rimane una immagine fuori dalla realtà e dalla comprensione delle nuove generazioni.

Invece la storia non è stata quella. Il trasformare i residui dell’esercito italiano in una nuova forza armata è stato un travaglio complesso pieno di contraddizioni, con alti e bassi, sconfitte e vittorie. Noi quel travaglio lo abbiamo vissuto, e ne siamo usciti abbastanza bene. In tutta coscienza io penso che la nostra seconda divisione Redi sia stata una buona formazione, con un livello sufficiente di auto­disciplina, con rapporti corretti con la popolazione, una capacità di combattimento sufficiente. Tutto ciò è stato costruito con fatica, superando ogni giorno una ‘grana’ o difficoltà, ma riuscendo a fare prevalere pian piano le tendenze migliori.

Se riusciremo a raccontare queste cose, potremo destare qualche interesse . …” 2

 Troviamo qui, in nuce, il progetto di Viva Babeuf! 3

Raccontare (non solo ricordare o ricostruire) in quanto la narrazione, diversamente dal memoriale e dal saggio storico, permette al lettore di rivivere tridimensionalmente (vicende, emozioni e sentimenti, pensieri e riflessioni) e al narratore di condensare in un breve arco temporale e in specifici personaggi (insomma in una “storia”) la complessità degli eventi. “Questa è una storia da raccontare”4 diceva talvolta Gino e chi lo conosceva sapeva che di lì a poco, insieme ad un curioso episodio piacevolmente ed ironicamente narrato, sarebbe stato compartecipe di un grande insegnamento.

Raccontare ad esempio come il timido e timoroso Pippo si trasformi in un partigiano coraggioso e rispettato. Più in generale come persone eterogenee (il cattolico, il comunista, l’ebreo, l’impiegata, la contrabbandiera, la mondina, l’universitario, l’operaio, il montanaro, il nobile monarchico …) unitisi un po’ per scelta e più spesso per caso, si incontrino, talvolta scontrino e, all’interno della crudeltà bellica, si trasformino vicendevolmente ponendo le basi per una convivenza basata sul rispetto e la responsabilizzazione di ciascuno. Come un ideale di eguaglianza di origini antiche possa concretizzarsi nella vita quotidiana di una formazione laddove anche chi non porta le armi (il cuoco, la staffetta, l’addetto/addetta al servizio informazioni) abbia lo stesso peso e considerazione del partigiano armato.

Narrare ai giovani di oggi (del 1984 e non solo) il che comporta una riattualizzazione linguistica e soprattutto il saper filtrare gli eventi di allora attraverso le sensibilità delle generazioni degli anni settanta e ottanta (la dimensione personale, il rapporto e le diseguaglianze fra uomini e donne, la sessualità, la costruzione di un potere condiviso, non autoritario…) facendo rivivere, al di là della tragicità del contesto, come “il tutto era vissuto in un’atmosfera di vivace allegrezza. Il fatto è che avevamo vent’anni ed eravamo convinti che stavamo cambiando il mondo5: il sentire collettivo di essere parte attiva del corso positivo della storia.

Questa capacità narrativa e pedagogica di riattualizzare la dimensione profonda (ideale ed emozionale) della resistenza trovava espressione, soprattutto dopo la pubblicazione del romanzo, nei numerosi incontri che Vermicelli ebbe con gli studenti sia di scuole elementari che medie, superiori ed universitarie. Il suo modo di porsi creava immediatamente un clima di attenzione e rispetto; a tutti rispondeva con chiarezza ricostruendo la dimensione quotidiana della lotta di liberazione attraverso piccoli episodi ricchi di implicazioni. È anche in uno di questi incontri che rende esplicito il meccanismo narrativo del romanzo:

I personaggi del libro sono parzialmente veri e parzialmente inventati … e parzialmente messi insieme. Voglio dire … il Simon non sono io, il Simon sono io più un altro che si chiamava Andrea Cascella e che era il comandante militare; (…)Erano due persone diverse; io le ho fuse in un unico personaggio, in Simon; ne ho creato un carattere unico … I miracoli della scrittura!”6

 

Mirko Scrittori, Andrea Cascella e Gino Vermicelli

Mirko Scrittori, Andrea Cascella e Gino Vermicelli

Questa attenzione ad una attualizzazione della memoria della resistenza attraverso modalità comunicative al passo coi tempi e con un occhio di riguardo ai giovani lo ritroviamo nell’attenzione che Vermicelli diede al ruolo della Casa della Resistenza. Nel ‘91, in un articolo a sostegno della proposta di legge regionale per la “Casa della resistenza” di Fondotoce, presentata da Vittorio Beltrami, tra l’altro afferma:

 “A Novara esiste l’Istituto Storico della Resistenza ‘Piero Fornara’ che continue­rà ad essere, per scelta delle organizzazio­ni dei partigiani e degli Enti aderenti al Consorzio, l’unico Istituto Storico della guerra di liberazione per l’alto e il basso novarese. A Fondotoce, la ricca e preziosa documentazione accumulata a Novara in decenni di attività potrà, con l’uso delle tecnologie esistenti, essere comunicata a chi, soprattutto nelle giovani generazioni, vorrà conoscere e giudicare dai fatti la storia di quegli anni.” 7.

E quando, attraverso vicissitudini, stalli e passi avanti la “Casa” è finalmente costruita (ma non ancora collaudata ed arredata), la preoccupazione di Gino è volta al futuro. Per sua iniziativa ci trovammo nel settembre 1997, in una libreria di Verbania, con lui, Maierna, alcuni insegnanti e competenti di nuove tecnologie per ragionare su proposte idonee “alle nuove generazioni”. “Non deve diventare un museo di cimeli” ripeteva. Da quegli incontri nacque una bozza di Progetto di “Centro Multimediale della Casa della Resistenza” (novembre 1997) che costituì il primo abbozzo di quello che, negli anni successivi, sotto la guida di Mauro Begozzi e la progettazione dell’architetto Terranova, si strutturerà come Centro Storico multimediale e Galleria della Memoria.

 

Vermicelli espresse più volte un cruccio: “Perché da noi il 25 aprile non costituisce una gioiosa festa collettiva di tutto un popolo, come lo è per tutti i francesi il 14 luglio, a ricordo dell’inizio della Rivoluzione? Anche da loro c’erano i ‘vandeani’, eppure …”.

Fin quando non avremo un 25 aprile di festa e non solo di celebrazione, significherà che il lavoro di memoria della Resistenza non avrà ancora superato il crinale di una condivisione collettiva senza possibilità di ritorno.

 

“Ho anche sempre sostenuto che ogni resistenza, anche armata, non è militare, poiché nessuno può ordinarti di fare ciò che non vuoi e perché vi è ammesso anche chi decide di non portare armi. Ha saputo narrare benissimo questa complessa vicenda Gino Vermicelli nel suo Viva Babeuf! indimenticabile libro di un indimenticabile compagno coraggioso intelligente tenero e ironico.”

Lidia Menapace

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  1. G. Vermicelli, Babeuf, Togliatti e gli altri. Racconto di una vita, Tararà, Verbania 2008.
  2. Lettera a Cafiero Bianchi (Fiero) pubblicata in Un paese nella storia, Casale Corte Cerro 1982 (ristampa 2005).
  3. G. Vermicelli, Viva Babeuf!, Margaroli – Coop. “Manifesto anni 80”, Verbania – Roma 1984. Riedito in occasione del decennale della morte dall’editore Tararà (Verbania 2008).
  4. Ivi, p. 52.
  5. in Aniasi A. (a cura), Ne valeva la pena. Dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione italiana, M&B Publishing, Milano 1997, p. 141.
  6. Babeuf, Togliatti e gli altri cit., pp. 227-228.
  7. “Sosteniamo in ogni sede la proposta di legge regionale per la “Casa della resistenza” di Fondotoce” in Resistenza Unita, A. 23, n. 12, dic. 1991, p. 3.

 

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edizione del 1984

edizione del 1984

 

[ Il capitano Cotny ] (5)

 Quella mattina del 14 Agosto, verso le undici, il capita­no Cotny decise di andare dal barbiere. Farsi radere era un momento di piacere, con quel barbiere di Premosel­lo. Ci sapeva veramente fare. Gli insaponava ben bene il volto con un pennello morbido, bagnato nell’acqua calda per poi raderlo con un rasoio così affilato che sembrava gli accarezzasse il viso. Infine gli appoggiava sulla faccia rasata un asciugamano tiepido e umido. Mentre lavorava parlava e parlava. Cotny non conosce­va molte parole di italiano, forse un centinaio. Dei di­scorsi del barbiere non capiva una sola parola, però gu­stava la musicalità di quella parlata. Gli piaceva anche vedere dallo specchio la gente che passava nella via.

Vista dallo specchio, la gente era diversa. Quando Cotny camminava nella piazza, quelli che incrociava apparivano tutti piuttosto inquieti, se non addirittura spaventati. Abbassavano lo sguardo, si scansavano per lasciargli il passo, smettevano di parlare quando si avvicinava. Nello specchio era diverso. Vedeva la gente salutarsi, sorridere, parlare e scherzare. E tutto ciò gli ricordava la sua città, in Georgia.

Il primo giorno si era portato la Maschinepistole, ma ora veniva dal barbiere con la sola rivoltella, nel fo­dero sul fianco. La caserma era appena a trenta metri. Quella mattina, dopo averlo ben rasato, e anche incan­tato con la sua parlantina incomprensibile, e mentre gli dava i soliti due colpi di spazzola al bavero della divi­sa, il barbiere gli disse, scandendo bene le sillabe:

– Domani è chiuso.

Cotny conosceva quelle due parole, quindi recepì il messaggio. A sua volta disse una delle parole del suo scarso repertorio di italiano:

– Perché?

– Festa. Domani è festa. Ferragosto.

Capiva anche la parola festa. Ma l’ultima proprio non la conosceva.

– Ferarosto?

– No, ferragosto … – E il barbiere andò verso il muro per indicargli il calendario.

Il giorno 15 era scritto in rosso, a differenza degli al­tri, scritti in nero.

Al suo paese il 15 Agosto non era giorno di festa, ma vi erano altre date in cui si festeggiava. Avrebbe vo­luto chiedergli cosa si onorava con quella festa, ma non era in grado di fare un discorso così complicato. Si limitò a chiedere:

– Danzare?

Il barbiere gli rivolse un sorriso e cominciò a parlare nella sua lingua melodiosa. Gesticolava ed indicava i monti. Poi si ricordò che l’altro non capiva e cercò di riassumere, aiutandosi coi gesti:

– Prima guerra, ante-guerra, danzare su montagna. ­E indicava le montagne.

– Adesso, no? – chiese Cotny.

– Adesso no, paura.

– Paura partigiansi?

L’altro abbassò lo sguardo. Non sorrideva più. Disse: – Paura guerra.

Cotny pagò ed uscì. Davanti alla Casermetta, sulla strada nazionale, due dei suoi uomini stavano tentan­do di parlare con una fanciulla bionda e anche belli­na, che si era fermata lì, con la sua bicicletta, un pie­de a terra e l’altro sul pedale. Erano due ganimedi del Plotone Comando, di quelli che preferiscono dare l’assalto alle donne piuttosto che al nemico.

Nella mente di Cotny passarono rapidi alcuni pensie­ri: che le donne brune della Georgia sono più belle delle italiane; che però le bionde sono più attraenti. Girò lo sguardo, per dare un’altra occhiata alla ragaz­za, ma quella se ne stava già andando, spingendo for­te sui pedali.

«Anche quella ha avuto paura di me,» pensò, un po’ amareggiato.

Si avviò verso i suoi, davanti alla caserma. Quelli gli facevano dei cenni che sembrava volessero dire: «rientrate subito».

Oltre la soglia della casermetta gli spiegarono che quella ragazza aveva detto che tutt’attorno era pieno di partigiani.

Cotny mise il plotone in stato di allarme e controllò se il telefono funzionava, poi si ritirò in quello stanzino chiamato ufficio, dove aveva un tavolo e due se­die; accese una sigaretta e attese che succedesse qual­che cosa.

Senza che lo volesse, i suoi pensieri tornarono alla festa del 15 Agosto. Come si può andare in montagna in un giorno di festa? Saranno quelli della montagna che vengono in paese. Ma qui è tutto diverso. Co­struiscono più case sui monti che nei paesi.

Si alzò e andò a prendere le sue carte topografiche nel­la borsa. Dopo averne aperta una sul tavolo, la esa­minò ancora una volta con attenzione minuziosa. Non vi era un chilometro quadrato di montagna senza un alpeggio. Qualche volta ve ne erano anche due o tre. Fece il conto del numero di quadretti che sulla carta corrispondevano a chilometri quadrati e giunse al da­to che cercava.

«In questa valle e quelle laterali, vi saranno oltre mil­le alpeggi,» pensò.

Guardando ancora attentamente la cartina, scorgeva la fitta ragnatela di sentieri che percorrevano quei monti, ovunque. Quelli che univano i gruppi di baite tra di loro e quelli che riconducevano ai paesi. Poi, esaminando ancora la carta, individuava dappertutto boschi, vallate, costoni.

Rimettendola a posto nella borsa, ebbe come un ge­sto di irritazione e pensò:

«Il maggiore Schultz è proprio matto. Vorrebbe che scovassimo i partigiani in quel labirinto. Ma non ca­pisce che sono loro che stanno scovando noi?»

Era già passata mezz’ora dal momento della messa in allarme del plotone, ma non era successo niente. Sembrava addirittura una giornata più calma delle al­tre. Nei giorni precedenti, erano stati chiamati più volte a causa di colpi di mano dei partigiani. Coi suoi uomini era accorso con urgenza nella zona, arrivando sempre troppo tardi.

«Sono loro i gatti e noi i topi, caro Maggiore Schultz,» pensò ancora.

Si recò poi nel camerone, formò due pattuglie con l’ordine di perlustrare i boschi e i campi attorno al paese. Egli stesso si mise alla testa di dieci uomini per controllare le campagne a Sud di Premosello.

Nei prati incontrarono qua e là uomini anziani e don­ne che falciavano o rastrellavano il fieno.

– Visto partigiansi? – chiedeva loro Cotny, con atteg­giamento minaccioso.

– No, non abbiamo visto nessuno, – rispondevano in­variabilmente quelli.

Fece percorrere alla sua pattuglia un arco attorno al paese. Non vi erano partigiani, né nessuno ne aveva mai visto uno.

Poco prima di rientrare, in un prato già nei pressi del­le case di periferia, scorse un vecchio ed una vecchia che consumavano il loro pranzo, seduti all’ombra, al margine di un boschetto. Cotny scavalcò un muretto di beole per raggiungerli. Faceva caldo. L’uomo era rosso in volto per il caldo e il sole che aveva preso, falciando. I due lo guardarono con il solito sguardo timoroso che ben conosceva.

Giunto a pochi metri dai vecchietti, Cotny pensò che aveva attraversato quel prato proprio per niente, da stupido, tanto la risposta la conosceva già: «non ab­biamo visto nessuno.» Allora si avvicinò ancora ai due e chiese:

– Domani festa?

L’espressione del volto dei due vecchi cambiò subito. Gli sorrisero, rispondendo:

– Sì, domani è festa, è ferragosto.

E il vecchio, allungando una mano verso il cespuglio, alla sua destra, tirò fuori un fiaschetto e un bicchiere e disse:

– Bevete con noi …

Cotny tracannò un bicchiere di vinello piuttosto tiepi­do, salutò e se ne andò dai suoi.

Dopo essere rientrato alla casermetta, chiamò i due ganimedi che avevano parlato con la ragazza bionda e disse loro:

– Quando vi capiterà quella bionda, portatela da me. Prese poi il telefono, chiamò il presidio di Vogogna paese e parlò a lungo con il tenente che lo comandava. Parlava in georgiano molto stretto, ben sapendo che i tedeschi, che disponevano solo di un interprete di russo, anche se lo avessero intercettato non avreb­bero mai potuto capire quel che diceva. Fece altre due o tre telefonate, sempre in georgiano, ed andò a rinfrescarsi.

La ragazza bionda non passò il giorno dopo, ma fu pescata il 16.

I due ganimedi la invitarono, con il massimo di genti­lezza di cui erano capaci.

– Parlare con capitano. Ordine, – dissero.

– No, io dentro non ci vengo, – protestava la ragazza.

– Tu venire. Non paura.

Cotny la fece sedere sulla seconda sedia che c’era nello stanzino, lasciando aperta la porta.

– Tu visto partigiani ieri … secondo?

– Sì, l’altro ieri ho visto tanti partigiani. È vero.

– Io non visti. Perché?

La ragazza cercò di spiegare, un po’ con le parole e un po’ con i gesti che i partigiani quando vedono una donna, saltano fuori, ma se vedono dei soldati, si ac­quattano. E ci riuscì

– Noi fatto giro. Loro non sparare. Perché?

La ragazza si era rinfrancata. Esitò un momento pri­ma di rispondere a quella nuova domanda, poi disse, parlando come il georgiano, per essere capita:

– Voi non cattivi, forse.

Allora Cotny aprì il cassetto del suo tavolo. Ne tirò fuori una scatola di sigarette tedesche: una di quelle scatole rigide, di cartoncino bianco. La diede alla ra­gazza e poi le porse anche una matita, e disse:

– Tu scrivere …

– Io, e perché?

– Io non scrivere italiano. lo scrivere così. .. – e scrisse in cirillico, in un angolo della scatola, «bella bionda». – Tu scrivere: «parlare con Georgiani.»

La ragazza scrisse quella frase, senza comprendere. Ma Cotny continuò:

– Quando incontrare partigiani, dare sigarette a capo.

– E la accompagnò sino alla porta della casermetta.

Subito dopo, chiamati col telefono, Cotny e i suoi do­vettero intervenire ad Ornavasso, dove era stata mi­tragliata una macchinetta tedesca. Per stare alle di­sposizioni del maggiore Schultz, portò i suoi uomini sulla montagna, sino al Boden sul camion e poi a pie­di sino alla Capanna Legnano. Camminando in quei boschi, Cotny pensava:

«Se volessero ammazzarci tutti, lo potrebbero fare ad ogni passo. Schultz è proprio un asino».

Tornarono tardi alla casermetta. La mattina dopo, in un momento di tranquillità, Cotny andò a farsi radere. Il barbiere lo aveva appena avvolto in quella specie di tovaglia che gli metteva addosso prima di insapo­narlo, quando nello specchio vide una ragazza in bi­cicletta fermarsi davanti alla bottega. Non era la bionda che conosceva, era una brunetta esile con occhi nerissimi e vivacissimi. La brunetta entrò dal bar­biere, posò un oggetto bianco sulle ginocchia del Georgiano e uscì, il tutto in pochi secondi. Cotny non aveva avuto nemmeno il tempo di districarsi dal suo telo. Guardò quella cosa bianca: era la sua scatola di sigarette. Tirò fuori una mano, prese il pacchetto, lo rigirò e vide una nuova scritta.

– Cosa scritto? – chiese al Barbiere. Quello lesse:

– Parlare con Georgiani …

– Dopo?

– Questa sera o domani sera alle ore venti nel prato del vecchio col vino.

– Leggere, piano.

Il barbiere rilesse quella frase lentamente, poi restituì la scatola a Cotny, dicendo:

– Ci sono due altre parole che non capisco.

– Io capire, tu fare barba!

Sembrava un invito perentorio, da uomo irritato. Ma guardando Cotny nello specchio, il barbiere non ebbe dubbi. Più che irritato, il Georgiano appariva contento.

 

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Note

  1. Giulio Maggia, La repubblica dell’Ossola. Aspetti militari, in Le zone libere nella Resistenza italiana ed europea. Relazioni e comunicazioni presentate al Convegno internazionale di Domodossola. 25-28 settembre 1969, ISRN, Novara 1974. p. 150.
  2. Relazione sui fatti di Domodossola, del comandante la 7′ compagnia della brigata nera «A. Cristina», 12 settembre 1944. (ISRN, microfilm 112556-58. L’originale si trova a Washington, Archivi nazionali).
  3. Gino Vermicelli, Viva Babeuf ! Romanzo. Prefazione di Rossana Rossanda, Tararà, Verbania 2008.
  4. Gino Vermicelli, Babeuf, Togliatti e gli altri. Racconto di una vita. Prefazione di Valentino Parlato, Tararà, Verbania 2000.
  5. pp. 192 – 199 (ed. 2008)
8 commenti
  1. Sono curioso di conoscere i nomi delle persone reali dietro ai personaggi. Alcuni nomi sono trasparenti (Retto, Daddio…), altri fanno lasciano intuire ma non ne sono certo. Mi piacerebbe capire chi è che si cela dietro al nome di Emilio

    • Se alcuni personaggi del romanzo corrispondono, in modo abbastanza trasparente, a figure storiche effettive (Daddio, Superbi, Aso, Papi …) gli altri sembrano rappresentare più delle tipologie, Che io ricordi solo una volta Vermicelli è entrato nel meccanismo della costruzione dei personaggi. E’ nell’incontro con i ragazzi di una terza media di Verbania che abbiamo in parte riprodotto in appendice alle sua memorie autobiografiche (“Babeuf, Togliatti e gli altri”). Aveva in quella occasione accennato all’equivoco della diretta identificazione tra Simon e Vermicelli stesso. Riporto qui alcune delle sue parole che mi fanno pensare che Emilio non si identificasse con una figura reale ma una sorta di espediente narrativo utile per il confronto dialettico (il cattolico e il comunista) con la concezione egualitaria di Simom (concezione che, questa sì, è anche quella dell’autore).
      [Vermicelli] “Nel libro c’erano due personaggi principali. Uno era il Simon e l’altro era Emilio. Emilio era cattolico e Simon comunista. Il cattolico era pieno di curiosità e voleva capire come uno potesse diventare, in un’epoca fascista, comunista … ”
      [Domanda] ” – I personaggi del libro sono veri o inventati?”
      [Vermicelli] “– I personaggi del libro sono parzialmente veri e parzialmente inventati … e parzialmente messi insieme. Voglio dire … il Simon non sono io, il Simon sono io più un altro che si chiamava Andrea Cascella e che era il comandante militare; e non era l’Emilio, eh! … Andrea Cascella era un famoso scultore, è morto qualche anno fa, un abruzzese; … se voi andate nell’ambiente degli scultori è una persona che ha avuto successo. Erano due persone diverse; io le ho fuse in un unico personaggio, in Simon; ne ho creato un carattere unico … I miracoli della scrittura!”

  2. Grazie della celere risposta. La curiosità specifica per Emilio era legata al fatto che il personaggio viene descritto come originario della mia città (zona con diversi garibaldini e altri nelle formazioni di Di Dio e Arca)

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