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La nostra Resistenza: cinque (ri)letture

24 ottobre 2017

Nei giorni scorsi, in seguito alla scomparsa di Gianni Maierna ho cercato quanto avevo scritto recensendo il libro sulla sua esperienza di giovane partigiano gappista. L’ho trovato in una cartella insieme ad altre quattro brevi recensioni di testi sulla resistenza nel Verbano e nell’Ossola in occasione della loro pubblicazione o di una loro riedizione. Recensioni pubblicate su Nuova Resistenza Unita, salvo una (Un salto nel buio di Mario Bonfantini) destinata anch’essa alla pubblicazione ma, per motivi che non ricordo, rimasta nel cassetto (o meglio nel PC). Le ripropongo qui, in successione cronologica, quale suggerimento di possibile (ri)lettura.

 

Nino Chiovini, I giorni della semina, Tararà, Verbania 2005

 I giorni della semina: la nuova edizione

Vi sono libri resi grandi dall’importanza dell’evento di cui trattano; e, viceversa, eventi che assurgono a grandezza grazie alla qualità di una loro narrazione. Quando le due possibilità coincidono, ne nasce un’opera fondamentale. Tale è I giorni della semina, che le nostre edizioni ripropongono nel progetto di riedizione di tutta l’opera di Chiovini.” Così inizia la nota editoriale che presenta la nuova edizione di quello che è ancor oggi il testo fondamentale per la conoscenza degli eventi del giugno del ’44 e della Resistenza nel Verbano. Testo che, come è anche emerso nell’importante Convegno su Chiovini tenutosi a Verbania il febbraio dello scorso anno (2004), rappresenta il passaggio non agevole e non lineare, nella sua lunga esperienza di scrittura, dal protagonista e testimone al ricercatore. L’uscita della quinta edizione (un evento del tutto raro per un testo locale e di storia) ci consente di ricostruirne il percorso di elaborazione ed editoriale.

La base di partenza è senz’altro costituita dalla collaborazione editoriale tra il ‘45 e il ’47 al settimanale Monte Marona con numerosi articoli e con il diario partigiano. Il tempo, quasi vent’anni, e alcune contingenze (l’invito di Paolo Pescetti a partecipare ad un concorso per uno scritto sulla Resistenza indetto nel 1964 dal “Calendario del Popolo” ed una convalescenza post-operatoria) danno vita a “Verbano, giugno ‘44” pubblicato nel 1966 a cura del Comitato Permanente Verbanese della Resistenza e del Comune di Verbania. Non più diario diretto (all’eccidio di Fondotoce nel diario del 1945-46 era dedicata una sola riga), ma ricostruzione storica: cronaca il più possibile oggettiva “di una sconfitta” e lettura politica del “conflitto interno” fra “forze progressive e democratiche … ed attendismo”. L’ambito è quello del rastrellamento di giugno e degli eccidi che l’hanno concluso.

Otto anni dopo, complice la cassa integrazione, il testo originario viene rivisto ed ampliato, in particolare per quanto riguarda il rapporto fra popolazione e

Le precedenti copertine (da NRU)

resistenza e l’assetto delle forze politiche antifasciste e del CLN a Verbania; viene aggiunta una seconda parte (Cronologia della resistenza nel Verbano) che, sia pur in forma sintetica ricostruisce l’intero percorso della Resistenza dalle prime formazioni intorno a Verbania, alla liberazione di Domodossola fino all’insurrezione di aprile; il testo viene infine arricchito ed integrato da un cospicuo apparato di note e precisi riferimenti bibliografici. Con il nuovo titolo I giorni della semina. 1943 – 1945 uscirà per il XXX anniversario dell’eccidio di Fondotoce edito dal Comitato per la Resistenza nel Verbano e con il patrocinio del Comune di Verbania.

Cinque anni dopo, nel 1979, la nuova edizione con l’editore Vangelista di Milano, riveduta da numerose rifiniture ed integrazioni che ne aumentano il rigore ma non ne modificano l’impianto complessivo. L’aspetto più importante dell’edizione del ’79 è dato, oltreché dalla pubblicazione presso un editore a distribuzione nazionale, dall’inizio di una collaborazione editoriale che negli anni successivi si rivelerà particolarmente feconda e che permetterà la pubblicazione delle opere storico-etnografiche su quella che Chiovini definiva la “Civiltà Rurale Montana”: dalle Cronache di terra lepontina dell’87 a A piedi nudi uscito postumo nel 1992. Nel 1995 I giorni della semina viene ristampato in una riedizione postuma identica alla precedente.

L’attuale nuova edizione, presso Tararà, nel testo uguale alle due precedenti, è arricchita dalla prefazione di Oscar Luigi Scalfaro, da una nota editoriale che ripercorre il percorso storico letterario di Nino e da fotografie dell’epoca provenienti dall’archivio dell’autore.

Un breve considerazione finale “di lettura”: I giorni della semina è un testo che, proprio per il suo rigore e l’assenza di altre opere storiche complessive sul Verbano durante la guerra di Liberazione, spesso viene più consultato che letto. Una lettura completa non è certo scorrevole, sia per l’impianto (il giugno ’44, poi il primo anno di guerra, poi Domodossola e gli ultimi mesi di guerra) che per l’evidente presenza di interventi e integrazioni successivi dell’autore che infine dalla probabile difficoltà di una narrazione storica “impersonale” di vicende vissute (e in buona parte già narrate) in prima persona. Eppure la lettura avvince per la ricchezza, per la completezza del quadro d’insieme entro cui avvenne il tragico rastrellamento del giugno ’44, per la capacità di far rivivere la pluralità di dettagli e l’alternarsi di punti di vista, non scontati e non agiografici, la testimonianza diretta del partigiano seguita dalla citazione di un documento ufficiale, la descrizione dei luoghi e dei percorsi delle formazioni amiche e nemiche, la popolazione civile, l’antifascismo in città, le figure indimenticabili di Cleonice Tomassetti e della “madre di Gianni” fucilate a Fondotoce e a Beura, ed infine, a chiudere, l’elenco asciutto ed eloquente, aggiornato di edizione in edizione, di nome, luogo e data di 285 caduti e dispersi.  [NRU, n.3, 2005]

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 Mario Bonfantini, Un salto nel buio, Interlinea, Novara 2005

Curioso d’uomini

La storia è drammatica, il libro no.

La vicenda autobiografica dell’antifascista socialista (in seguito assessore nel Governo dell’Ossola libera e, nel dopoguerra, noto critico letterario) che, prigioniero a Fossoli, riesce a fuggire dal carro piombato che dovrebbe deportarlo in Germania, viene narrata con una prosa semplice e dal sapore antico (lontanissima ad esempio da un Vittorini) cadenzata in due tempi nettamente distinti (scritti anche in periodi diversi) che ben si completano.

Il primo tempo ha un ritmo accelerato, alimentato dall’ansia (quasi un’ossessione) della fuga, un rincorrersi di intuizioni, progetti, piani di evasione che la realtà rapidamente costringe a rivedere. Primo tempo che si conclude appunto con il salto nel buio dal treno in corsa.

Nel secondo tempo il ritmo è quello della poesia, con le sua pause e i suoi rallentati incantamenti. L’incertezza della definitiva messa in salvo non produce una nuova ansia ma una specie di limbo sospeso tra la fuga riuscita e la libertà non ancora raggiunta.

Ciò che accomuna i due tempi sono da un lato l’ottimismo energico dell’autore-personaggio che comunque confida nelle possibilità degli eventi e nel sostegno altrui, e dall’altra (e questo è l’aspetto che più mi ha colpito) l’attenta descrizione (non esteriore ma dell’animo, del sentire, delle motivazioni dell’agire o del non agire) delle persone man mano incontrate. Con la differenza che nel primo tempo nell’affollamento del campo di Fossoli e della baracca prima, e del vagone piombato dopo, prevalgono le caratterizzazioni collettive: i prigionieri azionisti, socialisti, comunisti, gli ebrei, le SS che stipano questi ultimi col calcio dei moschetti “come se caricassero fieno, con una tale assenza d’ira, anzi meccanica indifferenza, che dava, assai più di quanto l’avrebbero fatto feroci imprecazioni o le percosse più furiose, il senso dell’assolutamente disumano, del demoniaco“. E sul treno l’aggregarsi in nuovi gruppi: i “notabili” dell’antifascismo che se ne stanno in disparte, il gruppo attivo (denominato ironicamente “del governo”) che intende prendere in mano la situazione, la maggioranza che lo appoggia e la minoranza “refrattaria”.

Nel secondo tempo invece incontri singoli, una sorta di catena umana che aiuta il fuggitivo, ognuno diversissimo e con diverse motivazioni e sentire. Il giovanissimo pastore Giovannino il cui aiuto è del tutto ovvio e spontaneo, i suoi famigliari ottusi e generosi al tempo stesso, il parroco socialisteggiante di Serravalle, quello ultraconservatore di Prada, i pastori dell’alpe, il possidente già fascista attento a fiutare i nuovi tempi, infine il montanaro sveglio ed intraprendente che, con il suo calesse, lo conduce nell’ultimo giorno di fuga sino alla villa di un conoscente sul lago di Garda.

Il tutto si snoda fra il 21 e il 29 giugno 1944: due giorni di deportazione e sette di fuga verso la libertà.

Sono gli stessi giorni in cui, dalle nostre parti, sta concludendosi il drammatico rastrellamento della Val Grande.

Questa edizione del 2005 contiene una rigorosa appendice di Roberto Cicala che ricostruisce il percorso di scrittura (tra il 1949 e il ’58) ed editoriale di quest’opera (pubblicata da Feltrinelli nell’ottobre 1959) e riporta ampi stralci delle principali recensioni critiche; quella di Montale, uscita sul Corriere della Sera la vigilia di natale del ’59, è riportata per intero quale prefazione.

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 Erminio Ferrari, La Liberazione. Cannobio, agosto-settembre 1944, Tararà, Verbania 2006

La Liberazione di Erminio Ferrari

Questo non è un libro di storia, semmai racconta una storia” dice l’autore. Storia personalmente rivissuta di quel figlio di sua nonna, di cui porta il nome, caduto nella difesa di Cannobio, e storia corale dalle molte voci (partigiani, civili, autorità dell’uno e dell’altro campo, documenti, risonanze giornalistiche al di qua e al di là del confine) della “Liberazione”.

Il 25 aprile 1945, il Cesarino salì in cima al campanile e vi piantò il tricolore”. Così l’incipit. Non di quella Liberazione “racconta” però il libro, ma di quella “minore”, esaltante e dolorosa, di Cannobio nel settembre 1944, degli eventi che ne diedero l’avvio (uno scontro a fuoco con tre morti tedeschi la sera del 26 agosto), della rappresaglia tedesca sulla popolazione, della azione partigiana su Cannobio con l’immediata resa tedesca e l’iniziale difesa fascista, la festa popolare ma anche i silenzi di chi si sentiva più dall’altra parte.

Una sola settimana di libertà, poi una massiccia controffensiva tedesca e fascista, dal lago, rioccupò Cannobio, quasi sguarnita, il 9 settembre, proprio mentre, al di là della Cannobina si stava per liberare Domodossola.

“… una storia. E nel raccontarla ne cerca il senso”. Gli ultimi sette capitoli ci portano alla riflessione d’oggi sul senso, sui valori e sugli errori, sulle successive rimozioni e reticenze, sul rapporto non facile fra Resistenza e popolazione e sul debito che oggi noi tutti abbiamo con combattenti e civili di allora: moralità della resistenza attiva e combattente e moralità della resistenza civile, quotidiana. Citando Todorov, dice l’autore, questi partigiani, al di là dell’efficacia immediata, “contribuiscono, con la loro azione, al formarsi dell’immagine che la collettività avrà di se stessa … essi agiscono dunque per il bene pubblico”. [NRU, n. 3, 2006]

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 Gianni Maierna, 14 giorni di agosto. Verbania 1944, Tararà, Verbania 2009

Uno sguardo scanzonato di adolescente

È sempre difficile commentare gli scritti di persone che si conoscono molto bene. E questo è il caso. Il diario di Gianni, scritto da adulto, ma riferito all’adolescenza, mantiene di quell’età lo spirito, come d’altronde Gianni fa spesso quando racconta la sua lotta di liberazione agli studenti in visita alla Casa della Resistenza.
Nella prefazione Paolo Bologna sottolinea il rigore descrittivo degli eventi, delle persone e dei luoghi in cui “si riconosce … l’esperto meccanico e disegnatore tecnico”. Paola Giacoletti, nella postfazione sottolinea la portata etica, la consapevolezza della superiorità morale rispetto ai fascisti e la diversità di periodo (l’agosto ’44 poco dopo il tragico rastrellamento della Valgrande) rispetto agli scritti dei gappisti Pesce e Secchia incentrati sulla fase finale della resistenza.
Al sottoscritto il racconto ha ricordato molto gli scritti di Guido Petter1 sulla resistenza: l’età dei giochi adolescenziali che si è trasformata senza soluzione di continuità in un gioco adulto, dove si rischia la vita propria, dei compagni e dei familiari. Ma mantenendo, anche nei momenti tragici (il pestaggio del padre a cui è costretto ad assistere), lo sguardo di chi è convinto non solo di essere dalla parte giusta, ma anche di avere maggiori risorse, la furbizia in primo luogo unita alla conoscenza piena dei luoghi e delle persone, da mettere in campo. E pertanto, un po’ di fortuna aiutando, di esser pronto a vincere la rivincita. Questo occhio di adolescente sveglio lo si ritrova pure dispiegato nel rapporto di rispetto ma anche di piena autonomia con gli adulti: il padre innanzitutto, la madre, i parenti adulti, i vicini di casa, il parroco, il responsabile del servizio informazioni, i capi partigiani ecc.
La differenza principale allora fra la narrazione del gappista Maierna e di quelli più noti sopra ricordati sta nella assoluta mancanza di enfasi eroica, nella capacità di vedere nei fascisti che si incontrano quotidianamente nelle caserme prima e per le vie di Intra dopo non solo ferocia, ideologia della morte ed arroganza di alcuni, ma anche miserie e stupidità di molti, nonché fragilità e paure di coloro che sono stati costretti controvoglia all’arruolamento e che percepiscono con ansia crescente l’ostilità silente della più parte della popolazione. Pur fermandosi la narrazione a quei giorni di agosto, l’esito del conflitto già allora appare pertanto scontato. [NRU, n. 4, 2009]

1 Ci chiamavano banditi; Una banda senza nome; Sempione ’45. Il salvataggio della galleria.

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 Cesare Bermani, “Filopanti”. Anarchico, ferroviere, comunista, partigiano, Odradek, Roma 2010

Filopanti, una figura dimenticata che rivive in un “documentario” scritto

Emilio Colombo “Filopanti”, è quello che si può definire “un personaggio” al di fuori degli schemi. Arriva alla Resistenza e, in particolare, ad esser membro della Giunta di Governo dell’Ossola libera, a 58 anni con un passato di militante sindacale e politico sia prima che durante il fascismo. Ferroviere con simpatie anarchiche e sorelliane, dal 1913 diventa figura di rilievo del sindacalismo rivoluzionario dell’USI per poi aderire nel luglio 1921 al neonato Partito Comunista. Sostenitore dell’azione di massa, non disdegna quella individuale come quando, durante gli scioperi del biennio rosso, capostazione a Cuzzago, ferma i treni e con la rivoltella fa scendere i macchinisti crumiri. Dopo l’ascesa del fascismo, cacciato dalle ferrovie ed arrestato per quattro mesi, si adattò ai lavori più diversi mettendo comunque sempre in primo piano la sua integrità rispetto a qualsiasi compromesso. Sostenitore del “libero amore” ebbe tre figli da un’unica donna, Adele, e visse come un trauma irreparabile il di lei abbandono. Episodio quest’ultimo che lo fece diventare anche un po’ misogino, ma non a tal punto da modificare l’affetto privilegiato (e ricambiato) con la figlia Eva. A Villadossola fu tra i promotori dell’insurrezione dell’8 novembre ’43. Nella giunta della “Repubblica” ossolana, quale Commissario per la Polizia e la Giustizia si fece portatore, anche in conflitto con Tibaldi, di una linea di intransigenza verso coloro che avevano sostenuto il fascismo.

In sostanza una personalità complessa, non facile da inquadrare. Dobbiamo a Bermani un ringraziamento per avercelo fatto rivivere con una particolare modalità di ricostruzione dove il lavoro dello storico non consiste nel raccontare o riscrivere, ma in una sorta di “montaggio documentaristico”. La figura di Filopanti emerge dalla sua stessa testimonianza orale inframmezzata e “montata” con testimonianze e documenti di varia natura: interviste, documenti partigiani, articoli giornalistici, relazioni di polizia ecc. Una personalità complessa che è così possibile osservare da variegati punti di vista. Colpisce tra l’altro come Emilio Colombo parli di “Filopanti” in terza persona: quello che probabilmente voleva essere un atteggiamento di umiltà rivoluzionaria lo fa invece risaltare nella sua forte caratteristica di personaggio atipico. [NRU, n. 4, 2010]

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