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Il diario partigiano di Nino Chiovini

18 settembre 2017

Quando sono iniziati i lavori di ampliamento dell’ala ovest della Casa della Resistenza per dar vita alla Biblioteca Aldo Aniasi (poi inaugurata nell’aprile 2007) tra il materiale che abbiamo dovuto spostare mi è capitato tra le mani una collezione quasi completa del giornale partigiano “Monte Marona”. L’occhio è andato quasi subito su Fuori legge???, il diario partigiano di Nino Chiovini pubblicato a puntate sul settimanale tra l’ottobre del 1945 e il luglio dell’anno successivo e firmato con l’acronimo enneci.

A una prima, veloce, lettura mi sono subito reso conto dell’importanza storica e letteraria di quel testo: una narrazione avvincente e una scrittura di notevole qualità. Mi sono chiesto – e ho poi chiesto alla famiglia – come mai non avesse deciso di pubblicarlo in volume; mi hanno detto che “Arca” Calzavara lo aveva invitato a farlo ma che “Peppo” non se la sentì.

Perché? Forse per il taglio più narrativo che “storico”, o per un qualche riserbo personale. Magari anche per l’emergere di una visione parzialmente critica (e autocritica) della attività della formazione della Giovine Italia che verrà esplicitata nello scritto inedito (pubblicato postumo nel 2014) della Piccola storia partigiana della banda di Pian Cavallone.

Letto tutto il diario e recuperato qualche numero che mancava, confortato anche dal parere di Mauro Begozzi e dal nulla osta della famiglia, ho ritenuto utile proporne la ripubblicazione avviandone, con l’aiuto dell’Istituto Storico della Resistenza di Novara, la trascrizione.   

      

È stato così pubblicato nel 2006 sul n. 4 dei Sentieri della Ricerca, la rivista curata da Angelo Del Boca, e per quella occasione ho scritto le note introduttive che riporto di seguito.

Il diario di Chiovini è stato poi ripubblicato in volume nel 2012 da Tararà insieme ad altri suoi scritti sulla resistenza (Fuori legge??? Dal diario partigiano alla ricerca storica) con una introduzione aggiornata e ampliata.

Il diario inizialmente era reperibile online sul sito del Centro Studi “Piero Ginocchi” di Crodo, editore della rivista; attualmente è reperibile sul sito escursionistico in ValGrande a questo indirizzo.

Fuori Legge??? ” di  Nino Chiovini. Note su un diario partigiano

di Gianmaria Ottolini

Monte Marona

I primi contributi di Chiovini compaiono nell’immediato dopoguerra sul settimanale Monte Marona[i]. Questa testata partigiana era stata preceduta da tre numeri del foglio ciclostilato Valgrande Martire comparso, a partire dal 21 aprile del 1945, quale portavoce dell’omonima formazione garibaldina. Dal 5 maggio, per iniziativa di Armando Calzavara (Arca), in qualità di comandante della Divisione Mario Flaim che dal marzo ’45 raggruppava unitariamente tutte le formazioni del Verbano[ii], il n. 4 del settimanale esce a stampa con la nuova testata (quattro pagine fitte in formato ‘quotidiano’) quale organo ufficiale appunto della Divisione Mario Flaim e prosegue in questa veste sino alla fine di giugno.

Finito il periodo ‘insurrezionale’, con la smobilitazione, il giornale interrompe le pubblicazioni per riprenderle il 6 ottobre del ’45 (anno I – n. 15) quale Settimanale dell’A.N.P.I. del Verbano – Cusio – Ossola. Arca ne è sempre l’animatore, oltreché ufficialmente il direttore responsabile; le tematiche locali di tipo sociale e politico si affiancano a quelle partigiane e l’orientamento è abbastanza esplicitamente vicino a quello dei partiti di sinistra.

Questo provoca alcuni malumori di cui si fa portavoce Enzo Plazzotta (Selva)[iii] che, da Genova, manda due lettere ad Arca rivendicando, a nome dello spirito libertario e pluralistico della Cesare Battisti, un giornale meno localistico, più battagliero, meno allineato e più libero, denso di “polemica morale” nonché maggiormente attento alla qualità di scrittura[iv]. Nella seconda lettera, del 15 novembre, Selva, indica quale riferimento, con le dovute differenze di mezzi disponibili, Il Politecnico di Vittorini ed invita Arcaa prendere le redini della dissidenza in seno al giornale” contro le “limitazioni della mentalità di partito e di P.C. in particolare” ponendo un aut aut:

“o Monte Marona giornale di sinistra (e in questo caso io dico arrivato, che può anche facilmente tramutarsi in finito) oppure Monte Marona giornale di giovani liberi … una onesta anarchia giornalistica.”

Questo è il problema e bisogna “decidersi a decidere[v].

Il dilemma è chiaro e il giornale, contrariamente agli auspici di Plazzotta, si orienta più chiaramente verso la prima strada, come viene implicitamente preannunciato nel n. 27 del 29 dicembre annunciando l’integrazione della testata Monte Marona con il titolo “il progresso[vi]; la scelta è evidentemente condivisa da Arca che pur apprezzava le osservazioni e i suggerimenti di Selva sulla qualità del giornale. Così avvenne infatti, dal n 28 del 5 gennaio, con il nuovo titolo sovraimpresso su quello precedente e, a fianco della nuova testata, la dicitura esplicativa:

“Quelli della Marona, i nostri morti, appartengono a quel numero di uomini coscienti di usare la propria vita per il progresso sociale”

Le pubblicazioni terminano con il n. 66 dell’inizio dell’ottobre ‘46: con l’allontanarsi di Calzavara dal territorio del Verbano[vii] evidentemente venne a mancare il centro propulsore dell’iniziativa editoriale.

I primi due contributi di Chiovini, a firma Peppo, compaiono sul n. 7 e sul n. 9 (23 maggio e 7 giugno ’45); sono entrambi[viii] articoli di riflessione politica contro il qualunquismo di chi considera i partiti tutti ugualmente corrotti, ma anche contro i numerosi nuovi iscritti che affollano le rinate formazioni politiche non per scelta morale, ma per carrierismo.

Il successivo articolo, sempre a firma Peppo, compare il 21 giugno ed è dedicato al partigiano Pierino Agrati (Vola)[ix]; vi sono, evidentemente, riportati alcuni spezzoni del diario partigiano[x] datati tra l’agosto 1944 e il 25 febbraio 1945 ed incentrati sulla figura del commilitone caduto a Trarego. Il pezzo si conclude con una amara riflessione su un presente che non rende giustizia al sacrificio dei caduti e che chiama i compagni sopravvissuti a reagire.

 “Oggi sono stato al cimitero di S. Maurizio a ritrovarvi: te, Gino, Cesco, Lanzi, Victor. Sono sicuro che non siete contenti dei vostri compagni vivi poiché questa bella Italia per la quale siete caduti non vive, ma vegeta ed è fatta vegetare.

Tu, Vola, così intransigente, così uomo con i tuoi 25 anni al confronto dei nostri venti, così onesto, così coraggiosamente onesto, dillo ai tuoi compagni di gloria che noi vivi non siamo poi così colpevoli di questo stato di cose. Lo saremo se non reagiremo; aiutaci e illuminaci tu sulla vera strada da seguire.”[xi]

Probabilmente in questo passo conclusivo ritroviamo, anticipate da Chiovini, le motivazioni profonde che hanno spinto Arca e i suoi collaboratori a non accontentarsi di un Monte Marona commemorativo e di denuncia più morale che politica.

Fuori Legge ???

Il 6 ottobre ’45, quando Monte Marona, con il n. 15, riprende vita quale organo dell’ANPI del VCO, inizia anche la pubblicazione di Fuori Legge ??? che dalla terza puntata, sul n. 17, porta il sottotitolo di Diario di un partigiano nel Verbano. Il Diario nella prima puntata compare firmato con l’acronimo emmeci (più che un depistaggio sembrerebbe un refuso) e, dalla seconda, in modo più esplicito, con enneci. La pubblicazione proseguirà regolarmente tutte le settimane, con poche eccezioni perlopiù in connessione a numeri speciali dedicati a particolari ricorrenze (25 febbraio per Trarego, 25 aprile), per 36 puntate fino al n. 54 del 10 luglio del 1946 quando, nonostante la dicitura “continua”, del seguito non si ha più traccia.

L’arco temporale degli eventi narrati va dall’ottobre del ’43, con la costituzione dei primi informali gruppi partigiani nel retroterra collinare di Verbania, al febbraio del ’45 con le ultime azioni della Volante Cucciolo che precedono l’eccidio di Trarego. Non si tratta di una cronaca: l’andamento cronologico è infatti molto irregolare (solo in alcuni passaggi precisato nella data precisa, perlopiù viene indicato il mese) e alcuni salti temporali lasciano il lettore incerto sul succedersi degli eventi. È appunto un “diario” in cui si intrecciano la dimensione narrativa e quella interiore, riflessiva. Di qui un certo riserbo di Chiovini nella pubblicazione di cui, oltre all’acronimo della firma, fanno fede le presentazioni editoriali volute dall’autore, sia in quella originaria (L’autore dice che è necessario, se vogliamo pubblicarlo, premettere qualche parola di scusa), che nella riedizione parziale del 1989 su Resistenza unita:

“Nino Chiovini scrisse queste annotazioni … immediatamente dopo la Liberazione. Come avverte lo stesso autore, a distanza di quasi mezzo secolo il diario va letto come un documento manifestamente frutto di impressioni immediate, condizionate da accesi sentimenti, che risentono dell’atmosfera cruda e magica appena trascorsa.”[xii]

Con ogni probabilità il materiale originario di appunti e annotazioni era più ampio e non è stato interamente utilizzato per la stesura di Fuori Legge??? come fa fede, ad esempio, oltre all’anticipo dei pezzi su Vola, un lungo articolo pubblicato su Resistenza unita nell’ottobre del 1990[xiii]. Nel diario pubblicato si saltava infatti dal 3 settembre con la liberazione di Cannobio al 14 gennaio; della liberazione dell’Ossola e della successiva ritirata non si parlava se non per un breve cenno nel passo successivo dedicato alla “recluta” Lubatti (Cesco). Nell’articolo di cinquantaquattro anni dopo quel periodo, così come è stato vissuto dalla Volante Cucciolo, in occasione della liberazione ossolana ampliatasi in un “plotone esploratori”[xiv], viene raccontato dettagliatamente probabilmente sulla base del materiale del diario allora non utilizzato. Certo lo stile è più distaccato, ma alcune modalità, in particolare quella di centrare il racconto non tanto sulle vicende ma sui luoghi e sui personaggi, richiamano direttamente le modalità del diario. Perché non fu pubblicato allora? Forse perché del personaggio cardine di quelle pagine, il partigiano ucraino Wladimir[xv] aveva perso le tracce e non ne conosceva il destino[xvi], oppure per non esplicitare un giudizio critico[xvii] sulla esperienza ossolana?

Allo stesso modo la vicenda di Trarego, alle cui soglie si interrompe quanto abbiamo del diario, aveva già trovato una sua narrazione nel n. 34 di Monte Marona ad un anno dall’eccidio; lo scritto[xviii] era anonimo ma è evidente la mano di Chiovini, magari coadiuvato dall’altro sopravvissuto, Carlo Castiglioni (Carluccio). E soprattutto troverà una sua compiuta realizzazione nello struggente racconto La volpe, pubblicato postumo, ma la cui prima stesura è di poco successiva alla pubblicazione di Fuori legge???, come afferma nella nota che ne accompagnava il testo.

“Se ben ricordo, scrissi queste pagine … tra il 1948 e il 1950, quando avevo in mente ogni particolare della vicenda descritta. Le correzioni … sono del 19 settembre 1989. Si tratta di correzioni esclusivamente formali, tendenti a perseguire una relativa correttezza del testo, e per esigenze stilistiche.

Al contrario, mi pare giusto che la sostanza – con le sue sequenze, i ritmi, le osservazioni, i monologhi, i dialoghi – sia lasciata intatta, in quanto legata alle spinte emotive, al livello culturale, alla vita di quel tempo lontano.

Oggi non scriverei più quelle pagine. O le scriverei in modo alquanto diverso. Per questa ragione, insieme al desiderio di non partecipare dolorose vicende che mi concernono, finché vivrò mai renderò pubblico questo scritto. … Biganzolo, 20 settembre 1989.”[xix]

Un’ultima osservazione relativa al titolo del diario: una prima disattenta lettura potrebbe farcelo intendere come fuorilegge quale rivendicazione spavalda di una (giusta) rivolta e ribellione; ma le due parole separate e l’enfasi sui tre punti interrogativi[xx] mi sembrano orientare decisamente verso una domanda retorica con evidente risposta negativa: “siamo noi fuori dalla legge (morale e civile) o non piuttosto coloro che, in tempi tremendi di ribaltamento dei valori, hanno cercato di salvaguardarla?” A questo interrogativo il diario vuole dare una risposta.

La narrazione

Non è un romanzo questo, dice l’autore; eppure la freschezza e l’ironia della narrazione, grazie anche alla contiguità degli eventi, ci dà una sorta di ripresa in diretta con un alternarsi di sequenze dal ritmo irregolare, alcune più distaccate, altre con forte centramento soggettivo. I temi che si alternano sono quelli della la lotta per la sopravvivenza stessa della formazione (contro la fame, contro il freddo e la neve del primo inverno, il reperimento di armi che garantissero un minimo di operatività …), il contatto stretto con la natura dei luoghi e il variare delle stagioni (lo spettacolo della neve che tutto sommerge, il piacere del sole invernale, la sintonia, l’amore tra le foglie e i partigiani …), il succedersi degli scontri con il nemico che passano dalle scaramucce iniziali finalizzate al reperimento delle armi alla tragedia del rastrellamento di giugno dopo il quale tutto cambia, le necessità organizzative e di comando dei raggruppamenti.

Direi però che il cadenzarsi della narrazione non è dato tanto dalle vicende militari (che pur ci sono) né dalle fasi politico organizzative abbastanza travagliate delle formazioni, ma dalla successione dei luoghi di insediamento della banda; ad ogni località pare corrispondere una precisa fase di sviluppo dell’esperienza partigiana in una stretta sinbiosi fra il terreno che ospita, le stesse mura che accolgono e la vita interna, le relazioni umane, della formazione dove i tempi del riposo e dell’attesa (quelli stessi in cui Nino ha probabilmente incominciato a raccogliere i suoi appunti per il diario), sono centrali per il costituirsi dello spirito e della fisionomia della formazione; questi i luoghi che soprattutto mi sembrano cadenzare in fasi distinte il percorso narrativo:

  • le Alpi del Locchio, di Vel ed Aurelio, e in successione Steppio, Pechi, Pala che assumono nomi in codice (Pechino, Sciangai, Port Arthur) più per un gioco fantastico ed autoironico che per necessità di sicurezza: è la fase costitutiva di uomini ed armamenti, dove ci si incomincia a conoscere e a padronegggiare il territorio e ad impostare le scelte, individuali e collettive, nonché a saggiare le prime reazioni del nemico ;
  • l’albergo del Pian Cavallone, ospizio dei “soldati di un esercito di senza capi”: la fase eroico libertaria dove la prima generazione di partigiani ha “indurito i muscoli e ritrovato un senso della vita” preparando, tramite coloro che riusciranno a sopravvivere al grande rastrellamento, l’ossatura delle successive e più organizzate formazioni;
  • il primo Tiperary, dapprima una tenda poi un rustico nella zona di Ungiasca, più a ridosso a Verbania, dove il piccolo gruppo aggregato a Chiovini sperimenta le modalità di collegamento fra i diversi distaccamenti e di rapide azioni proprie di una “volante”;
  • i nascondigli che si succedono durante il rastrellamento di giugno (il bosco in cui si passa la notte puntando i piedi su di un albero, la casa della nonna a fianco della statale per Premeno, la portineria di una villa) quando si passa dall’amarezza dall’esser tagliati fuori dai combattimenti, alla progressiva consapevolezza delle dimensioni della tragedia che si sta realizzando e che segnerà una linea netta di demarcazione nella guerra: “In questi giorni impariamo che i nemici sono più delinquenti che imbecilli e tali li tratteremo”;
  • la Rocca, nel luglio ’44, un alpeggio dai prati scoscesi sopra Scareno dove “gli unici luoghi per sdraiarsi senza il timore di rotolare in valle sono i sentieri, e anche quelli sono scarsi ”: luogo e fase di raccolta e di riorganizzazione in cui convergono provenienze ed esperienze le più disparate: sopravvissuti al rastrellamento o provenienti dalla svizzera, militari e civili, italiani e stranieri (russi, ucraini ed anche un sudafricano), delle età e dei ceti più diversi disparati (“uomini e ragazzi, studenti, ladri, lavoratori”);
  • infine la casetta fra le pinete di Sasso Corbè, “il luogo più bello abitato dai partigiani ” – dice Chiovini – dove, nell’inverno del ‘44-’45, la costituita Volante Cucciolo, spostatasi sopra Premeno, si insedia: centro operativo e di riposo di un gruppo, di una squadra, affiatata e coesa di professionisti della guerra di movimento.

Le diverse fasi corrispondono anche a diversi rapporti con la popolazione locale; curiosità e sospetto da parte degli alpigiani che incontrano le prime bande in formazione; solidarietà e condivisione di momenti comuni di allegria con gli abitanti di Miazzina; l’aiuto silenzioso e solidale di alimenti, necessari a sopravvivere durante il rastrellamento, da parte della “buona gente del Verbano”; più difficile, almeno inizialmente, il rapporto con quelli di Premeno dove:

“La gente ci guarda di traverso, sospettosa, paurosa. Ci chiana ‘fascisti rossi’ e teme che mettiamo a soqquadro il paese.

In questi giorni parecchi si sono già ricreduti. Si attendevano di vederci girare per il paese con lo sguardo fiero, l’arma imbracciata senza sicura. Invece si sono accorti che camminiamo come loro e non chiediamo i documenti alla gente.”

In controcanto ai luoghi di insediamento la trama narrativa fa emergere in successione alcuni personaggi intorno a cui si dipanano gli eventi: Marco[xxi] con cui, anche se della formazione “concorrente” della Cesare Battisti, c’è sin dall’inizio un profondo legame di stima e collaborazione e, in più occasioni, di sfottò reciproco; Tucci[xxii] che pur avendo un solo anno in meno “è ancora un bambino” e con cui Peppo stringe un legame profondo, da fratello maggiore, vivendo fianco a fianco molte delle vicissitudini; Guido il Monco[xxiii] operaio comunista che lo sostituirà al comando della Giovane Italia e che Chiovini rispetta ma con cui non riesce ad entrare in sintonia; Arca, il comandante della Battisti, che Chiovini apprezza sia per il modo di concepire la guerra partigiana che per le modalità, per nulla da ufficiale, con cui si rapporta ai suoi partigiani; Bagat[xxiv] già alpino decorato, esperto di armi, dalle decisioni fulminee, autista che “arrostisce” i motori e “che dice di essere salito perché non vuole andare in guerra”; Vola puntiglioso e caparbio, che, sia pur arrivato come recluta addetta ai lavori pesanti, si dimostra come il più maturo fra i partigiani della Volante Cucciolo; Cesco[xxv] che “con il viso infantile, le efelidi sulle guance … e la voce lenta strascicata” ha l’aria spavalda di chi ha già un curricolo partigiano di tutto rispetto e non vuol certo lasciarsi trattare da recluta. E, naturalmente, altri ancora.

Il diario

Un diario “frutto di impressioni immediate, condizionate da accesi sentimenti” dirà Chiovini; certo, in alcuni passaggi anche questo[xxvi], ma a me pare che la dimensione diaristica più evidente sia altra, di riflessione e dialogo interiore che emerge quando, tra un momento narrativo e l’altro, magari a ridosso di un combattimento o di un momento scherzoso di svago, la sequenza si interrompe di colpo per lasciar spazio a domande ed a considerazioni più profonde, esistenziali e morali prima ancora che politiche.

In alcuni casi la dimensione è corale laddove Peppo dà voce, magari per interposta persona, ai sentimenti collettivi come quando dalle lacrime di Nord di fronte al rogo dell’Albergo del Pian Cavallone, emerge un “Addio” collettivo di rimpianto non rassegnato, oppure quando le molteplici personalità e le disparate motivazioni dei sopravvissuti al rastrellamento, concentratisi alla Rocca, si fondono in una volontà comune di ricostituzione.

Ma sono soprattutto le domande, le considerazioni personali, talvolta i dubbi quelli che emergono.

Le responsabilità che chi comanda porta nei confronti del suo gruppo di uomini, di come mantenerlo coeso, di come anche un legame di amicizia privilegiato, quello con Tucci, possa incrinare il rapporto di fiducia con gli altri; di come fare in modo che un gruppo solidale e coeso sia anche aperto e franco nello scambiarsi le reciproche opinioni, valutazioni e desideri. Quanto vi deve essere di discussione democratica e di condivisione degli ordini senza che questo degeneri in individualismo. E soprattutto il carico di responsabilità di chi porta altri a rischiare la vita e deve, di volta in volta, individuare il giusto discrimine fra avventatezza ed attendismo.

Chi siamo noi e chi sono loro. Solo la consapevolezza continua della differenza radicale con il nemico può impedire che la logica della guerra ci renda uguali. Loro bruciano le baite e noi siamo aiutati dalla popolazione; loro se la prendono con chi non c’entra, paesani o famigliari; loro fanno scempio dei cadaveri. La loro è una logica di morte, i loro corpi sono diventati un’appendice delle loro armi. La nostra è una logica di vita. Non solo nel combattimento ma nei comportamenti quotidiani, nel modo di camminare fra la gente, nel cantare. Il tema della radicale differenza fra i canti partigiani e quelli fascisti torna più volte; i loro non sono “i nostri canti popolari nostalgici e solenni, non sono le canzonette allegre e melanconiche” ma “canti freddi, duri, scanditi”; loro “cantano perché odiano” e, mentre con il passare dei mesi le canzoni partigiane diventano sempre più canzoni di speranza, le loro si incupiscono, piene di disprezzo, di rancore e di animosità.

Ma la domanda centrale e ricorrente è soprattutto una: come far guerra in odio alla guerra, senza lasciarsi plasmare dalla logica e dalla cultura del combattimento. Perché “la guerra perde soltanto di fronte a chi la odia”. A Chiovini non basta la certezza di essere dalla parte giusta; è consapevole della “sottile linea rossa”[xxvii] che passa tra l’essere nella guerra e l’essere in guerra. Non basta aver scelto di esser dalla parte giusta del fronte ed interrogarsi sulle ragioni profonde della propria scelta; l’interrogativo va riposto quotidianamente sul qui ed ora individuando il limite che questa scelta pone fra azioni legittime e azioni giuste, con momenti anche forti di autocritica quando ci si accorge che lo spirito di battaglia ha preso il sopravvento. Limite che non solo la giusta avversione per i nazifascisti può spingerci a superare (“So che questa non è la parte migliore dei sentimenti di un partigiano”) ma anche la “foga”, un eccesso di “senso sportivo” (“mi accorgo che per molti mesi, sparare era il mio sport preferito”) che può “soffocare la razionalità”.

Oggi, quando in nome della “esportazione della democrazia” e della “lotta al terrorismo” si giustificano massicci bombardamenti a città e qualsiasi “effetto collaterale” sulle popolazioni civili è considerato un legittimo inconveniente, possiamo leggere che, nel cuore della seconda guerra mondiale, la più sanguinosa della storia dell’umanità, un partigiano, Peppo, a ridosso di un combattimento contro il moloch nazifascista, si interroga se non fosse stato più giusto sparare due colpi invece di tre, pur se “costretti a fare la guerra contro quelli che fanno la guerra”.

Il partigiano “Peppo”

Se provassimo a chiedere ad un cittadino o a uno studente di Verbania di citare il nome di un partigiano della zona, senz’altro la maggior parte farebbe il nome di Nino Chiovini[xxviii]. Eppure nulla, che io sappia, è stato mai scritto di specifico su Chiovini partigiano. Anche nel convegno a lui dedicato[xxix] questa dimensione è rimasta assente. Il perché è evidente: Nino nei suoi libri, anche quelli dedicati alla Resistenza, non parla praticamente mai di sé e del diario partigiano si era persa di fatto memoria.

La lettura oggi del suo diario ci permette di aprire un capitolo che andrà senz’altro ripreso ed approfondito.

La scelta di campo, dopo l’8 settembre è chiara e decisa; Peppo è tra i primi a “salire in montagna” nell’area del Verbano. Porta con sé, oltre al deciso antifascismo, precedentemente maturato a Cuggiono[xxx], un carattere deciso e determinato unito ad una passione sportiva per l’escursionismo montano e la roccia: una miscela che, unita alla conoscenza del territorio, ne fa in modo del tutto naturale il comandante della costituenda Giovane Italia. Siamo nella fase eroica e libertaria di “un esercito senza capo, senza Stato Maggiore, senza artiglierie, senza direttive, spesso senza pane, senza armi”. Accetta il ruolo che gli viene democraticamente assegnato tramite elezioni, ma non è certo quella la sua aspirazione. E di buon grado si ritrae quando altri saranno indicati al suo posto.

Si rende conto delle necessità organizzative e militari della Resistenza ma, fedele allo spirito di ribellione, fa fatica ad accettare le modalità d’essere di buona parte dei comandanti delle formazioni. Quelli di provenienza militare che riportano lo spirito di superiorità di “Ufficiali del Regno” nei confronti “delle truppe”, si fanno chiamare “signor tenente” e, anche quando il cibo praticamente manca, ci tengono a dar vita alla “mensa ufficiali”. Quelli di provenienza e fede comunista, che Chiovini rispetta, ma per i quali la principale, se non unica virtù, sembra essere l’indiscussa obbedienza ai propri capi politici.

Se non un libertario, Peppo è e rimane uno spirito indipendente. Vuol capire e discutere le scelte e, se prevale il dissenso, preferisce andarsene per conto suo, con il suo piccolo gruppo[xxxi]. Non rifiuta la gerarchia di comando, ma, ponderatamente, preferisce scegliersi i propri superiori. E quando, alla fine del rastrellamento, la sua formazione della Giovane Italia, fondendosi con il gruppo di Muneghina, prende un orientamento con cui non si sente più in sintonia, preferisce passare alla Cesare Battisti di Arca.

È lui stesso, spontaneamente, un capo ma la sua dimensione è quella della squadra, di un piccolo gruppo preparato e coeso, della “volante” che si muove velocemente su tutto il territorio, all’interno della quale non solo “ci si capisce al volo” ma dove “tutti si vogliono bene. Bene sul serio. E dormono uno accanto all’altro”. Compito del capo è allora anche la massima attenzione alle relazioni interne, a prevenire dissapori e tensioni. Pur di salvaguardare questa sintonia è disposto, sia pur a malincuore, a rinunciare al contributo di un partigiano esperto e valoroso come Bagat che lui stesso aveva cercato ed “arruolato”. Allo stesso modo quando intuisce che un partigiano ha le qualità personali, oltreché professionali, per entrare a far parte del proprio gruppo, si dà subito da fare, magari con carte false, per farlo trasferire. La prima volante, alloggiata in tenda, collegata alla Banda del Pian Cavallone, la Volante Cucciolo dopo il rastrellamento, il Plotone Esploratori durante la Repubblica dell’Ossola, la Volante Martiri di Trarego dopo l’eccidio del 25 febbraio: questa è la modalità di guerra partigiana che Chiovini concepisce e mette in pratica.

Non è solo questione di modalità di comando e di modo di concepire l’esser partigiano. La modalità della volante è innanzitutto una scelta politica. Peppo, ce lo dice esplicitamente, non è comunista, anche perché, afferma “Io non so che vuole il comunismo[xxxii] e le discussioni animate ed approssimative che sente al Pian Cavallone gli ricordano quando “anch’io a 15 anni discutevo di calcio e di squadre di calcio”: una questione di “tifo”. Ma ha ben chiara la linea di discrimine che passa attraverso la Resistenza: ci sono i “conservatori”, quelli che aspettano e vogliono presidiare il loro piccolo territorio, l’attendismo insomma che trova proseliti fra le fila partigiane e che spesso è sostenuto dall’esterno dai “comitati” (“gruppetti di individui, per la quasi totalità industriali, che ‘finanziariamente’ ci aiutavano”), e ci sono i partigiani, come Peppo e i suoi, che pensano che al nazifascismo non si debba dar tregua.

La volante è allora non solo un corpo coeso, ma un gruppo di professionisti dell’azione di movimento che ubbidisce con scrupolo alle missioni che le vengono affidate, e che, in mancanza di ordini, sa trovarsi da sola i propri obbiettivi. E quando in un momento di ozio, poco dopo il Natale 1944, Vola lo rimprovera: “Peppo, mi sembra che non hai più voglia di far niente” immediatamente la volante si rimette all’opera “e ricominciamo le nostre scorribande”. Anche l’accettazione di una forma benevola ed ironica di nonnismo fra reclute (“conigli”) ed anziani che impone corvée e lavori pesanti ai nuovi arrivati, ha una funzione precisa: i tempi di formazione e addestramento all’interno di un gruppo partigiano non possono che esser brevissimi, bisogna quanto prima esser pronti a qualsiasi evenienza. È bene, per le reclute e per la squadra, capire subito se qualcuno non è adatto a quella vita.

Infine, direi, un partigiano “critico”; dal diario non emerge in maniera esplicita, ma tra le righe si capisce che non sono pochi gli aspetti che Peppo, all’interno della Resistenza, non condivide, come possiamo trovare conferma nei suoi scritti successivi.

I condizionamenti dall’esterno delle scelte partigiane che talora si traducono in imposizioni dall’alto di comandanti inidonei o comunque non in sintonia con la “banda” che devono dirigere. L’applicazione meccanica della logica militare alle formazioni partigiane sia a livello organizzativo e relazionale che, e questo è l’aspetto più tragico, nella concezione della guerra partigiana quale “eroica difesa ad oltranza” delle proprie posizioni sul terreno.

Chiovini riconosce in pieno il valore, il rigore morale, lo spirito di sacrificio e l’eroismo del tenente Rolando e di Mario Flaim, come confermerà in più occasioni nei suoi scritti. La loro difesa ad oltranza del terreno fino al Pizzo Marona può essere anche giustificata dalla volontà di “proteggere la ritirata del Valdossola[xxxiii] ma la strategia complessiva durante il rastrellamento non è certo condivisa. Lo si legge fra le righe nel diario e se ne trova conferma in un passo di un’inedita Piccola Storia Partigiana della Banda di Pian Cavallone pubblicata parzialmente nel 1984, ma probabilmente scritta anni prima come revisione e approfondimento della prima parte del diario.

“Le scarse e imprecise notizie sul ‘Valdossola’ sono state portate dai feriti e dai loro accompagnatori in transito per luoghi più adatti, ancora euforici per la tenuta del primo giorno di combattimento. Ma non è soltanto la scarsità e l’imprecisione delle notizie che inducono Rolando a scegliere questa forsennata tattica difensiva, che neppure Superti pretendeva nelle sue indicazioni coordinatrici. Egli si rifà ai canoni della guerra d’Albania, combattuta dall’esercito italiano, fino all’epilogo, in difensiva, sulle montagne dell’Epiro e del Tomori. Naturalmente attribuisce decisiva importanza al terreno, alle possibilità di difesa sulle montagne; di casa, nella fattispecie. E Flaim che gli è accanto non batte ciglio, anzi approva. Fors’anche perché la scelta di Rolando offre quelle possibilità di espiazione e di riscatto dalle colpe altrui, da cui egli sembra attratto”.[xxxiv]

Ed infine, ma non ultima, la sottovalutazione del rapporto con la popolazione locale. Nel diario l’importanza di un rapporto di collaborazione, come abbiamo già sottolineato, è espressa prevalentemente in positivo. Del rapporto problematico, dopo il rastrellamento, della Giovane Italia – unitasi al gruppo del capitano Mario e localmente diretta dal Capitano Galli – con la popolazione di Miazzina, nel diario vi è solo un cenno un po’ forzosamente giustificatorio[xxxv] e in contrasto con quanto, del calore e della condivisione di quegli abitanti, era stato affermato relativamente al periodo precedente. La denuncia del tragico errore di impostazione di una logica di occupazione e vessazione sui residenti, con le sue conseguenze politiche, verrà invece espressa a chiare lettere in una lezione-conferenza del marzo 1983[xxxvi].

Indipendenza di giudizio e spirito critico che Chiovini continuerà ad esprimere quando della Resistenza del Verbano si farà attento e scrupoloso storico; si possono ricordare la rivalutazione di Dionigi Superti[xxxvii] colpito, dopo l’esperienza ossolana, dall’ostracismo e dalla condanna di fatto del CLN e la demitizzazione della figura di Cleonice Tomassetti[xxxviii], l’unica donna tra i fucilati di Fondotoce, che la vulgata partigiana aveva tramandato nello stereotipo di una maestra, moglie di un partigiano, in attesa di un figlio e operante come staffetta partigiana[xxxix]. Chiovini le restituisce la sua identità di popolana dallo spirito ribelle e determinato, non piegata dalle numerose sopraffazioni e sofferenze che la vita le ha dolorosamente consegnato.

Lo scrittore Nino Chiovini

Per chi conosce l’opera di Chiovini la lettura del Diario penso possa costituire, come lo è stato per me, una sorpresa. In genere si distinguono nettamente le opere sulla Resistenza da quelle etno-storiche, non solo per il tema e per la loro successione temporale, ma per una evidente maturazione stilistica dello scrittore che riesce progressivamente ad unire il rigore del ricercatore[xl] ad una crescente capacità narrativa. La lettura del diario, di un testo che pur nella sua incompiutezza, rivela una notevole capacità di scrittura densa di ironia e freschezza narrativa – aggiungendovi magari la rilettura del racconto La Volpe, postumo ma, come abbiamo visto, risalente alla fine degli anni ’40 – mi sembra rimescolare le carte. Penso sia del tutto lecito sostenere che Chiovini avesse già allora la dote dello scrittore, del narratore ed è semmai quella del ricercatore che, con gli anni, viene a maturare sotto la spinta di un preciso impegno etico, civile e politico.

L’impegno non solo a ricostruire con rigore gli eventi della sua terra, quelli a cui aveva partecipato e quelli che avevano segnato le generazioni che lo avevano preceduto, ma soprattutto a saldare un debito personale e collettivo insieme.

In quella terra del Verbano, la terra dei suoi avi, la secolare civiltà della fatica si incontrò con chi, per rifiuto e per scelta, è salito in montagna, spesso sapendo e capendo poco, soprattutto all’inizio, di quel mondo. Si creò allora una crescente convergenza, non priva di contraddizioni, tra i due mondi che Nino analizza con rigore nell’introduzione a Val Grande partigiana e dintorni e che titola significativamente Guerriglia nel mondo dei vinti[xli]. Ed è grazie a quella convergenza che poté arrivare

“il tanto sognato giorno della liberazione. E si tirano le somme: ci si accorge che quei due protagonisti hanno equamente diviso il peso della lotta. La popolazione montana, che ha pagato anche con il sangue, ha sopportato il maggior peso materiale, il peso di grosse distruzioni; i partigiani hanno contribuito in grande misura a riempire di nomi le lapidi che ricordano i caduti della guerra di liberazione.”[xlii]

Questa convergenza di intenti si ruppe nel dopoguerra e chi vinse allora non seppe (o non poté) saldare il debito con le popolazioni montane.

Se guardiamo allo sviluppo cronologico degli scritti di Chiovini[xliii] possiamo distinguere tre fasi:

  • gli scritti dell’immediato dopoguerra, basati sulla diretta esperienza (Diario, commemorazioni, racconto La volpe) caratterizzati da un forte centramento soggettivo e da una tensione emozionale che riesce comunque spesso a distanziarsi grazie ad una efficace espressività narrativa;
  • dopo una pausa quasi ventennale, se non di scrittura certo di pubblicazione, abbiamo gli scritti di ricerca sulla resistenza centrati non più sulla propria esperienza (che viene messa tra parentesi), ma su una rigorosa indagine (documenti e testimonianze) e dalla ricerca di un nuovo stile, non più letterario, ma rigoroso e concreto nello stesso tempo; rigorosa “cronaca di una sconfitta” e, soprattutto, ricostruzione del conflitto, interno alla Resistenza, fra le forze progressive e l’attendismo che a quella sconfitta ha contribuito[xliv];
  • infine la impegnativa ricerca delle ultime sue opere, sulla civiltà rurale montana dove al rigore della documentazione d’archivio e alla ricerca etnografica e linguistica (cultura materiale, terminologie, toponimi, fonti orali, iconografia ecc.) si aggiunge una personale letterarietà storico-narrativa emotivamente partecipe.

Rivedendo l’itinerario complessivo mi sembra allora di poter affermare l’unitarietà stilistica di Chiovini, sia pur all’interno di un percorso in cui le diverse modalità di utilizzo della scrittura vengono sperimentate, messe alla prova, per convergere, nelle ultime opere, in una loro completa e contemporanea utilizzazione.

E, ancor maggiormente, la unitarietà etico-politica di tutta la sua opera: Chiovini si è fatto portavoce di un doppio debito che tutti noi, abitanti vecchi e nuovi di queste terre, abbiamo ereditato:

  • debito verso i caduti della guerra partigiana, la semente di sangue che non abbiamo saputo far fruttificare in questa Italia “che vegeta”;
  • debito verso le popolazioni montane che affiancarono e sostennero le bande e ne mantennero viva memoria.

Scrive nell’introduzione di Mal di Valgrande:

“I contadini di montagna che ebbero rapporti con la Val Grande ne conservano una particolare memoria, da me valutata più profonda rispetto a quella di chi praticò altre aree montane per analoghe necessità. … Quella memoria poggia sugl’indimenticati ricordi delle tragiche vicende vissute nel corso degli ultimi due anni della seconda guerra mondiale, quando quelle persone, pagando un prezzo liberamente accettato, si schierarono, ognuna nella misura in cui le era possibile o le veniva richiesto, dalla parte di chi si stava battendo per la libertà e per la pace. Fu un’esperienza che si trasformò in patrimonio culturale che andò ad accrescere quello che faceva leva sugli ancestrali sentimenti di libertà e di autonomia e che, nel dopoguerra, trovò espressione sulle lapidi e nell’intitolazione di vie e piazze dei loro piccoli centri abitati.”[xlv]

Diversamente da altri cultori di storia locale Chiovini non è un cultore della nostalgia che, idealizzando il passato, ne ignora le sofferenze e pertanto il nostro debito. Il nostro mondo è uscito dalla fatica quotidiana della sopravvivenza. È indubbiamente meglio la pace odierna della guerra. Il mondo rurale montano dell’anteguerra – e ancor più negli anni di guerra – era “un mondo imperfetto e crudele”. La popolazione montana, allo stesso modo dei partigiani, aveva però chiari e “vivi gli obiettivi, gli scopi, il senso della vita, il suo fine”[xlvi].

Noi che viviamo nella pace, nella libertà, in una società che ha superato la lotta per la sussistenza, figli della società della complessità e dell’incertezza, spesso non sappiamo che senso dare al nostro futuro e alle fatiche, perlopiù immateriali, del nostro tempo (la noia, la confusione, la solitudine.)

La riscoperta del duplice debito ci può dare un senso ed una bussola. Questo mi sembra il messaggio unitario dell’intera opera di Nino Chiovini. Superando le delusioni e “valutando serenamente il mondo odierno”.

* * *

Quando Peppo chiese di poter aggregare Wladimir[xlvii] alla propria volante, Arca gli rispose “Non sa due parole di italiano, poi non lo conosci e non sai se vale”. Nonostante le vicissitudini già trascorse, il suo viso diciannovenne era “ridente come un cespo di primule”, pronto a vivere con entusiasmo e un po’ di incoscienza quei mesi dal luglio all’ottobre del ’44, ignaro delle delusioni che il rientro in patria gli avrebbe procurato.

Ogni anno, immancabilmente in occasione dell’8 maggio, Wladimir mi scrive esaltando la remota vittoria sul fascismo: un modo per sopravvivere alle delusioni. Regolarmente gli rispondo offrendogli banali notizie personali. Per pudore, per pigrizia mentale persino, per timore di essere frainteso in particolare.

Non perché sia troppo tardi e impossibile per la nostra generazione saper serenamente valutare il mondo odierno, sapendolo fare in relazione alle esperienze passate – quelle negative (che sono le più) soprattutto –  a cominciare dalla lontana lotta di liberazione, per concludere con i rapporti persona-persona e persone-natura, in cui s’annidano vecchi e nuovi fascismi.

E trarne le logiche conseguenze.[xlviii]

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Note

[i] La denominazione richiama la vetta dove il 17 giugno 1944 si svolse uno dei combattimenti più sanguinosi del rastrellamento della Valgrande e dove caddero numerosi partigiani tra cui i due comandanti Gaetano Garzoli e Mario Flaim. Gli originali del settimanale sono stati consultati presso l’archivio della Casa della Resistenza di Fondotoce e la Biblioteca Civica Ceretti di Verbania.

[ii]si addiviene … alla abrogazione della differenziazione di colore di tutte le formazioni … e alla costituzione della 1a Divisione Ossola ‘Mario Flaim’, al comando di ‘Arca’, con Commissario di guerra Mario (Muneghina).” in G. Biancardi (a cura), Diario storico 1a Divisione Ossola ‘Mario Flaim’, Comune di Verbania, 1995, p. 20.

[iii] Con Giuseppe Perozzi (Marco) è stato, sin dalla sua costituzione, a fianco di Arca nella direzione della Cesare Battisti. Plazzotta nel dopoguerra si affermerà come scultore.

[iv] Lettera dell’8 novembre ’45: “Io non credo che si educhi il popolo verbanese con … pezzi … che si ritrovano facilmente su qualsiasi giornaletto di provincia o di periferia cittadina. … Sarò un sognatore sterile forse, ma, credimi, come sarebbe bello un Monte Marona un po’ più bersaglieresco! … un giornale che scotti in mano, dove ci si butta dentro articoli incandescenti, scritti dopo una chiavata (o durante) o in barca, o anche in redazione, se si riesce a dimenticare che è tale. … Ma fatene magari due di pagine di cronaca, quella che interessa la popolazione locale … Ma le altre due pagine che siano dense … di Voi, del Vostro spirito, della vostra polemica (quella MORALE). Diventate un po’ predicatori e non conferenzieri!”.  E. Plazzotta ‘Selva’, Da Pinerolo al Verbano, Alberti, Verbania 1995, p. 81.

[v] Ivi, p. 85.

[vi]Una novità al prossimo numero!

Al titolo ‘Monte Marona’ sarà aggiunto il titolo ‘Il Progresso’ del Verbano – Cusio – Ossola.

Perché?Un giorno del Giugno 1944, una trentina di partigiani, al comando di Mario Flaim, combatté sul Monte Marona. Combatté per dar modo al grosso della formazione di potersi ritirare. Spararono sino alla fine e nessuno di loro tornò da quel combattimento a raccontare come era andata. Quegli uomini diedero un esempio di sacrificio e di altruismo: di onestà. E ‘Monte Marona’, ora, per noi significa onestà. Quei Caduti, tutti i ‘nostri Caduti’ hanno combattuto e sono morti per la libertà, per la giustizia, per un migliore ordine morale, sociale, economico, e ciò significa combattere e morire per il progresso dell’umanità e per l’onestà del mondo. Progresso e onestà sono senso della vita. Per questo uniamo le due parole: Monte Marona e Progresso”.

[vii] Cfr. G. Biancardi – G. Margarini, Armando Calzavara ‘Arca’, Alberti, Verbania 2001, pp. 10 –13.

[viii] Io di politica non me ne voglio interessare sul n. 7 e … e tu a che partito sei iscritto? sul n. 9.

[ix] Vola sul n. 12 del 21 giugno.

[x] I brani non compaiono nella successiva pubblicazione di Fuori Legge ??? ma ne facevano a tutta evidenza parte. Li ho pertanto inseriti nella trascrizione del diario, differenziandoli graficamente.

[xi] Vola cit.; Gino (Luigi Leschiera) e Cesco (Gastone Lubatti) con Vola sono caduti a Trarego il 25.02.45; Lanzi (Luigi Trelanzi) e Victor (Selepukin) a Colle il 23.07.1944; sono sepolti fianco a fianco nel cimitero di S. Maurizio di Ghiffa.

[xii] “Fuori Legge”. Diario di un partigiano del Verbano (da Monte Marona), in Resistenza unita n. 6, giugno 1989, Novara, inserto “Verbano 1944 – 1989”.

[xiii] Impressioni e ricordi. Da Cannobio a Domodossola in Resistenza Unita n. 10, ottobre 1990, Novara.

[xiv] “A Finero – assurto a centro di retrovia – l’incarico avuto fu quello di costituire un plotone esploratori da impiegare nella zona di Ghiffa e Verbania”. Ibidem

[xv] “Da alcuni mesi Wladimir stava con me. I suoi arti erano coperti di piaghe, effetto di una piodermite contratta in miniera. Ingenuo, scansafatiche, d’incrollabile fede staliniana, temerario, si era assunto il compito non richiesto di mia guardia del corpo”. Ibidem

[xvi] Chiovini ne avrà notizia solo 12 anni dopo: “al suo rientro in patria fu inviato in campo di concentramento, più tardi processato per essersi lasciato catturare dal nemico, inviato in campo di lavoro, infine costretto a farsi altri tra anni di Armata rossa. Non gli era servito neppure il certificato rilasciato da Arca su carta intestata della brigata ch’egli, dopo essere evaso dalla prigionia, aveva combattuto con efficacia nelle nostre file.” Ibibem.

[xvii] Giudizio, che pur se su aspetti limitati, esprimerà nel 1974 in una lettera: Nino Chiovini sulle trattative e sulla liberazione dell’Ossola, Resistenza Unita n. 3, marzo 1974, Novara.

[xviii] 25 Febbraio. Volante ‘Cucciolo’ a Trarego. Abbiamo riprodotto il testo, che ci sembra idealmente completare il diario, come appendice a Fuori Legge ???

[xix] Verbanus n. 18, Verbania 1997, p. 354.

[xx] Dalla quattordicesima puntata (Monte Marona n. 28 del 5 gennaio 1946) i tre punti interrogativi si riducono ad uno solo, forse a seguito di una critica di Selva: “Quei tre ??? che cazzo significano dietro il titolo delle puntate di Peppo? E sono anche brutti tra l’altro. Già, io, il solito esteta fissato!” (Da Pinerolo ecc. cit., p. 82). Mi è sembrato più aderente allo spirito originario mantenere, nella trascrizione e ripubblicazione del diario, i tre, magari brutti, ma certo più espliciti punti interrogativi.

[xxi] Giuseppe Perozzi: cfr. nota 3.

[xxii] Piero Tamburini

[xxiii] Alfredo Labadini; cfr. nota biografica di Chiovini.

[xxiv] Giuseppe Bosco; un suo profilo in E. Trincheri “Marco”, Partigiani raccontano. Liberazione della Valle Cannobina, Cannobio, Cannero e Oggebbio, Verbania 2000, pp. 63-64.

[xxv] Gastone Lubatti; cfr. nota 11.

[xxvi] Ad esempio l’ira di quando viene a sapere che suo padre è stato arrestato e tradotto a S. Vittore “perché due figli di mio padre sono partigiani”. L’altro figlio partigiano è Antonietta (Diciassette) citata nel diario quando, il 20 giugno, nel corso del rastrellamento, accompagna delle reclute.

[xxvii] Il riferimento è al bellissimo film del filosofo regista Terrence Malik (USA, 1998). Se nel romanzo di J. Jones, richiamando un verso di Kipling, la sottile linea rossa era quella “tra la lucidità e la follia”, in Malik assume dimensioni universali, tra la vita e la morte, tra la vitalità della natura e le forze distruttrici, in sostanza fra il bene e il male; tale linea passa dentro ciascuno di noi che, specie in situazioni di guerra, rischiamo di perderne il confine.

[xxviii] Alla sua notorietà, oltre la sua attività di ricercatore e scrittore (cfr. sotto), ha senz’altro contribuito anche il Sentiero Chiovini, il lungo e impegnativo trekking della memoria che, dalla Svizzera a Fondotoce, ripercorre la tragedia della Valgrande e che nel 2006 è giunto alla sua ottava edizione.

[xxix] Nino Chiovini. Il tempo, lo spazio e la memoria, Verbania, 14 febbraio 2004.

[xxx] Cfr. nota biografica.

[xxxi] “marzo 19441. Arriva, inviato da Comitato di Agitazione di Varese, il maggiore Biancardi. Costui è un uomo paurosissimo che non ci faceva concludere nulla di buono e quindi noi vedemmo volentieri quel giorno che se ne andò senza fare ritorno. Era allora comandante ‘Peppo’ (Chiovini Giovanni) che non volendo restare in alto, pensò bene di fuggire di notte con altri due uomini per formare una volante che, alloggiata in tenda, si spostasse velocemente facendo azioni tempestive, restando sempre però agli ordini della banda”. Diario storico cit., p. 146. Cfr. anche nota biografica.

[xxxii] La cosa era del tutto naturale, sia nei piccoli centri che nelle città, per un giovane nato agli inizi degli anni ’20. Cfr. ad esempio i primi capitoli della bella autobiografia di Rossana Rossanda (La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005).

[xxxiii] I giorni della semina, 5a ed., Verbania 2005, p. 80.

[xxxiv] Mario Flaim: sulle montagne del Verbano un testimone della fede e della libertà in Il Verbano, 9.06.1984. Nei passi precedenti vengono presentati il Tenente Rolando (Gaetano Garzoli), nato nel 1915 ad Arizzano, nell’entroterra di Verbania, e, soprattutto, Mario Flaim, originario di Rovereto, figura di cattolico ispirato e intransigente in cui “alligna un cocente desiderio di espiazione”.

[xxxv] Cfr. l’inizio della puntata n. 28.

[xxxvi]Sono da addebitare a Galli il suo atteggiamento inadeguato e talvolta vessatorio nei riguardi della popolazione di Miazzina e di altri villaggi” e “A meno di un anno dalla liberazione, in occasione delle prime elezioni amministrative … a Miazzina il 34% degli elettori non vota, non ne sente l’esigenza … a Miazzina. Tre mesi più tardi, in occasione … del referendum istituzionale del 1946 … a Miazzina vince la monarchia con il 52%.” in Il Verbano tra fascismo antifascismo e resistenza, Verbania, 1983, pp. 16 e 18-19. Sulla figura di Galli (Mario di Lella), cfr. anche I giorni della semina cit., p. 115.

[xxxvii]Cfr. Val Grande partigiana e dintorni. 4 storie di protagonisti, Verbania 1980, pp. 50 – 73 e Ricordo di Dionigi Superti. Un partigiano vero e saggio in Resistenza Unita n. 3, marzo 1988, Novara.

[xxxviii] Cfr. Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte, Verbania 1981.

[xxxix]Prendiamo atto, a seguito delle testimonianze riportate, che Nice non era un’insegnante, che non attendeva un figlio, che non era una staffetta partigiana. Aveva frequentato soltanto le classi elementari di una scuola di paese; in quel momento non c’era nessun uomo nella sua vita; soltanto a una settimana prima della sua morte risaliva il suo ingresso nella resistenza militante. È bene fare giustizia delle inesattezza a suo tempo dette e scritte su di lei; nella sua vera identità, Nice diventa più comprensibile, persino più apprezzabile”, ivi p. 57. L’immagine stereotipata era stata riportata, in buona fede, in P. Secchia – C. moscatelli, Il monte Rosa è sceso a Milano, Einaudi, Milano 1958, p. 253.

[xl] Su quest’aspetto segnalo l’importante contributo di Antonio Biganzoli (Chiovini – La ricerca) al Convegno citato (cfr. nota 29) che da un lato sottolinea il rigore di un metodo che percorre precise fasi di indagine e di documentazione e dall’altro una modalità di scrittura che ne fa “uno scrittore-saggista di qualità” per il suo “modo di intercalare la narrazione: citazioni da fonti storiche, tabelle di dati demografici o di carattere economico, glossari di termini dialettali, così da fare delle sue opere una ragionata miscela di narrativa e di saggistica ed imporre così al testo il distacco della trattazione storica, ma, contemporaneamente, il ‘pathos’ della partecipazione umana”. Non condivido però la tesi di Biganzoli secondo cui per Chiovini la Resistenza costituirebbe solo “un episodio” della storia complessiva, ben più importante, del territorio.

[xli] Val Grande partigiana ecc., cit., pp. 9 – 29.

[xlii] Ivi, p. 20.

[xliii] Cfr. la Bibliografia provvisoria degli scritti.

[xliv] Cfr. I giorni della semina cit., pp. 19 – 21.

[xlv] Mal di Valgrande, Vangelista, Milano 1991, pp. 8 – 9.

[xlvi] A piedi nudi. Una storia di Vallintrasca, Vangelista, Milano 1988, p. 186.

[xlvii] Cfr. note 15 e 16.

[xlviii] Impressioni e ricordi. Da Cannobio a Domodossola, cit.

 

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