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Le divagazioni letterarie di Rino Romano

8 Maggio 2017

Ho avuto il privilegio di leggere “Divagazioni poetico-forestali” [1], l’ultima opera pubblicata dall’amico Rino Romano, prima della sua presentazione pubblica a Villa Giulia in occasione dell’ultima edizione di Editoria e Giardini e riporto qui alcune delle note che mi sono preparato per la sua più recente presentazione alla Fabbrica di Carta di Villadossola.

Il titolo e il sottotitolo (Piccola antologia ragionata di poesia vegetale) sono espliciti in merito al tema (il mondo vegetale) e alla modalità: il genere letterario di una antologia poetica, appunto. Ma il quesito che mi son posto è: che rapporti vi sono, quali fili uniscono, questa ultima pubblicazione con le due precedenti? A prima vista nulla, parrebbe.

 

Il passaggio, edito nel 2011 da Sedizioni, era costituito da 19 “racconti siciliani”, incentrati sulla figura di don Nenè, disposti in una successione non cronologica ma “ad incastro” dando vita ad un insieme di relazioni familiari inserite in un contesto locale ben definito caratterizzato non solo dal tradizionalismo (l’innovazione meccanica nel tessuto agricolo) e non solo e non più di tanto mafioso; contesto richiamato linguisticamente da una parlata regionale significativamente italianizzata dove il richiamo indiretto al dialetto era più che altro presente in alcuni passaggi di discorso diretto.

L’opera successiva (La ruota, Sedizioni, Verbania 2013) si presentava come un romanzo incentrato su di una sorta di saga familiare a ritroso, alla ricerca di un segreto per generazioni celato. Si intuiva di essere ancora in Sicilia ma sia la vicenda che la lingua non presentavano più espliciti riferimenti regionali: vi dominavano conflitti generazionali e sociali, passioni forti e riflessioni sulla vita e sulla morte assolutamente universali.

Proprio la esplicita differenza sia di genere che tematica mi ha incuriosito: ci sarà un filo comune fra le tre opere, temi e assonanze al di là delle differenze tematiche e di genere letterario?

Mi sono preso allora un piacere: quello della rilettura. Piacere che raramente mi concedo, soprattutto a non lunga distanza dalla prima, per ovvi motivi: il tempo a disposizione per tutto quello che si desidererebbe leggere è assolutamente troppo limitato.

Una rilettura non per dar vita ad ulteriori presentazioni; entrambe le opere hanno già avuto illustri recensioni reperibili online: quella di Pier Angelo Garella (Il passaggio) [2] e di Claudio Zanotti (La Ruota). Una rilettura invece per ricostruire, con il senno del poi, anticipazioni non evidenti.

Mi sembra di averne colte almeno tre: la poesia, la natura e l’eros.

Il tema della poesia è richiamato in modo esplicito dall’ultimo dei racconti de Il passaggio [3]. Angelina, la moglie di don Nenè sta facendo ripetere al piccolo figliolo Giuseppe una poetica ninna nanna che il nonno aveva scritto per i nipoti. La sorella maggiore Rosa, ginnasiale, sta ripassando, in vista dell’interrogazione, San Martino di Carducci e le si ravviva un ricordo.

“Cinque anni prima, il nonno materno, il maestro Di Maria, le aveva impartito alcune lezioni private per aiutarla ad affrontare gli esami di ammissione al ginnasio. Avevano, tra le altre, studiato proprio quella poesia e il Nonno gliel’aveva spiegata in un certo modo.

Praticamente le aveva fatto vedere che il terzo verso della prima strofa si può leggere in maniera completamente diverse da come fanno tutti, in tutte le scuole d’Italia.

“Tu immagina…” le aveva detto il vecchio maestro, tutto concentrato “tu immagina un panorama. Chiudi gli occhi e guardalo, come un quadro.” e lei aveva chiuso li occhi “Adesso seguimi: in alto ci sono delle colline e poi una nebbiolina autunnale che sale e lentamente le copre… le cime irte, appuntite, restano visibili;” quindi recitò

La nebbia agl’irti colli piovigginando sale.

Face una breve pause e poi continuò “Ora guarda in basso: sotto… sotto, lì c’è il mare che spumeggia sbattendo sugli scogli, e il rumore… il rumore del vento, il maestrale che urla: uuuhhh… uuuhhh!”.

E qui riprese a recitare:

E sotto…” face un’altra pausa, cambiò tono e aggiunse:

il maestrale urla e biancheggia il mar”.

Rosa aprì gli occhi.

“L’hai visto?” aveva chiesto il nonno “L’hai visto il sopra e il sotto?”

“Sì, sì, li ho visti” aveva risposto lei.

“E l’hai sentito il maestrale che urla?”

“Si, l’ho sentito!” disse ancora, tutta eccitata.

“Bene!” aveva esclamato il maestro “Però la virgola non c’è e allora noi dobbiamo leggere:

e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar.

e non

e sotto…, il maestrale urla e biancheggia il mar.

Hai capito?”.

“Si!” aveva risposto lei “Carducci non ci ha messo la virgola e il senso cambia tutto.”

“Brava! Quindi tu leggila sempre senza la virgola, anche se… anche se in quell’altro modo è pure bella! Vero?” [pp. 188-189]

Il racconto prosegue con la disavventura di Rosa che ripropone a scuola la variante di lettura a suo tempo appresa dal nonno e il conflitto con l’insegnante che non ammette una possibile interpretazione alternativa a quella canonica. Sarà don Nenè, con la complicità del preside, suo amico, a ripianare con arguzia la situazione.

Dice Romano nell’introduzione delle sue divagazioni poetiche:

 “… le poesie dovrebbero essere (o sono?) come le canzoni, le hanno addirittura precedute, e come le canzoni anch’esse dovrebbero vivere (vivono?) nel riascolto, nella rilettura e nella musicalità della recitazione, nonché nella riscoperta di sempre più profondi significati e nel rinnovo di piacevoli emozioni.”

Oralità della poesia incentrata sulla lettura ad alta voce e nell’ascolto. E ogni sua recitazione ne è in qualche modo una interpretazione [4]. Ed oltre al tema della lettura interpretativa ritroveremo naturalmente anche Giosuè Carducci, non quello di San Martino ma di altre poesie note e meno note laddove la sua aspirazione “a restarmene in un lungo e solitario tu per tu con la divina ed eterna e placida natura” risuona più esplicitamente [5].

Nel romanzo direi che la poesia – nel caso specifico il De rerum natura di Lucrezio – costituisca la struttura portante della stessa narrazione. Il poema lucreziano, al di là dell’aspetto scientifico filosofico e didascalico, esprime i sentimenti forti, la passionalità direi, dell’autore tra le due polarità di Eros e Thanatos; il giovane Vittorio sembra rappresentarne una versione moderna che proprio nei versi del poeta romano trova l’ispirazione che innerva la sua tragica vicenda tra l’Alma Venus (Venere, la dea dell’amore) da un lato e il Leto sopitus (l’addormentarsi nella dolce morte del suicida) dall’altro. E saranno proprio i versi del poeta, indicati nella loro numerazione e custoditi in busta chiusa, a costituire la chiave interpretativa dell’intera vicenda.

Si può inoltre sottolineare come la struttura de La ruota sia costruita con una sorta di gioco poetico: ogni capitolo è titolato da una data con frequenti salti cronologici e il collegamento tematico è evidenziato dalla ripetizione più o meno testuale dell’explicit di un capitolo nell’incipit di quello successivo.

“Vittorio… ma tu che cerchi?” (finale del primo capitolo)

“Vittorio… ma che stai cercando? (inizio del successivo)

E così analogamente nei successivi capitoli.

L’eros. Direi che in questo caso più che di analogie mi sembra opportuno parlare di successione e sviluppo. Nei racconti della prima opera direi che l’eros rappresentato è soprattutto maschile, anzi “maschio”. Non a caso una delle parole più ricorrenti nell’interloquire è “minchia!”. Anche se al riferimento esplicito alla sessualità maschile è subentrata la consuetudine di una espressione tipica di meraviglia e stupore, l’espressione esprime comunque un sottofondo culturale dove la sessualità è espressa dalla potenza e virulenza maschile. Non a caso l’espressione non la ritroviamo mai quando a parlare sono le “femmine” dei racconti.

Potenza maschile che diventa centrale – in questo caso per absentiam – nel penultimo racconto (La diagnosi). La confessione rammaricata della zia Nunzia in punto di morte alla nipote Angelina (“Angeli’, io… io me ne vado… io me ne vado come mi sono sposata!) accende l’interesse di don Nenè sulla possibile impotenza sessuale del coniuge di Nunzia, lo zio Carlo. E sottopone il fratello medico a stringente interrogatorio su tutte le forme possibili di impotenza. Quando sopraggiungerà anche il decesso dello zio Carlo, al momento della vestizione del cadavere, don Nenè insisterà per cambiargli anche le mutande trovando conferma ai suoi sospetti.

“Lo sapevo… minchia lo sapevo! Esclamò compiaciuto.

“Criptorchidismo bilaterale e… e micropene!”

Era eccitatissimo. Gli altri due accanto lo guardavano, allibiti due volte: per quello che vedevano sul morto prima, e per il comportamento del cognato poi!

“Ma sei diventato medico?” chiosò Salvatore.

“Lo sapevo! Era impotente, lo zio Carlo era impotente! Impotenza strumentale e congenita!”

“Minchia! Insiste a fare diagnosi!” disse il minore al fratello che aveva parlato prima.

“A me le cose una volta… una volta sola me le devono spiegare!” aggiunse don Nenè, rivolgendosi ai cognati, ormai esaltato per la scoperta. Ma sarebbe meglio chiamarla conferma.  [pp. 182-183]

 

Nel romanzo invece, come già sottolineato da Zanotti, centrali sono le figure femminili (Assunta, la giovane serva amata segretamente da Vittorio; la madre adottiva Carmelina, donna Chiara e suor Adelaide).

Il tema è quello della fertilità e di come questa possa sconvolgere gli equilibri quando questa si realizza al di fuori dei canoni familiari e sociali prestabiliti.

Aveva dodici anni suor Adelaide, e vide quello che a dodici anni nessuno dovrebbe vedere. Vide la sorella sedicenne, la sua adorata sorellina, coricata sul letto, circondata da tre o quattro donne. Qualcuno la carezzava e la confortava:

“È per il tuo bene, per il tuo bene figlia mia. Stai calma… stai calma!” diceva una voce “Presto… presto… fate presto, qua… l’acqua… l’acqua…” diceva un’altra voce; e poi vide nettamente la bacinella con il sangue e tutto il resto, posata per terra, proprio vicino alla porta dietro la quale lei stava nascosta.

Nell’antologia poetica dedicata al mondo vegetale il maschile e il femminile, l’eros come vitalità e come fertilità si fondono. Il mondo arboreo, come è noto, è prevalentemente ermafrodita e questa condizione aveva colpito il mondo antico a partire dal mito stesso di Ermafrodito, il figlio di Ermes ed Afrodite che per la sua bellezza fece innamorare la ninfa Salmace la quale, respinta, ottenne dagli dei di potersi per sempre fondersi con l’amato mentre questo si era immerso nelle acque di un lago. Oppure nel Simposio di Platone dove l’eros primigenio è a rappresentato da Aristofane con l’originaria unione dei due sessi in un solo genere:

“ … mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell’Eros. …innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c’erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l’ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina.” [Simposio, XIV, 189]

Sarà Ovidio a riprendere il mito di Ermafrodito e numerosi altri miti dove eros umano e vegetale si fondono e trasformano. Lascio la parola a Romano:

“Il legame tra specie umana e specie vegetale raggiungerà … la sua massima espressione con le Metamorfosi di Ovidio.

È infatti il grande poeta di Sulmona che con la sfrenata fantasia, immagina la storia del mondo come un susseguirsi di continue trasformazioni, dal caos iniziale in avanti.

Innumerevoli sono le storie nelle quali i protagonisti si trasformano in vegetali e saranno proprio queste metamorfosi a teorizzare la perfetta simbiosi tra uomini e piante.

Nella maggior parte dei casi questi passaggi servono per aiutare lo sfortunato protagonista a sfuggire a una sventura o per evitargli un male peggiore. L’essere vegetale assume così una connotazione di bellezza e di forza tale da dimostrarsi appartenente a una condizione superiore a quella umana.” [p. 27]

Troveremo allora, nell’antologia, Dafne trasformata in alloro, Filemone e Bauci in quercia e tiglio, le Eliadi sorelle di Fetonte in pioppi e le loro lacrime in gocce d’ambra; e soprattutto la “storia maledetta e struggente a un tempo” di Mirra che per espiare l’amore incestuoso sarà trasformata nell’omonima pianta e che, in questa condizione vegetale, darà vita al bellissimo Adone. Il tema della simbiosi fra uomo e mondo vegetale si esplicherà poi, non più in termini mitici ma simbolici, nella poesia moderna; prima fra tutte La pioggia nel pineto di D’Annunzio:

E immersi / noi siamo nello spirto / silvestre, / d’arborea vita viventi; … [pp. 59-64]

 

Una vetrina con le opere di Rino Romano

La natura. Questo tema nei racconti siciliani non è particolarmente presente. L’ambientazione dei racconti è prevalentemente urbana (l’officina, le strade del paese, gli interni, il circolo). Solo in alcuni racconti la natura emerge come paesaggio. Ad esempio nel racconto che dà il titolo al libro (Il passaggio) con il “colpo d’acqua” iniziale da giorni preannunciato dalle nuvole che “minacciose passavano sui tetti del paese per scaricarsi lontano: sui vigneti ormai gonfi di vino della piana del golfo o sulle alture circostanti”; oppure, in seguito, con il brullo luogo dell’appuntamento sulla strada per Montelepre:

… il grande pino … unica macchia verde in un paesaggio giallo e inaridito fatto di erbacce rinsecchite e stoppie di grano che si perdevano in lontananza, per un lungo tratto intorno. Qua e là, nella campagna abbandonata, si alzava qualche ulivo contorto dal tempo e dalla fatica di crescere, o qualche mandorlo rinsecchito con poche foglie e nessun frutto. [pp. 29-30]

Oppure nel racconto Totò e Sasà durante il percorso in auto “verso Grisì e Camporeale” attraverso una campagna, in questo caso, fertile e coltivata.

Era una deliziosa mattina di fine agosto e la luce ancora tenue del cielo si riverberava timidamente tutt’intorno, tra i declivi della campagna ora ingiallita dalle stoppie nei seminativi già mietuti, ora gonfia di vino e di olio nei vigneti e negli uliveti prossimi al raccolto. Di rado si incontrava qualche giardino di limoni o di aranci. Qui era inconfondibile la presenza di un pozzo o una sorgiva, contrassegnati spesso da una palma svettante verso il cielo, residuo della cultura araba. Qua e là, quando si risaliva qualche leggero pendio, appariva il mare, chiuso nel suo golfo, e l’orizzonte si stendeva lungo, limpido e baluginante, da Terrasini, fin laggiù, al faro di San Vito, che ancora si vedeva brillare a intermittenza. [p. 113]

 

Nel romanzo eros e natura si fondono, complice la lettura di Lucrezio (la divina Venere che dona il piacere agli uomini e rende fertile la natura); non più semplice ambiente circostante, paesaggio che scorre al di là del finestrino, ma riflesso esterno di una pulsione e trasformazione interiore.

II giovane rimase incantato dalla forza dei versi.

Alzò gli occhi dal libro e tornò a osservare la campagna dal finestrino.

La natura gli apparve trasformata.

Sotto i sui occhi tutto cominciava a illuminarsi di una nuova luce, come se le parole di Lucrezio avessero acceso e risvegliato il paesaggio. Cercò qualche uccello in volo, scrutò gli alberi contorti dal tempo e piegati dal vento, tornò a cercare pecore e mucche al pascolo, si soffermò ad ammirare il mare che cominciava a colorarsi dell’oro del tramonto, là, lontano, coricato sull’orizzonte, e si sentì prendere da un sentimento strano, mai provato prima, come se dentro gli crescesse una trasformazione… sì… una metamorfosi, e si ricordò che l’aveva incontrata da poco questa parola, in greco.

Per un attimo gli sembrò di uscire da sé stesso e provò una strana sensazione, quasi un brivido, che Io fece sentire come in sintonia con tutto quello che vedeva, come se tutta quella natura attorno a lui, che gli fuggiva via tra le vibrazioni del vagone e il fragore della locomotiva, Io avvolgesse interamente in uno strano abbraccio sensuale. [pp. 80-81]

Nell’antologia poetica la natura silvestre è ovviamente il tema centrale che viene ripercorso cronologicamente dalla successione dei poeti nell’alternarsi di culture e sensibilità diverse. Ora giardino da custodire e coltivare, immagine arcadica di simbiosi fra uomo e natura; una natura umanizzata e divinizzata dove pastori, poeti, ninfe e divinità si incontrano, riflesso e memoria del perduto Eden. Ora luogo oscuro, di tenebra e perdizione sede del diabolico e ritrovo delle streghe. L’immagine classica del locus amoenus e quella medievale del loccus horridus si alternano e troveranno sintesi nel sommo poeta.

È Dante Alighieri che interpreta ambedue i modelli che la tradizione religiosa ha coltivato: da un lato la selva come luogo di perdizione, per cui costruisce la più famosa metafora che sulle foreste sia mai stata elaborata, cantando che. . .

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

ché la diritta via era smarrita.

 Ah quanto a dire qual era è cosa dura

esta selva selvaggia ed aspra e forte

che nel pensier rinnova la paura. (Divina Commedia, Inferno, vv 1-6)

Dall’altro lato c’è “la divina foresta“, salvifica e sacralizzata sull’esempio del Paradiso terrestre, che Dante trova sulla cima del Purgatorio. … …

L’immagine poetica Della “selva antica ” (antica perché frutto della prima creazione) che Dante costruisce, piena di profumi soavi, di canti melodiosi, attraversata altresì da un “rio” ricco di acque limpide, puro nettare divino, è una rappresentazione che fa già parte della tradizione e il poeta fiorentino ne è ben consapevole perché sa che …

Quelli ch’anticamente poetaro

l’età dell’oro e suo stato felice,

forse en Parnaso esto loco sognaro.

 Qui fu innocente l’umana radice:

qui primavera sempre ed ogni frutto;

nettare è questo di che ciascun dice. (Ibidem, vv 139-144)

[pp. 38-39]

La struttura complessiva del libro è anticipata dalla copertina con l’immagine di un albero: dalle radici della preistoria con la nascita del linguaggio presumibilmente onomatopeico e poetico, al corposo tronco dei poeti greci, via via sino ai “dolci frutti” della contemporaneità. Può sconcertare che l’immagine scelta raffiguri non un albero rigoglioso nel pieno della sua chioma e magari dei suoi frutti, ma una pianta brulla tipica di un paesaggio tardo autunnale. La scelta, non casuale, vuol mettere in evidenza l’ultima foglia nel momento stesso in cui si stacca. Dirà infatti Romano nella Conclusione dell’antologia:

Tra le tante suggestioni che si sono venute a formare, quella con cui ci piace concludere il breve percorso intrapreso è la metafora della foglia, questa fondamentale appendice vegetale, fragile e delicata, su cui spesso si è soffermata la fantasia dei poeti. [p. 67]

Fragilità della foglia come immagine della fragile condizione umana ripercorsa nelle poetiche di Omero (Quale delle foglie / tale è la stirpe degli umani), del meno noto Mimnermo (Come le foglie … per un tempo brevissimo godiamo), di Leopardi (… povera foglia frale / dove vai tu?) e naturalmente di Ungaretti.

Per concludere con una sorpresa, dove il curatore diventa autore dell’ultima poesia, titolata appunto Una foglia.

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[1] Evolvo Edizioni, Gravellona 2016.

[2] In rete è reperibile anche la recensione di uno studente siciliano.

[3] Titolato appunto La poesia.

[4] Potrei aggiungere, per le poesie tradotte da altra lingua, che ogni traduzione è anch’essa una interpretazione e una sua lettura … una interpretazione di una interpretazione. In sostanza il cuore della poesia non sta tanto nel testo scritto ma nella voce e/o nel pensiero che la fanno risuonare.

[5] Cfr. Divagazioni … cit., pp. 55 – 58.

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