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Fleur Jaeggy, lettura a ritroso

22 marzo 2016

Mi piace rovistare fra remainder e libri usati, rinvenire “perle” fra rimasugli e robaccia. Scoprire autori che mi erano sfuggiti. E siccome per le letture più consistenti e programmate preferisco i tempi più dilatati di quando sono al mare o in montagna, sono in particolare attratto dai volumi che non superino di molto le cento pagine.

E credo anche al caso. Al caso, non al destino. È il caso che ci fa incontrare un tal libro, un tal autore, come una tal persona. Ma siamo poi noi che scegliamo tra i tanti, perché vi abbiam intravisto una certa qual affinità, talvolta solo annunciata, più spesso verificata. È come per la forza dei legami deboli, la debolezza è nella casualità dell’incontro, la forza è nella volontà di rinsaldarli. La vita ne è piena, sta a noi coltivarli.

Fleur-JaeggyNon sapevo niente di Fleur Jaeggy, nemmeno che ascoltando Battiato spesso suonavano i suoi versi. Tra le mani mi capita un libretto, l’editore (Adelphi) promette bene, il titolo – Proleterka – dalle innumeri risonanze, altrettanto. Non nego, anche una copertina indovinata. Ne riporto di seguito, rivisto e rimpolpato, quello che ne scrissi quasi di getto su aNobii. E da Proleterka sono risalito al testo, altrettanto ricco di stimoli, che ne costituisce l’antefatto: I beati anni del castigo. Un prequel narrativo dalla mia visuale e che pertanto ho successivamente commentato e riporto qui in successione (non per me) inversa.

 

Proleterka: Un freddo furore

Mi ha colpito, ha lasciato il segno. Non posso usare parole come piaciuto, apprezzato, no. Una doccia fredda che incide nel profondo, per vari motivi.

copertina Proleterka 001Lo stile. Non avevo letto altro della Jaeggy prima, e il libro mi è capitato per caso. Non lo chiamerei flusso di coscienza, è altra cosa. Un uso libero della parola che sorvola e trapassa limiti dello spazio e del tempo per seguire un filo logico rigoroso, inflessibile al di là di ogni categoria letteraria (racconto, diario, narratore interno/esterno, ecc.). Al contrario di certe opere “sperimentali” che bloccano e richiedono la rilettura, qui si legge d’un fiato, non importa se non si conoscono le parole tedesche che irrompono o non è evidente la finestra temporale di riferimento.

Un mondo. Un contesto culturale ed educativo ben identificabile nel tempo e nella cultura svizzero tedesca (non necessariamente lì collocata, la madre infatti è italiana) che l’autrice descrive con ferocia e furore taciuto. Una cultura educativa che guarda con disprezzo ad emozioni e sentimenti, per non parlare di qualsivoglia contatto fisico. Emblema la nonna Orsola dagli occhi pervinca che ama i fiori e odia il mondo, gli uomini. E che comanda e dispone sulla vita della nipote e del suo rapporto col padre.

«D’inverno le camelie riposavano sotto una piramide di foglie secche e di sterpi. Appena la stagione si faceva più mite, la padrona di casa andava a trovarle per vedere se si fossero risvegliate. Ero il suo assistente giardiniere. Lei si chiama Orsola. È la mia padrona. È la madre di mia madre, di quella che è stata la moglie di Johannes. Johannes deve chiederle il permesso se vuole farmi visita. Noi non vogliamo visite. Qualche volta Orsola dice: “Accetto che Johannes visiti sua figlia”. Si danno del lei. E il termine della visita è improrogabile.»

L’evanescenza del padre. Molti hanno scritto dell’eclisse del padre. Qui l’inconsistenza del padre è narrata con rispetto e dolore. È il racconto di un’assenza. Non c’è nostalgia ma tanto dolore taciuto. Un improvviso desiderio, dopo tanti anni, di averne le ceneri. Quasi il dubbio che sia veramente esistito. Momenti “prestabiliti” di vicinanza che mai comportavano reciproca conoscenza.

«Per anni l’occasione dei nostri incontri è stato un corteo. Partecipavamo tutti e due. Abbiamo sfilato insieme nelle strade di una città sul lago. Lui con il tricorno in testa. Io con il costume, la Tracht, e la cuffia nera orlata di pizzo bianco. …  Mio padre, Johannes H., faceva parte di una corporazione, una Zunft. Vi era entrato quando era studente. … Date le circostanze, la possibilità di una conoscenza più approfondita tra padre e figlia era assai limitata. Osservare e tacere. I due camminano vicini nel corteo. Non scambiano una parola. Il padre fa fatica a tenere il passo al suono delle marce. Due ombre, una si muove lentamente, con uno sforzo visibile. L’altra più inquieta. Avanzano in file da quattro. … In una stanza d’albergo, dopo due giorni, lasciavo Johannes. Era scaduto il termine della mia visita.»

Il padre osserva la figlia. Annota in un album i fatti impersonalmente, senza un commento, senza un sentimento. La bambina non piange mai, è beneducata e gentile; anche quando muore il nonno. Non trapela cosa si nasconda dietro il suo distacco paterno. Forse lui, ricco benestante decaduto, dopo il fallimento della azienda familiare, dopo il fallimento del matrimonio capisce che la sua presenza non può esser altro che una presenza silente a lato del distacco. Del tenore agiato della vita precedente ne conserva le forme esteriori (la confraternita) e, senza più casa, vive in albergo. Osserva la figlia, consapevole che dovrà fare a meno della sua figura.

«Forse Johannes già allora pensava alla propria morte e si augurava che la bambina fosse gentile con tutti. Che fosse gentile con il mondo. Con il dolore. Quando era ancora piccola, ha dovuto separarsi da Johannes. I bambini si disinteressano dei genitori quando vengono lasciati. Non sono sentimentali. Sono passionali e freddi. In un certo modo alcuni abbandonano gli affetti, i sentimenti come fossero cose. Con determinazione, senza tristezza. Diventano estranei. A volte nemici. Non sono più loro gli esseri abbandonati, ma sono loro che battono mentalmente in ritirata. E se ne vanno. Verso un mondo cupo, fantastico e miserabile. Eppure talvolta ostentano felicità. Come un esercizio di funamboli. I genitori non sono necessari. Poco è necessario. Alcuni bambini si governano da sé. Il cuore, cristallo incorruttibile. Imparano a fingere. E la finzione diventa la parte più attiva, più reale, attraente come i sogni. Prende il posto di ciò che consideriamo vero. Forse è solo questo, alcuni bambini hanno la grazia del distacco.»

 

S._S._ProleterkaLa crociera. Una sospensione del tempo che poteva rappresentare un percorso di conoscenza, di superamento dei reciproci silenzi fra la figlia e il padre ma è stata tutt’altro.

«Conoscevo poco mio padre. Durante una vacanza di Pasqua mi portò in una crociera. La nave era attraccata a Venezia, Si chiamava Proleterka. Proletaria. …

Padre e figlia sono davanti alla nave. Sembra una nave militare. Brilla la stella rossa sulla ciminiera. Guardo la scritta Proleterka. Annerita, macchie di ruggine, dimenticata. Una scritta sovrana. È l’ora del tramonto. La nave è grande, nasconde il sole che sta per cadere nell’acqua. È scura, pece e mistero. È scampata alle intemperie, ai naufragi, una nave corsara costruita come una fortezza.»

Quattordici giorni a stretto contatto, sulla nave, sullo stesso tavolo nelle sala da pranzo, nella stessa cabina a cuccetta, lui sotto, lei in alto. Eppure nulla cambia nei loro rapporti.

«Appare Johannes. Un sorriso buono e triste. Chiede se sto bene, se sono zufrieden. Come se fosse la nostra ossessione, di padre e figlia. Quella di non essere tristi, di nascondere la tristezza che ci ha segnati senza motivo. Pe lui è importante quel viaggio. Avevo pensato prima di partire che mi era indifferente la destinazione. Il viaggio in Grecia faceva parte della mia educazione. È il nostro primo viaggio – e sembra l’ultimo. Johannes, la persona a me inverosimilmente ignota. Mio padre. Non una confidenza. Eppure un legame anteriore alle nostre esistenze. Una conoscenza nell’estraneità totale. …

La moglie di Johannes, non più moglie, invia un telegramma al comando della SS Proleterka. Testo: “Je vous pirie de bien surveiller votre fille”. La prego di sorvegliare sua figlia. Si scrivevano in francese, come nel menù. Si danno del lei. Forse quando hanno vissuto insieme parlavano anche tedesco. È stata lei a dare il permesso per il viaggio. Dopo molti dinieghi. Gliene sono grata.»

Johannes non “sorveglierà”; osserverà, come ha sempre fatto, senza intervenire. E la quindicenne, tra un anno e l’altro di collegio, si confronta per la prima volta “con l’altra parte del mondo, qualla maschile”.

«Salendo sulla scaletta, il primo giorno, avevo notato almeno una dozzina di uomini interessanti. A causa dell’equipaggio Johannes avrebbe dovuto sorvegliarmi. Prendo tempo. L’acqua sciaborda. Non avevo alcuna esperienza con l’altra parte del mondo, la parte maschile. Penso: bisogna giocare d’astuzia. Siamo due nemici. Il marinaio si presenta. Si chiama Nikola P. È il secondo ufficiale. È di Dubrovnik. L’età, ventotto anni, il nome, il grado, sarà più o meno tutto quello che saprò di lui. Da pochi minuti cominciavo ad avere una nozione precisa dell’attrazione. Non potevo vedere con chiarezza la sua fisionomia, ma quel poco che intravedevo nell’ombra era sufficiente. Il suo gioco era fatto. Non era necessario parlare. Né fare un esame scrupoloso del suo aspetto.»

Proleterka_BS-PC-06_b

 La ginnasiale è diventata donna, non per amore né per passione, nemmeno forse per l’illusione di diventare più libera, forse soprattutto per rabbia. E quando la “figlia di Johannes” finito il viaggio sulla riva degli Schiavoni si volta indietro per cercare sulla Proleterka un cenno “da un immaginario membro dell’equipaggio” si accorge che è scomparso “come se io non fossi esistita“.

Tutto sommato non scomparirà dai suoi ricordi il padre Johannes. Nemmeno quando, lei cinquantenne si troverà di fronte ad un altro presunto padre, uno scienziato in pensione amico di sua madre, la donna che lui amava. E che ora, novantenne, non vuole più tacere, per amore della verità. Ma forse par amore del possesso, per riavere “sua figlia”, visto che l’altro figlio era morto in un incidente a cinque anni.

«Non credo che l’uomo sia mio padre. Credo piuttosto di avere un fratello che ha avuto un incidente mortale. E per questo fratello ho un profondo affetto. Non per l’uomo che parla.»

Sa che il suo unico padre è Johannes che l’ha lasciata erede universale “del suo niente”; del suo silenzio distaccato c’è ricordo e nostalgia. A lui, prima della cremazione, l’ultimo – forse l’unico – dono della figlia:

«… ho messo un chiodo, un piccolo pezzo di ferro nella tasca della giacca di Johannes. Almeno questo l’ho potuto fare. Qualcosa che sarebbe bruciato insieme a lui. Mentre Johannes brucia, gli fa compagnia. Un dono di sua figlia. Non si fanno regali ai morti. Quando uscii dalla cella sapevo di aver lasciato un testimone del fuoco.»

 

I beati acopertina anni castigo 001nni del castigo * (In una clinica per ciechi)

 

Premesso che l’ho letto dopo aver scoperto, con Proleterka (del 2001), l’autrice che mi aveva colpito per la sua capacità di scrivere con ferocia e freddezza, con un distacco che sa di ghiaccio, tanto più con l’evidenza che “Fleur”, Fiore parlava di sé, della sua giovinezza. I beati anni del castigo, scritto una dozzina di anni prima, ne costituiscono la premessa.

Lo stile, anche se meno accentuato, è lo stesso: distacco, mescolanza dei tempi, rigoroso nel lessico dove ciò che è nostalgia (il paesaggio dell’Appenzell esterno) e ciò che è ferita incancellabile sono delineati con lo stesso freddo nitore. Nel nord-est della Svizzera tedesca degli anni Cinquanta, non lontano da Austria e Germania, l’eco del nazismo ricorre e Fleur ce ne dà una immagine/definizione che più puntuale, femminile e agghiacciante non si può: “i tedeschi marciare al passo dell’oca e i gerani alle finestre”.

È un romanzo, un racconto, un diario? È una riflessione sull’educazione, sull’adolescenza rubata, sulla cultura svizzero tedesca, sull’amicizia femminile, sull’assenza dei genitori? L’inconsistenza del padre (qui accennata) e i freddi ordini della madre che dal lontano Brasile dispone nei dettagli l’educazione che la signora Hofstetter, la direttrice del collegio femminile “Bausler” di Teufen, puntualmente esegue.

56258659 Teufen

«“Siamo soddisfatti che lei abbia trovato un’amica. Ma lei non cambierà di stanza. È stato stabilito così dall’inizio. Dal Brasile giungono le lettere di sua madre e anche sua madre è soddisfatta della sua compagna di stanza” … “Danke, Frau Hofstetter”. Bisogna sempre ringraziare, anche quando c’è un diniego. Nell’educazione si impara a ringraziare con il sorriso. Un sorriso maledetto.»

Certo il contesto, richiamato dal titolo, è quello del collegio e della vita sospesa delle educande. Gli anni (beati?) del castigo. Non “dei castighi”, la prigione è dorata, il collegio (e quelli che hanno preceduto e seguito quello di Teufen) è “di classe”, di figlie di aristocrazia o alta borghesia che arrivano e ripartono dal collegio con “una limousine scura con un autista”. Il castigo beato è la condizione di Fleur e delle coetanee con cui si confronta.

«Era evidente che avrei dovuto passare i miei anni migliori in collegio. Dagli otto ai diciassette. Prima mi avevano lasciato con una anziana signora, una mia avola. Un giorno decise che non sopportava più la mia compagnia, diceva che ero selvatica. Eppure a nulla somigliavo come al suo ritratto appeso nella sala da pranzo. Ed è per questo che cancellò la mia effige dai suoi occhi. Oggi sto prendendo le sue sembianze. Anche lei è nel loculo. Con i suoi occhi indaco. Grazie a lei sono stata in molti collegi, ho conosciuto direttrici, madre reverende, superiori, Mères préfètes, ma nessuna aveva l’autorità della mia avola. Ho sempre sentito che potevo raggirarle, che il loro potere era temporaneo, anche se baciavo la loro mano.»

Gli adulti non contano molto, né le direttrici, né tanto meno le/gli insegnanti:

«Gli educatori, almeno quelli che abbiamo conosciuto, non hanno una doppia vita. Durante l’anno insegnano, poi si riposano. Non vanno mai all’avventura. Non abbiamo rimpianti per i nostri educatori. Forse talvolta li abbiamo rispettati troppo, ma questo faceva parte dell’educazione che abbiamo avuto …»

Ma un dubbio si insinua:

«Ordine e sottomissione, non si può sapere quali risultati daranno nell’età adulta. Si può diventare dei criminali o, per usura, dei benpensanti. Ma un marchio l’abbiamo ricevuto, soprattutto quelle ragazze che hanno passato dai sette ai dieci anni di internato.»

Il confronto prevalente è con le coetanee. Se I turbamenti del giovane Törless di Musil era esemplare nel rappresentarci le dinamiche violente e morbose dell’universo maschile giovanile segregato in collegio (un collegio militare), questo della Jaeggy mi pare rappresentare perfettamente il suo contraltare femminile; là il rapporto era fra la vittima, i suoi persecutori e il resto del gruppo che fa da sfondo e sostegno alla persecuzione in un crescendo destinato ad esplodere nella denuncia e nell’allontanamento; qui le dinamiche sono più sottili. Sono innanzitutto dinamiche fra coppie di giovani educande che si scelgono quali “amiche del cuore” e dinamiche fra singola e gruppo basata sulla più o meno popolarità, fama che ciascuna riesce a conquistarsi. Dinamiche che tendono a creare un equilibrio, un tempo sospeso, che permette alla routine giornaliera di trascorrere apparentemente indenne. Solo in un caso, quello della “negretta” figlia di un presidente di Stato africano, coccolata dalla direttrice, un’allieva subisce un aperto ostracismo da parte di tutte le altre. Un destino di infelicità segnato.

«Per un mutuo accordo, fra le ragazze di un collegio, viene scelta dall’inizio, con distratta affettuosità, quella che sarà la reietta. E non perché l’una lo dica all’altra: è un impulso generale. Sono gli occhi malevoli, come rabdomanti, che scelgono una vittima. Senza una ragione sufficiente, come per la cattiva sorte. Lei stessa non fece altro che avvolgersene, dandole un’aura di verità, di imposizione dal cielo. Il declino della sua infanzia fu notevole. Cominciò a tossire, smise di parlare e, quando sfogliava il libro che le aveva regalato Frau Hofstetter, fermava le pagine con le sue dita di alabastro su una vignetta: un cumulo di terra e una croce.»

Fleur è estremista. La tedesca compagna di stanza, indolente e sognatrice, non le interessa. La sua preferenza va ai due estremi: l’allieva formalmente perfetta Frédérique di una bellezza raffinata e quasi nascosta, dal curricolo scolastico impeccabile, di una perfezione che si rivela anche nei dettagli: dall’ordine della sua stanza all’eleganza della calligrafia che Fleur arriva ad imitare in una esplicita volontà di identificazione; con lei coltiva un’amicizia profonda complice di passeggiate e di dialoghi ribelli e metafisici al limite dell’ascetismo. Dall’altro lato, all’opposto, è anche attratta dalla bellezza gioiosa ed esibita di Micheline fiera dell’amore paterno, del suo ricco belga “daddy”, che tutto le avrebbe concesso in una esplicita ricerca di divertimento: “Ciò che Micheline voleva dalla vita era spassarsela” e manterrà la sua promessa di invitare tutte le sue compagne di collegio alla sua festa di diciotto anni con daddy che tutte avrebbe fatto ballare e corteggiato. “Micheline era radiosa. I suoi diciotto anni perirono in quella notte.”

Solo Frédérique non sarà presente alla festa di Micheline; allontanatasi dal collegio prima delle altre per l’improvvisa morte del padre, l’autrice (il soggetto narrante) la ritroverà ventenne a Parigi dove l’inviterà nella sua stanza, una stanza fredda, spoglia, “scolpita nel vuoto”. Dove, oltre l’eccezione della protagonista, sembrano venire a far visita solo i defunti.

«Consideravo la sua spoliazione un esercizio spirituale, estetico. Solo un esteta può rinunciare a tutto. Non rimasi tanto sorpresa dall’indigenza, quanto dalla sua grandiosità. Quella stanza è un concetto.»

E, nell’ultimo capitolo, tutto si disvela. Non è questo un romanzo, né un racconto, né un diario. Questo è un piccolo, denso trattato sulla follia. E l’incipit, a cui avevo fatto poco caso, non era casuale, non solo una contestualizzazione geografica e temporale.

Alpstein_Teufen_Panorama

«A quattordici anni ero educanda in un collegio dell’Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio a Herisau, non lontano dal nostro istituto. È morto nella neve. Fotografie mostrano le sue orme e la postura del corpo nella neve. … A volte penso che sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere in un sepolcro naturale, nella neve dell’Appenzell, dopo quasi trent’anni di manicomio …»

La perfezione, tanto ammirata, dell’amica svela la sua cifra e il suo destino.

«Qualche anno dopo, Frédérique tentò di bruciare la sua casa di Ginevra, le tende, i quadri e la madre. La madre leggeva nel salotto. Fu dopo quel fatto che conobbi la signora. …

“Mia figlia” aveva sussurrato Madame nell’accompagnarmi all’ascensore “ha tentato di bruciarmi”. Lo disse con dolcezza tale da sembrare rimpianto … “Elle n’est pas responsable”. …

Dopo vent’anni mi scrisse una lettera. Sua madre le aveva lasciato qualcosa per vivere. Ma ne aveva abbastanza di essere ospite del manicomio, se continuava così avrebbe preso la via del cimitero.»

Anni dopo Fleur tornerà a Teufen: del collegio non è rimasta alcuna memoria. Al suo posto, in simbolica continuità, una clinica per ciechi.

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* Il testo, con lo stesso titolo, è stato anche messo in scena da Luca Ronconi nel 2010. Interprete Elena Ghiaurov, vincitrice del Premio Duse 2010.

 

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