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Jorge Icaza romanziere ecuadoriano

2 luglio 2019

Jorge Icaza

Le edizioni Elliot hanno di recente pubblicato una nuova traduzione italiana del romanzo più conosciuto di Jorge Icaza (Quito1906 – 1978): Huasipungo[1]; quella precedente, delle edizioni Nuova Accademia, a cura di Giuseppe Bellini, risalente al 1961, era pressoché introvabile. Di ritorno dall’Ecuador ne avevo portato, insieme ad altri testi, una copia in lingua originale che allora non ero riuscito ad ultimare per poca esperienza con i testi in spagnolo e, in particolare, la presenza di molte espressioni in quechua.

 

Il “boom” del romanzo latino-americano

Parlando oggi di un autore latino-americano, non si può ignorare quello che è stato il “boom” del romanzo degli anni ’60. Una sua efficace ricostruzione “dall’interno” la dobbiamo al cileno José Donoso[2]: Storia personale del “boom”[3] pubblicato nel 1972, l’anno prima del sanguinoso Colpo di Stato.

Ciò che caratterizzava la letteratura latino-americana precedente agli anni ’60 era l’isolamento e un regionalismo nazionalistico ristretto ai singoli paesi.

“Prima del 1960 raramente si sentiva parlare di «narrativa ispano-americana contemporanea» da parte di persone non specializzate; esistevano romanzi uruguaiani, ecuadoriani, messicani e venezuelani. I romanzi di ciascun paese rimanevano confinati nelle proprie frontiere, limitandosi la loro celebrità e competenza, nella maggioranza dei casi, a un fatto locale. […] Per chi non l’abbia vissuto […] riesce impossibile immaginare le condizioni d’isolamento in cui si trovavano i narratori latino-americani appena dieci anni orsono, l’asfissia della mancanza di stimolo e di risonanza.”[4]

Ogni paese aveva i suoi “padri”, i suoi classici nazionali pubblicati, studiati e imposti quale canone nelle università[5]:

“Mentre il mondo dei giovani si espandeva attraverso letture e impegni miranti soprattutto ad abbattere le frontiere, gli scrittori folcloristici, di costume e regionalisti, affaccendati come formiche, cercavano invece di consolidarle, queste frontiere, tra regione e regione, tra paese e paese, per renderle inespugnabili, ermetiche, di modo che la nostra identità, che essi evidentemente vedevano come qualcosa di fragile, di confuso, non venisse a spezzarsi, a dissolversi. Con lenti d’entomologo si misero a catalogare la flora e la fauna e i detti inconfondibilmente nostri, e un libro veniva giudicato «buono» se riproduceva con fedeltà questi mondi autoctoni, quelle cose specifiche che ci differenziavano – ci separavano – da altre regioni e da altri paesi del continente; una sorta di «virilismo» sciovinista a prova di bomba.”[6]

Il processo successivo viene definito da Donoso come la “internazionalizzazione della narrativa ispano-americana degli Anni Sessanta”[7]; internazionalizzazione nel duplice senso di circolazione, conoscenza e scambio reciproco fra gli autori latino-americani e di apertura verso le letterature contemporanee in particolare nord-americane ed europee. L’autore che, dal suo punto di vista, contribuì maggiormente a questa internazionalizzazione fu il messicano Carlos Fuentes che già nel 1958 aveva pubblicato La región más transparente[8].

“L’elemento che forse più mi ha colpito ne La región más transparente è stata quella sua non accettazione di una realtà messicana univoca, il rifiuto – e la sua utilizzazione letteraria – della falsità, delle apparenze. Il suo non era atteggiamento di documentazione, come quello dei narratori che mi circondavano, ma di indagine.”[9]

“L’unità della narrazione era sempre stato per me un concetto sacro: ricordo che fra coloro della mia generazione in Cile, i massimi aggettivi elogiativi, parlando di questo o di quel libro, erano «rotondo» o «compiuto». Non si aveva idea che Umberto Eco, nel 1962, aveva pubblicato Opera aperta. E questo mirabile libro di Carlos Fuentes nulla aveva di chiuso, né di semplice, né di documentaristico, essendo anzi una sintesi di tutte le bastardaggini e di razza, e di gusto, e di linguaggio e di forma: l’artifizio prevaleva sulla naturalità e l’immaginazione soggiogava il realismo senza obbedire a unità pre-narrazione di alcun genere, ma solo a una poderosa ottica personale.”[10]

Lo stesso Fuentes fu tra i numerosissimi intellettuali e scrittori latino-americani che parteciparono nel 1962 al Congresso degli Intellettuali dell’Università di Concepción in Cile: da quel momento, afferma Donoso, una intera generazione di scrittori smise di pensare e di scrivere in termini nazionali ma rivolgendosi a “milioni e milioni di lettori che compongono l’area di lingua spagnola, e spezzando le frontiere così chiaramente delineate, inventare una lingua più ampia e più internazionale”[11].

L’altro aspetto emerso a Concepción, sia nell’intervento di Fuentes che di molti altri e che improntò –almeno sino al 1971 quando il poeta cubano Heberto Padilla fu accusato e arrestato per “attività sovversive” – la pressoché totalità degli scrittori, fu l’adesione entusiastica alla rivoluzione cubana.

“L’infinita quantità di scrittori, appartenenti a tutti i paesi del continente, dichiararono unanimemente la propria adesione alla causa cubana. Penso che quella fede e unanimità politica – o quasi unanimità – fossero allora, e abbiano seguitato a esserlo fino allo scoppio del caso Padilla, uno dei grandi fattori dell’internazionalizzazione della narrativa ispano-americana, unificando mire e mete, fornendo una struttura ideologica alla quale ci si potesse più o meno avvicinare – raramente discostare del tutto – e dando per un certo tempo la sensazione di una coesione continentale.”[12]

Questo processo di internazionalizzazione della letteratura latino-americana, secondo Donoso si incarna principalmente in quattro autori e in tre fasi: l’argentino Julio Cortázar con i suoi racconti fra i quali emerge Las babas del diablo[13] (1959) – cui si ispirerà Michelangelo Antonioni per il film Blow Up(1966) – e il suo successivo romanzo Rayuela (1963)[14]; seguono Carlos Fuentes – di cui abbiamo detto – e il peruviano Mario Vargas Llosa con La ciudad y los perros (1962)[15]; e arriviamo alla terza fase, quella vera e propria del “boom” con Cien años de soledad (1967) del colombiano Gabriel García Márquez che ha fatto anche identificare l’insieme della narrativa latino-americana degli anni ’60 con il cosiddetto “realismo magico”. Il suo successo internazionale fu tale che si riflesse sull’insieme degli scrittori latini di quegli anni e favorì anche la riscoperta di alcuni autori di poco precedenti – il “proto-boom” nella definizione di Donoso[16] – tra cui spiccano  Jorge Luis Borges argentino, Juan Rulfo messicano, Alejo Carpentier e  José Lezama Lima cubani, Juan Carlos Onetti uruguaiano.

Marcelo Chiriboga (con il bicchiere) di fianco a Márquez e altri scrittori (da “Un secreto en la caja”)

Nella sua Storia personale del “boom” Donoso non cita nessuno scrittore ecuadoriano. Sarà nel 1981 che cita, nel suo romanzo El jardín de a lado, Marcelo Chiriboga, autore in particolare di La línea imaginaria (1969, opera dedicata al conflitto per il confine fra Ecuador e Perù), quale principale rappresentante ecuadoriano del “boom”. Chiriboga sarà poi citato da Fuentes e da numerosi altri scrittori; il regista Javier Izquierdo gli ha dedicato un documentario: Un secreto en la caja (2017) considerandolo il «più grande scrittore contemporaneo dell’Ecuador». Non è però possibile leggere La línea imaginaria né le altre sue opere (Jardín de piedra, 1963; Diario de un infiltrado, 1973; La caja sin secreto, 1978: La caja secreta, s.d.) perché non sono mai state scritte in quanto Chiriboga è una invenzione letteraria – figura tipica della letteratura ispano americana e in particolare cilena[17]–  volta a rappresentare ironicamente l’isolamento culturale e letterario dell’Ecuador nel momento in cui le “21 repubbliche” latine del continente si sono aperte al resto del mondo.

Huasipungo

Eppure, ben prima del “boom” l’Ecuador, con Jorge Icaza, ci ha fornito una delle opere narrative più tradotte – ad oggi in oltre 40 lingue –  ed edite e riedite, dell’America Latina: Huasipungo; pubblicato nel 1934 e rivisto più volte dall’autore (l’edizione definitiva è del 1961). Dirà l’autore in una lettera del 1964:

“Ho revisionato il romanzo desideroso di dargli una maggiore chiarezza in un contesto internazionale. Quando l’ho scritto non pensavo che potesse prendere il volo verso altre latitudini del mondo. La mia ambizione era regionale – che servisse come messaggio ed emozione per la gente del mio popolo, perché risolvesse i suoi problemi. Ma le difficoltà nelle traduzioni, nelle perifrasi e nelle parole, si facevano sempre più insormontabili. Per questo mi sono visto quasi obbligato alla revisione.”[18]

Cosa significa la parola quechua huasipungo (o huasipongo)? All’interno di una struttura economico-sociale risalente alla colonizzazione e definito quale concertaje[19] – una sorta di sistema neo-feudale – le popolazioni autoctone erano costrette a svolgere – a vita e con vincolo ereditario per le successive generazioni – lavori agricoli senza alcun compenso (o compensi irrisori e incerti) per il proprietario latifondista; l’unica contropartita era appunto il huasipungo, piccolo appezzamento di terra[20], solitamente in zona meno fertile, in cui l’indio poteva edificare la sua capanna e praticare qualche coltivazione di sussistenza. L’indio in questo modo era legato alla terra e, in caso di cessione di proprietà, anche lui e la sua famiglia passavano al nuovo padrone.

La vicenda

Don Alfonso Pereira, proprietario terriero inurbato, decide di tornare con la famiglia e la servitù ai suoi possedimenti vicini al paese di Tomachi, sia per nascondere la gravidanza irregolare (con un “cholo”, meticcio di origine india) della giovane figlia Lolita, sia per ripianare i suoi debiti mettendo a frutto ed allargando con nuovi acquisti le sue proprietà anche in vista di una loro cessione vantaggiosa ai gringos nordamericani interessati alla possibile estrazione di petrolio. Non esiste una strada, e per un lungo tratto di terreno paludoso, non si possono utilizzare nemmeno i cavalli; sopperiscono gli indios quali portatori e il più forte di loro, Andrés Chiliquinga, avrà l’onore di trasportare sulle spalle il padrone.

In paese don Alfonso fa subito combutta con il curato, persona viziosa e corrotta che sa utilizzare la credulità religiosa dei meticci e degli indios a proprio vantaggio; favorirà l’acquisto delle nuove terre necessarie a don Alfonso e convincerà i paesani a un Minga – tradizione cooperativa di lavoro collettivo in cui il beneficiario ripagava festosamente con cibo e libagioni[21] – per la costruzione di una strada rotabile che unisca il paese con la città, strada che lui stesso sfrutterà gestendo il trasporto di persone e merci. Al lavoro “volontario” dei paesani si aggiunge quello obbligato degli indios sotto la custodia del fattore Policarpo che per malattie, spossatezza, disubbidienza o altro ha una sola medicina: la frusta. I carichi più pesanti e i lavori più pericolosi sono di loro pertinenza e, poco importa se qualcuno soccombe. Non solo, aver concentrato i lavori per la costruzione della strada – indispensabile per il futuro sfruttamento petrolifero, ma presentata quale gloriosa opera di progresso nazionale – e il disboscamento dei nuovi terreni, tralascia consapevolmente quelli di pulitura del fiume: di conseguenza quando arriverà la piena molti huasipungo, e con loro un certo numero di indios di tutte le età, verranno travolti rendendo “liberi” quei terreni.

Edizione italiana del 1961

Nel frattempo il figlio di Lolita nasce e Cunshi, la giovane moglie di Chiliquinga, viene scelta quale nutrice del piccolo; verrà abusata da don Alfonso – non contento di spartirsi con il curato i favori della moglie del luogotenente politico Quintana – e verrà cacciata quando i suoi servigi non saranno più graditi. I lavori coatti e il clima impietoso portano gli indios sempre più alla fame; aver tentato disfamarsi con carne putrida dissotterrata porterà alla morte Cunshi; per poterle fornire un dignitoso funerale soddisfacendo le esose richieste del curato, Andrés tenterà il furto di una mucca, ma sarà scoperto. Sarà punito pubblicamente a frustate dal Commissario Quintana; stessa sorte per il figlioletto che aveva spontaneamente tentato di difendere il padre.

E si arriva all’epilogo. I gringos raggiungono in gran pompa in paese, sono pronti a firmare l’accordo per la concessione petrolifera, ma chiedono che anche il territorio a monte – dove gli indios si erano trasferiti – sia “liberato”; su loro consiglio Don Alfonso assolda un gruppo di delinquenti che scacciano con la violenza tutti gli indios dai loro huasipungos bruciando le abitazioni e uccidendo chi si opponeva. Quando Andrés capisce che gli sgherri del padrone arriveranno anche da lui

“salito sulla staccionata del suo huasipungo e spinto dal coraggio in tanta disperazione, chiamava a raccolta i suoi con la voce roca di un corno di guerra ereditato da suo padre.” [p. 157]

Gli indios accorrono e si raccolgono davanti alla sua abitazione e lo interrogano a più voci su cosa fare; incerto ed incalzato dai suoi lancia un grido potente: “İÑucanchic huasipungooo!(Lo huasipungo è nostrooooo!)[22]. Il grido viene ripreso e dilaga per la vallata mentre la massa degli indios, armati alla meno peggio, dilagano a valle, comprese donne e bambini. Le pallottole degli sgherri comandati dal feroce Guercio Rodríguez e della forza pubblica locale guidata dal Comandante Quintana non riusciranno a fermarli e loro stessi saranno travolti e uccisi. Cinque cadaveri in totale, mentre i gringos e don Alfonso fuggiranno rapidamente a Quito. Il pomeriggio del giorno seguente, come prevedibile, arriveranno le truppe dalla capitale: è il massacro dell’intera popolazione india e la narrazione si chiude con Andrés Chiliquinga che, sfuggendo dall’abitazione in fiamme, si lancia con il figlioletto sottobraccio verso le pallottole della truppa gridando “İÑucanchic huasipungo, caraju!(Lo huasipungo è nostro, maledizione!).

La narrazione è semplice e diretta con forte presenza del discorso diretto, sia quello tra i personaggi principali che quello collettivo dove le voci anonime sia degli abitanti cholos che degli indios si rincorrono e interpellano a vicenda, in più passaggi per intere pagine. Ad esempio quando sui lavori per la costruzione della strada sui mingueros, i partecipanti meticci al lavoro gratuito collettivo da un lato, e sugli indigeni dall’altro, incombe un spaventoso temporale.

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Una notte si aggravò il malcontento del meticciato, per colpa della natura, cieca e implacabile. Doveva essere molto tardi, forse l’una o le due del mattino. Le tenebre di spesso torpore parevano russare al riparo della musica monotona dei grilli e dei rospi. All’improvviso, sulla piattaforma nera del cielo rotolò un tuono con voce cavernosa. Di soprassalto e inquieta, la gente si svegliò afferrandosi a una speranza: “No … non è niente… Ora passerà… Quando molto tuona, poco piove… “. Però le scariche dall’alto si ripeterono, più forti e assordanti. L’evidenza della prossima tormenta obbligò i mingueros a cercare nuovi rifugi. Le tende da campo si riempirono con le meticce più audaci. Fortunatamente quella notte mancavano don Alfonso Pereira e il signor curato. Anche gli indios percependo nell’ombra la necessità istintiva di trovare un riparo, corsero da una parte all’altra, ma purtroppo i pochi luoghi sicuri già erano stati occupati dal meticciato.

<<Non c’è spazio per i roscas[23]>>.

<<Nooo>>.

<<Accidenti, che se ne vadano e basta!>>.

<<Siamo al completo>>.

<<Completo! >>.

<<Qui è per i cristiani>>.

<<Via con i vostri pidocchi!>>.

<<E con la vostra puzza>>.

<<Fuori, maledizione!>>.

Raffiche di vento, gelato e tagliente, soffiando a mulinello sul campo della minga – un versante di pericolosa pendenza –, sparsero le prime grosse gocce dell’acquazzone.

<<Siamo fregati, compagni>>.

<<Adesso sì>>.

Una pagina del testo in spagnolo

<<Piove, per la miseria>>.

<<E non c’è un posto dove nascondersi>>.

<<Doveva succedere>>.

<<Un cielo talmente mutevole>>.

<<E siam così lontani dal paese>>.

<<Abbiamo fatto abbastanza>>.

<<Abbastanza>>.

<<Venite. Venite subito>>.

<<Dove state, eh? Non vi vedo>>.

<<Qui>>.

<<Nel fango>>.

<<Le acque, mamma Nati>>.

<<L’acquazzone, mamma Lola>>.

<<Che facciamo, eh, mamma Mike?>>.

<<Sopportare>>.

<<Sopportare un corno!>>.

<<Padreeee!>>.

<<Se almeno ci fossero rosmarino e rami benedetti da bruciare… Servono perché Dio Padre ci liberi dai fulmini>>.

<<Dai fulmini>>.

<<E dalle acque?».

<<Niente da fare>>.

<<Siamo già fottuti>>.

<<Siamo fottuti>>.

<<Non vi metterete sotto gli alberi, eh?>>.

<<È pericoloso>>.

Anche gli Indios masticarono, come mais tostato, le maledizioni, le suppliche e gli improperi.

<<Padreee>>.

<<Benedettooo>>.

<<Mamminaaa>>,

<<Cuoricinooo>>.

<<Perché, eh, morire presi dal Cuichi[24]?>>.

<<Perché, eh, morire presi dal vento?>>.

<<Runa[25] che non vale niente»,

<< Runa peccatore>>.

<< Runa stupidooo>>.

<<Maledizioneee>>.

Con Le prime gocce di pioggia, l’aria prese l’odore della terra umida, di sterco fresco, del legno putrefatto e di cane bagnato.

<<Passerà?>>.

<<Non passerà?>>.

<<Cos’altro succederà?».

La furia della tempesta cancellò di colpo tutte le voci umane. Come ombre mute e cieche, i corpi cominciarono allora a palparsi con l’affanno infantile di

Edizione italiana del 2018

allontanare dal cuore e dai nervi la solitudine e la paura. Piovve con una furia che sembrava instancabile e, in trenta o quaranta minuti – che sembrarono un secolo ai mingueros inzuppati – l’acqua flagellante gonfiò la terra, infiltrandosi per le gole della montagna, per le crepe delle rupi, per i sinuosi letti dei torrenti, per le rocce dei crinali, mescolando il suo cammino di ribollente baldoria in un correre, intrecciarsi, straripare con grida, invocazioni e lamenti che tornarono a udirsi per tutto il campo.

<<Ancora…>>.

<<Piove forte>>.

 <<Peggio, eh>>.

<<Così forte>>.

<<Sembra che non finisca mai>>.

<<Sono inzuppata. Ecco, adesso vedrete proprio…. >>.

<<Dio non ci deve amare>>.

<<Copriti con questo lembo>>.

<<Uuuhh. È ridotto che fa pena>>,

<<Il fango, dannazione>>.

<<Peggio di così siamo già stati>>.

<<E adesso?>>.

<<L’acqua scorre ai piedi>>.

<<Spostiamoci più in là>>.

<< È uguale>>.

<<Da questa parte>>.

<< È lo stesso».

<<Siamo fregati>>.

<<Bisogna aspettare che passi>>.

<<Aspettare>>.

<<I panni sono ridotti una schifezza>>.

<<Una merda>>.

<<La testa»,

<<Le spalle>>.

<<Avvicinati per riscaldarci>>.

<<La coperta del cristiano>>.

<<Va bene lo stesso>>.

<<Ecco, non ce n’è più>>.

<<Per la miseria!>>.

Malgrado tutto, le meticce e i meticci, attaccati ai loro rifugi malconci – fossa, tavola, baracca improvvisata, ripiego tra pietre e rocce –, tornarono ad agitarsi con ansia di vivere.

Ogni tanto, alla luce dl un lampo, si riuscivano a scorgere gli indios rimasti senza alcun riparo sotto il cielo inclemente, che vagavano a tentoni nel fango, sotto la pioggia, tra l’acqua che aveva invaso ogni angolo e distruggeva tutte le tende, mentre si apriva il passo lungo tutti i declivi.

Poco dopo la pioggia tornò a imperversare. Flagellò ancora la terra cieca, silenziosa, intirizzita dal freddo. I mingueros, oppressi da quella tragica persistenza, a volte monotona e spesso forte, ingoiarono definitivamente i loro commenti, le loro preghiere, i loro insulti. [p. 78 – 81]

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Il romanzo viene solitamente ascritto al realismo e alla letteratura indigenista; rifacendomi a quanto citato di Donoso sulla letteratura del “boom” possiamo di certo affermare che in questo caso si tratta di un’opera narrativamente unitaria, “rotonda e compiuta”, ben lontana dalle “opere aperte” di un Fuentes e dal “realismo magico” di un Márquez. Per inserirlo nell’ambito letterario dell’Ecuador riporto quasi per intero i due paragrafi che il critico Angel F. Rojas ha dedicato a Icaza nella sua storia del romanzo ecuadoriano[26].

 

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Jorge Icaza e Huasipungo

Nello stesso anno [1934] che José de la Cuadra pubblicava a Madrid il suo romanzo Los Sangurimas[27], Jorge Icaza mise in circolazione Huasipungo. Di lì a poco quest’ultimo libro cominciò a esser tradotto in altre lingue: francese, inglese, russo, cinese. Il giovane autore di Quito rapidamente si trasformò nello scrittore più famoso dell’Ecuador, dopo Montalvo. Moltissimi critici stranieri pubblicarono recensioni di questa opera, quasi tutte elogiative. Le edizioni successive si moltiplicarono. E questa nuova modalità di concepire la scrittura, dirompente, semplice, audace e diretta, ricalcata su quella che Icaza introdurrà nella narrazione – spingendosi ancora oltre a quella degli autori de Los que se van, che già scandalizzarono con la crudezza del loro linguaggio e la brutalità delle vicende narrate – incominciava a esser coltivata in altri abiti dell’America: El indio, di Gregorio López y Fuentes, pubblicato in Messico l’anno successivo di Huasipungo, e Cacao, di Jorge Amado, in Brasile, possono servire da esempio.

In un altro capitolo dedicato alla realtà sociale dell’Ecuador ci siamo già riferiti al “concertaje de indios” e al “huasipungo” o “huasipongo”, forma di contratto agricolo subordinato al precedente. La spaventosa realtà sociale ed economica dell’indio, accennata di passaggio da [Juan] Montalvo, trattata successivamente da Abelardo Montalvo nel suo saggio El concertaje de indios e esaminata in modo esaustivo dallo studioso contemporaneo Pio Jaramillo Alvarado nel suo fondamentale libro El indio ecuatoriano dispone, dal punto di vista narrativo, di due romanzi emblematici, che ne sono la cifra e la raffigurazione: Plata y bronce, di [Fernando] Chaves e Huasipungo di Jorge Icaza. Si affronta il problema nell’ambito del romanzo. Con Huasipungo raggiunge l’apice la letteratura “indigenista” ecuadoriana. Segna il punto di arrivo, così come Plata y bronce ne indica quello di partenza.

Huasipungo affronta l’argomento tipico, proprio del romanzo indigenista a contenuto sociale: lo sfruttamento dell’indio da parte dei suoi padroni. Compaiono nella narrazione gli sfruttatori più volte rappresentati: però in questo caso assumono una forma essenziale, quali simboli. Il latifondista, l’amministratore, il sindaco, l’impresario nordamericano, il governo complice e la forza pubblica al servizio del “gamonalismo[28]. L’indio huasipunguero Andrés Chiliquinga è l’eroe che in qualche modo incarna la sua razza e la sua classe. L’esito della vicenda si produce quando gli huasipungueros di una azienda venduta all’impresario straniero resistono allo sgombero. Interviene la forza dello stato e consuma il massacro. Mentre i sodati soffocano la rivolta sparando a raffica contro la moltitudine disarmata, all’indio Chiliquinga – pidocchioso, affamato, azzoppato, abbruttito – capita di lanciare una potente e lapidaria frase quechua: “Ñucanchic huasipungoi”: Il huasipungo è nostro! Che risuona come un grido e soprattutto come un urlo di ribellione. Il finale, seppur tragico, fornisce un appiglio alla speranza.

La narrazione si sviluppa in modo agile e commuovente. Non risparmia nessuna situazione della sofferenza india; utilizza per rappresentarla tutte le righe della sua opera e tutte le risorse della esagerazione, della deformità e del truculento. Passa in rassegna, come dicevamo, tutti gli orrori che, in diversi luoghi e tempi, si sono scatenati contro l’indio. Niente della “leggenda nera” dell’ecomendero[29] spagnolo e del signore feudale creolo è stato omesso. Il risultato è un raccapricciante documento a sostegno del superstite indigeno, abietto e degenerato, trasformato in più situazioni in un essere subumano, che vegeta una vita puramente animale negli sterpeti andini: un documento sociale spaventoso e macabro, concepito e scritto con una obiettività sconcertante; un proclama rivoluzionario che, in mezzo alla più ripugnante miseria e ignoranza diffusa, afferma che l’indio incomincia a trovare il cammino della sua redenzione.

Data la modalità narrativa di Icaza, né in Huasipungo né nei suoi libri successivi si è preoccupato di creare dei personaggi definiti. Il suo eroe è l’uomo-massa, il simbolo di una classe sociale. Andrés Chiliquinga è il soggetto passivo ed avrebbe potuto esser chiunque altro. Non è la personalità dell’uomo – del “subumano” – che interessa a Icaza caratterizzare o distinguere, quanto l’episodio raccapricciante. E, data la sua modalità di narrare, di presentare la vicenda al lettore – con l’eccezione della precisione del dialogo, che sembra stenografica – non si distingue affatto per la sua preoccupazione artistica. È riuscito a suscitare l’interesse per il suo libro per ciò che dice di essenziale, a prescindere della forma difettosa in cui lo dice. Il modo trascurato in cui scrive Icaza è incredibile e, nonostante ciò, alcune delle sue pagine, prive della maestosità che potrebbe loro conferire solo la congruenza fra la sostanza e la forma – questa ultima oggetto di preoccupazione nei suoi ultimi libri – possiedono una forza epica che impressiona nel profondo.

En las calles e le altre opere

Se Huasipungo è una rassegna delle sofferenze dell’indio, nel suo successivo romanzo En las calles, Icaza è riuscito a sintetizzare, con ammirabile precisione, la sostanza tragicomica della nostra nascente democrazia. È un libro amaro; non si tralascia nulla; ce ne fornisce l’orrore quasi pezzi di viscere sbrindellate. E nessuna deliberazione politica che non sia stata decisa o che non potrebbe esserlo. Letto a distanza di dieci anni da quando è stato scritto si osserva come nessuna delle sue satire abbia perso di attualità. I padroni “Luchito” si susseguono sempre uguali o peggiori. Lo Stato continua a reprimere nel modo già descritto le esplosioni di ribellione collettiva. L’uomo del quartiere lotta, come espresso dalle pagine di questo romanzo, per perseguire un benessere da cui è escluso. Nessuno come Icaza ha ritratto la vita del gendarme delle nostre città: la sua esistenza sudicia e sordida; i suoi problemi e le sue amarezze. Il comandante del quartiere, oggetto di irrisione da parte dei signorini, è il simbolo della nostra pseudodemocrazia meticcia. Però non è solamente in questo senso un documento sociale impressionante. Contiene anche vere pagine di storia. La “Battaglia dei quattro giorni” [28 agosto – 1° settembre 1932] […] serve a Icaza per innestare l’avvio della sua narrazione. I due fronti contrapposti si massacrarono, come dice l’autore, in difesa della Costituzione. Però uno difendeva la Costituzione del Presidente. L’altro quella di don Luchito Urrestas: Democrazia!

Successivamente Icaza ha pubblicato altri due romanzi; Cholos (1938) e Media vida deslumbrados (1942), nei quali ha trattato temi e ambiti sociali per lui nuovi. Si avverte il suo progetto di affrontare progressivamente temi della realtà politica e sociale del paese, che abbiano un certo rilievo. Dall’indio è passato al “cholo” [meticcio]; dalla campagna al villaggio e dopo alla città. In questo autore si avverte nel modo più esplicito il fascino che esercitano, nella creazione letteraria, le questioni nazionali che rivelano l’ambito oscuro del nostro vivere. Ciò nonostante, da buon socialista, al di là della modalità ossessiva con cui ha trattato le nostre deformità politiche, economiche e sociali, fa emergere la sua fiducia in un domani più giusto. E, tratto che si avverte a partire da Cholos, l’autore manifesta qui preoccupazione per la forma e il linguaggio. In cambio non è riuscito, nelle sue opere successive, ad eguagliare Huasipungo che resta, fin qui, la sua produzione migliore.

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Alcune osservazioni mi sorgono istantanee. Innanzitutto sul modo di scrivere di Icaza: è immediato ed efficace, del tutto congruente con il contenuto e le finalità del libro; certo non è uno spagnolo letterario ma la sua forza sta proprio nel portarci dentro una situazione non solo con la descrizione ma anche con la sonorità di un idioma “contaminato”. La stessa scelta di lasciare molte parole quechua, fornendo in calce un “vocabulario” – scelta mantenuta nella attuale traduzione di Lucilla Soro, differentemente da quella del 1961 – fa sì che, man mano procediamo nella lettura, queste parole diventino nostre. In secondo luogo definire Andrés Chiliquinga “eroe” non sembra affatto calzante con il personaggio che agisce per lo più in modo istintivo e inconsapevole, che non sa esprimere nemmeno in suo amore per la moglie Cunshi se non a suon di botte e ne provocherà involontariamente la morte costringendola a non vomitare la carne putrida che aveva dissotterrato.  Più che “eroismo” esprime l’abbruttimento a cui il sistema sociale aveva portato gli indios, ormai sradicati dalla loro cultura e sottomessi al potere del padrone e a quello del parroco. Non mi pare nemmeno si possa dire che “Il finale, seppur tragico, fornisce un appiglio alla speranza”. La rivolta, una sorta di jacquerie, è inevitabilmente destinata a sfociare nel massacro.

La speranza non sorge certo dall’interno della vicenda, ma semmai nella forte denuncia che il romanzo esprime; nella lettera sopra citata Icaza infatti diceva di aver scritto perché “servisse come messaggio ed emozione per la gente del mio popolo”.  Se vogliamo fare un raffronto con la nostra letteratura, mi pare che Huasipungo sia più vicino al verismo di un Verga che alla narrativa neorealista del dopoguerra spesso consolatoria e incentrata sulla figura positiva dell’eroe popolare, espressione cosciente della propria classe. Andrés, per intenderci, non ha niente a che vedere con il “nazional-popolare” Metello[30].

 

Cholos (I meticci)

Abbia visto come Angel J. Rojas, pur analizzando la narrativa ecuadoriana sino al 1944, dedichi poche righe a questa opera del 1938. Nella ricerca di documentazione su Icaza ho scoperto che è stata tradotta in italiano da Carlo Bo e pubblicata da Einaudi già nel 1949 nella collana I coralli[31]: di ben dodici anni antecedente alla prima edizione italiana di Huasipungo! Tramite internet sono riuscito ad acquistarne una copia usata e direi che si è dimostrata una piacevole sorpresa. Mi auguro che, visto l’interesse su Icaza che la nuova edizione italiana di Huasipungo ha suscitato, venga nuovamente edita sia per l’importanza dell’opera che per l’autorevolezza del traduttore.

Cholos rappresenta una evoluzione significativa rispetto alla Novela di quattro anni prima, sia dal punto di vista della realtà sociale rappresentata che da quello letterario.

Ritroviamo il latifondista aristocratico – qui don Braulio Peñafiel – che però, pur di mantenere l’apparenza orgogliosa del suo lignaggio, si indebita e deve cedere man mano i suoi possedimenti a San Isodoro al possidente agrario meticcio Alberto Montoya che ampia sempre più, in modo spregiudicato e vessatorio verso i suoi dipendenti – siano cholos o indios –, il proprio potere.

Peñafiel ha una bella moglie meticcia, che ripetutamente rimprovera di non essergli all’altezza e di non saper adeguatamente educare il figlioletto Lucas; mette inoltre incinta una serva india che darà alla luce Guagcho, un meticcio – presto orfano – dal carattere forte e determinato. I due fratellastri si incroceranno nel prosieguo della narrazione pur non riconoscendosi come tali; si innamoreranno entrambi della stessa ragazza, figliastra di Montoya, ma inarrivabile per entrambi. Lucas dovrà imparare a mantenersi da solo dopo esser stato cacciato dal collegio dei gesuiti per il carattere ribelle e per la vergogna di una madre che – il marito oramai invalido e del tutto privo di introiti, pur continuando a vivere nel palazzo della capitale – troverà in modo di mantenere sé e il marito accettando (e incoraggiando) le profferte di Antonio Mena, “un ometto miope e timoroso” non nobile ma generoso nel prestar denaro. E dopo Antonio Mena, molti altri.

Luca diventerà maestro, in odore di “eresia”, a San Isodoro mentre Guagcho diventerà progressivamente l’uomo di fiducia di Montoya e, quando questi nella sua ascesa sociale si trasferirà con la famiglia nella capitale, l’amministratore della sua tenuta.

Ritroviamo il parroco del paese, maneggione, affarista e senza scrupoli che sa sfruttare la credulità popolare e non esiterà, ad esempio, a lasciar imputridire in piazza i cadaveri dei defunti sinché i famigliari non trovino modo di pagare il funerale.

Ritroviamo gli indios sottomessi e timorosi anche quando vorrebbero esprimere la propria protesta per le vessazioni a cui son sottoposti. Tra loro emerge il giovane Chango che sarà accusato di aver ucciso un vecchio indio, suo suocero, mentre il vero responsabile era Guagcho che aveva colpito il vecchio in un eccesso d’ira nel corso delle proteste indie.

Guagcho, licenziato da Montoya, cerca di far tacere il rimorso ubriacandosi e cercando di convincere amici ed abitanti di esser lui il vero assassino. Deciderà di far evadere José Chango che, ferito, in carcere aspetta di esser trasferito a Quito per il processo e l’inevitabile condanna. Dopo la liberazione riesce a farlo curare di nascosto e la narrazione si conclude con la decisione di entrambi di lasciare quelle terre. Troveranno altri a cui unirsi, diventeranno – ci lascia intuire l’autore – banditi o magari guerriglieri, il che è, in fondo, la stessa cosa.

– Se rimarremo qui a lungo, ci acciufferanno – affermò il cholo temendo che l’indio non volesse sradicarsi da quel luogo. Ebbe invece la sorpresa di udire;

– Ma certamente!

Acconsentiva, forse incominciava ad essere inquieto. Per provare meglio insistette:

– A dove andremo?

– Dove vuoi tu… Ormai non ho più ne bambino né moglie… hanno portato via tutti… In qualche altra fattoria ci daranno da lavorare…

– Mai più fattorie, – protestò istintivamente il Guagcho, e dandogli una speranza soggiunse:

– Vedrai come ci andrà bene quando saremo in tre…

Nel dire così sentì un impeto di aspirazioni represse. Voleva di nuovo udire il consiglio dell’uomo che gli aveva parlato fraternamente quella notte[32]. Se fosse stato necessario, lo avrebbe cercato in ogni angolo della terra d’America.

L’alba sorprese i fuggitivi in cima a un altipiano. Il Guagcho si alzò l’ala del cappello in segno di lotta, e il poncho dell’indio fiammeggiò come una bandiera contro lo sfondo purpureo dell’aurora. [p. 324]

 

Se Huasipungo ci consegnava una situazione senza sbocco, chiusa, al di dà della forte denuncia, in questa novela tutto è in movimento, dal declino dell’aristocrazia proprietaria bianca, all’ascesa di una nuova classe di possidenti meticci, al crescere di una intellettualità (Lucas) che si pone il problema dell’eguaglianza e rompe i rapporti con il conservatorismo clericale, a un ceto meticcio più povero che incomincia a superare i pregiudizi contro i roscas. Per arrivare ad un finale, al di là dell’immagine un po’ retorica dell’ultima frase, che – in questo caso sì – apre alla speranza lasciando intravedere più possibilità.

Se la vicenda più complessa di quella rappresentata nel romanzo del 1934 ci dà – ricordando le osservazioni di Donoso – una “opera aperta”, notevole è anche la differenza delle modalità narrative utilizzate.

Certo ritroviamo ancora alcuni passaggi di dialogo diretto collettivo che hanno caratterizzato l’opera precedente, ma soprattutto emerge l’aumento della complessità ad esempio con il passaggio dal narratore esterno a uno interno laddove Lucas, nel momento in cui lascia Quito per svolgere il suo incarico di maestro a San Isidoro, prende in mano e legge – e a più tratti commenta – i suoi «Appunti per un romanzo» in cui rivive il declino della sua famiglia e l’evoluzione del suo tormento interiore; almeno tre punti di vista narrativi che si intrecciano nelle stesse lunghe pagine. E ancor più quando il racconto di Lucas sfocia nel ricordo di un sogno allucinato ambientato su di una sorta di palcoscenico (una piattaforma) su cui si succedono una serie di montagne “che sembravano vagoni in marcia” in cima ad ognuna delle quali vi era una figura “vestita come un re”, una sorta di divinità che oscilla tra la tradizione animistica e quella incaica. Ed in ognuna di queste montagne – con i loro campi coltivati e le popolazioni locali, cui man mano sopraggiungono quelle esterne (colonizzatori, cholos, sacerdoti, militari)  che confliggono, si alleano, scacciano altri sotto la piattaforma – si rappresentano i diversi scenari, passati e futuri, della storia andina. Ed è nell’allucinazione del sogno che, tra lo sveglio e il dormiente, Lucas matura la sua scelta. Questa la conclusione del lungo sogno a metà fra incubo e reverie:

« Scoppiò l’ultimo punto luminoso. Già una luce mattutina filtrava dalla finestra e vidi con gli occhi aperti.

« La piattaforma era discesa ancora di livello; nel sotterraneo gli uomini abbronzati ed i cholitos avanzavano in ginocchio.

« L’inquietudine delle figure gonfiate, nel sentire prossimo il loro definitivo inabissarsi, diede luogo a conversazioni:

– La figura del proprietario -. In questo caso non importa la nostra vecchia inimicizia.

– La figura del prete -. Anche Iddio disse: È necessario perdonare ai nemici.

– La figura del militare: – Questi sono i sentimenti che ci animato per difendere la nostra amata piattaforma.

– Le tre ombre, unite: La nostra piattaforma sprofonda. Tutto per queste canaglie di cholos che non l’amano… Cholos sciagurati! È necessario che ci sostengano: poi li renderemo potenti, li salveremo dalla miseria in cui vivono.

« Per salvarsi dal naufragio, le tre ombre gettarono nei sotterranei, col vecchio trucco coloniale, grandi quantità di uomini pallidi.

« I cholitos, cadendo nel sottosuolo, non si eressero quali carnefici degli uomini abbronzati; come nel sogno, adesso sostennero il peso dell’impalcatura in una comune fraternità.

Sveglio, provai l’angoscia degli incubi. Gli uomini del sotterraneo, per non morire sotto il peso del tavolato che scricchiolava, venivano avanti trascinandosi. Non ne potevano più della loro vita, delle loro ossa!

« Vidi in maniera così chiara, che gridai nel mattino silenzioso:

– Sono uomini e stanno a morire come topi… Evviva i cholos, evviva gli indios!

« Sotto la spinta degli uomini schiavi, dinanzi ai miei occhi scomparve l’impalcatura della vecchia scena. Essi si misero in piedi, spezzarono le ombre e la piattaforma che era stata la loro tortura. Nelle mani dei cholos fiorì la luce della libertà, luce che inondò la mia camera. Il sole era sorto.

« Mi alzai allegro; finalmente avevo qualcosa di utile da dare, qualcosa che poteva essere. Era la mia fede. Da allora un orgoglio di uomo nacque dentro dl me ». [p. 254 – 255]

 

Ovviamente qui non siamo più nel verismo, ci avviciniamo non poco a temi e modalità della narrativa degli anni ‘60 e la lettura di questo successivo romanzo riflette nuova luce su Huasipungo e lo  apre a più ampi significati.

 

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[1] Jorge Icaza, Huasipungo, Elliot, Roma 2018; traduzione di Lucilla Soro e postfazione di Danilo Manera.

[2] Un ritratto della personalità complessa di Donoso lo troviamo in questo contributo.

[3] Ed. italiana, Bompiani, Milano 1974.

[4] Pag. 16-17.

[5] Donoso cita Doña Bárbara (1929) del venezuelano Rómulo Gallegos, Don Secundo Sombra (1926) dell’argentino Ricardo Güiraldes, El hermano asno (1922) del cileno Eduardo Barrios, Los de abajo (1916) del messicano Mariano Azuela e La vorágine (1924) del colombiano José Eustasio Rivera.

[6] Pag. 20-21.

[7] Pag. 45.

[8] Pubblicato in italiano da Il saggiatore col titolo L’ombelico della luna (2000) e riproposto dallo stesso editore dal 2011 con il titolo La regione più trasparente.

[9] Pag. 47-48.

[10] Pag. 52.

[11] Pag. 43.

[12] Pag. 57-58.

[13] Tad. italiana in Le armi segrete, Einaudi.

[14] Tradotto in italiano da Einaudi nel 1969 con il titolo Il gioco del mondo.

[15] Trad. italiana: La città e i cani, Feltrinelli 1967 (poi ripubblicato più volte anche da Rizzoli ed Einaudi).

[16] Pag. 124-125.

[17] Viene da ricordare innanzitutto Roberto Bolaño che utilizza spesso nella sua narrativa questo topos di scrittori inesistenti ma assolutamente plausibili ed esemplificativi.

[18] In Huasipungo, Elliot, Roma 2018, p. 186.

[19] Questo sistema proprietario è anche definito, specie in Perù, gamonalismo. Per l’Ecuador cfr.  Paola Sylva Charvet, Gamonalismo y lucha campesina. Estudio de la sobrevivencia y disolución de un sector terrateniente: el caso de la provincia de Chimborazo 1940-1979, Abya-Yala, Quito 1986.

[20] Simile al manso feudale.

[21] Quando ero a Quito (1987), una domenica eravamo fuori città, sulle pendici del Pichincha, su di un piccolo appezzamento dove i ragazzi giocavano ad Eco-volley, in una abitazione vicina vi era una festa. Mi è stato spiegato che era il momento conclusivo di un minga: i vicini e conoscenti dei giovani sposi, che andavano ad abitare in quella casa, avevano finito di costruire la strada rotabile che permetteva di raggiungere l’abitazione.

[22] Nell’edizione italiana del 1961 la frase quechua viene tradotta “Il nostro huasipungo!”, evidentemente meno potente e meno rispondente all’originale. Angel Rojas (cfr. più avanti) la tradurrà infatti in spagnolo con “İEl huasipungo es nuestro!”.

[23] Termine dispregiativo per indicare gli indios.

[24] Genio malefico dei fiumi e dei monti, identificato con l’arcobaleno che, nella cultura andina ecuadoriana, è portatore di sciagure.

[25] Indio.

[26] Angel F. Rojas, La novela ecutoriana, Ariel, Guayaquil – Quito 1980, pp. 202-206. Traduzione e link nel testo miei.

[27] Anche questo romanzo, come Huasipungo, è stato di recente tradotto e pubblicato in italiano: Edizioni Arcoiris, Salerno 2018. Una bella recensione di entrambe le opere narrativa è stata pubblicata su il manifesto a cura di Francesca Lazzarato: La voce ritrovata dei pueblos originarios.

[28] Forma di potere agrario simile a quello feudale impostosi sulle terre precedentemente appartenenti alle comunità indie.

[29] Latifondista schiavista.

[30] Sulle dis-avventure del concetto (gramsciano?) di nazionalpopolare una documentata e divertita ricostruzione (compreso il dibattito su Metello) la troviamo in Tutta colpa di Antonio. Evoluzione del concetto di nazionalpopolare da Gramsci a Pippo Baudo.

[31] È stata poi riproposta, sempre nella traduzione di Carlo Bo, da Mondadori nel 1955.

[32] Si riferisce a Lucas, il maestro e fratellastro (ignoto come tale) Lucas, con cui aveva parlato a lungo, anche lui fatto allontanare dal prete per le sue idee sovversive.

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